Ahmed

“Avete notato come mi guarda?” dice Canetti sollevandosi sui gomiti, tossicchiando e raspando. 
La stanza, disordinata e in penombra, è immersa in una spessa coltre di fumo, ma non importa, perché i genitori di Lonero non sono in casa, ci sarà tutto il tempo per fare aria. E poi fuori fa freddo. 
“Che robaccia avete comprato? Gratta come il mio cinquantino”. 
“Chi è che ti guarda?” 
“Sì fa cagare, ma che pretendi, Ahmed ultimamente ha cambiato giro”. Lonero quando dice le cose le dice come se fosse uscito da una bisca clandestina. 
“E chi è Ahmed?”. L’unico che fa domande è il Bambi, stracciato ai piedi del letto con lo sguardo fisso al soffitto. 
Lo sbuffo strafottente di risposta è di Lonero, come a dire, chi vuoi che sia, che domanda è?, che poi conclude tutto in un risolino perché in fondo che importa. 
“Guarda che non è marocchino quello lì. La mamma è più italiana di te, Lonero. E non si chiama Ahmed”. Canetti su certe cose è preciso e non tollera che si scambi questo per quello. 
Fuori le ombre del pomeriggio stanno facendosi sempre più oblique, eccetera eccetera, perché si sta facendo sera. 
“Chi è che ti guarda?” 
“Quando?” 
“Ma sei stupido, Canetti? Hai detto che qualcuno ti guarda.” 
“Tutti a lamentarvi che il fumo fa schifo però siete belli in botta”, ridacchia Lonero, che si sta schiacciando un foruncolo sulla spalla con estrema dedizione. Riesce a far sembrare tutto normale, Lonero. 
“E comunque ha la pelle scura. La mamma no, ma il papà secondo me è marocchino, o pakistano, chennesò. Ma non è italiano, cioè non del tutto, per quello che importa”. De Giacomi sta in piedi, quasi sempre. Anche a scuola è difficile farlo stare seduto. E se è seduto sembra che una forza lo pungoli di continuo. Non sta mai fermo, con quelle gambe sempre contratte in spasmi di impazienza. 
“Pakistan, Marocco, siam lì eh? Sei l’unico che non fuma tu, apposto stiamo”. Lonero ride sempre, ma sottilmente, come se buona parte della risata rimanesse incastrata dentro. 

“Il prof Tondelli, è lui che mi guarda”. 

Quando il gruppo è riunito si può dire più o meno tutto, più o meno in qualsiasi ordine, più o meno lasciando da parte la pretese di dover dire le cose in un certo modo per sembrare qualcuno che non si è. Insomma, il gruppo è fidato, una fiducia che si consolida in momenti come questo, in cui è vitale essere come un corpo solo, un solo cervello, nel segno di una complicità assoluta. Saltare la scuola in quattro, tutti assieme, non è stata una grande idea. Ma è stata un’idea condivisa, e questo è quello che conta. 

“L’altro giorno, quando mi interrogava, non mi mollava un attimo. Non lo sopporto”. Canetti a volte è capace di rabbuiarsi e rimestare, e in quei momenti il suo volto da ragazzino si fa improvvisamente adulto, deformato dal peso di certi pensieri improvvisi. 
“E chi doveva guardare mentre ti interrogava?”, bofonchia il Bambi. 
Nella stanza per un attimo tutto si è fermato. I tre guardano Canetti e si chiedono se quella sia una storia per cui valga la pena ritagliare un po’ di attenzione residua, bere dell’acqua e rimettere in sesto le bocche impastate e molli. 
“In che senso ti guardava, Canetti?”. Lonero si è fatto cupo. Vuole capire, quando non capisce si sente come un animale minacciato. 
“Mi guardava come non doveva, come se fosse interessato”. 
“Ma che dici? Ti guardava come si guarda uno che non sa un cazzo”, prorompe De Giacomi con un leggero tremolio nella voce, ma nonostante questo più deciso del solito. 
“De Giacomi, stai zitto, io lo so come mi guardava. E non mi piace per niente”. 
“Se ti guarda così la Barelli però non ti lamenti mica”. 
“Cosa centra, De Giacomi? Qui Canetti ci sta dicendo che il prof è frocio. Capisci la differenza?”. Lonero si è irrigidito e ha messo su il classico ghigno che tira fuori prima di uno scontro. 
“Ne giriamo un’altra?”. Bambi non ama il conflitto. 
“Certo che la so la differenza Lonero, datti una calmata. Dico solo che uno sguardo è solo uno sguardo, mica ha fatto nient’altro. E poi…”. De Giacomi, sempre in piedi, vaga con lo sguardo nella stanza fumosa, come a cercare un qualche punto fermo. Lonero lo scruta ma in fondo su questa faccenda non è che abbia molto altro da dire. 
“E poi?”, chiede Canetti che ora si sistema il ciuffo e si mette seduto. 
“E poi se è omosessuale che ce ne frega? A me piace come spiega le cose, punto”. 
“Anche a me piace come spiega Tondelli. Ed è uno che non caga troppo il cazzo. Questo è l’importante”. Anche il Bambi ora è seduto composto, e sta sminuzzando gli ultimi pezzettini in una cartina. 
“Ti piace come spiega le cose…”. Canetti guarda dritto De Giacomi che ricambia fisso, poi punta Lonero, che alza gli occhi al cielo e lancia uno sbuffo: “Canetti, però è vero che hai fatto una figura di merda l’altro giorno durante l’interrogazione, finiscila con le stronzate”. 

I quattro ridacchiano. 
“Se mi guardasse così la Barelli a quest’ora non sarei qui con voi sfigati”, taglia corto Canetti. 
Il Bambi ha finito il suo capolavoro, lo scatto dell’accendino irrompe nell’atmosfera di nuovo distesa. De Giacomi finalmente si accascia sul letto, Canetti si ributta a pancia in giù stringendo un cuscino, Lonero aspetta impaziente il suo turno, sempre col suo sorrisetto stampato sulla faccia, come quello di uno che ha capito le cose senza il bisogno di dire e pensare chissà che.
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Una canzone, un disco. "Endless Ladder", The Antlers (Undersea EP, 2012)

In un’epoca ormai lontana, gli Antlers potevano rappresentare un ragionevole punto di incontro tra le varie correnti di un indie americano che, tra fascinazioni sperimentali (Deerhunter), freak out post-post-post-qualcosa (Animal Collective), scioglievolezze dream pop (Beach House), riscoperte folk (Bon Iver) e pomposità rock autoriali (The National), forniva innumerevoli spunti per una formula capace di tenere assieme le parti. 

Purtroppo la formula senza capo né coda degli Antlers non ha saputo tenere fede alle aspettative. La speranza, tuttavia, è l’ultima a morire. Infatti, nell’EP Undersea, pubblicato nel 2012, c’è un brano che rappresenta quanto di meglio sfornato dalla band, dando forma compiuta – per quanto estemporanea - alle possibilità dischiuse da una scena musicale in fermento. Questione di ritmo, forse, o di gradazione delle componenti: sta di fatto che fin dal primo brano tutto sembra funzionare senza intoppi. "Drift Drive" procede elegantissima, senza alcuna ansia da prestazione, tra quel lamento di tromba che aggiunge un intelligente cromatismo ai rintocchi di piano e al motivo acquatico della chitarra, mentre Peter Silberman gestisce i vocalizzi in perfetta armonia minimalista. 

È però "Endless Ladder", con i suoi quasi nove minuti di durata, a raggiungere la perfezione. Il brano prende forma da pochissimi elementi: il feedback della chitarra elettrica, il loop vocale e lo sgocciolio di poche note di tastiera. Proprio mentre la sezione ritmica irrompe nella sua cadenza al cloroformio, ecco che il brano si schiude, punteggiato dagli intarsi chitarristici e dai fraseggi magnetici del piano elettrico, mentre tutt'attorno vortica un pulviscolo elettronico immerso nell’eco, solleticando lo spettro uditivo e infondendo allo sviluppo del brano una connotazione psichedelica e kosmische. “If I seem much different, more removed, if I seem distracted, its not from you”. E così, cullato da questo dolce incedere anestetizzato, il lirismo di Silberman sembra non voler porre troppa resistenza alle forze che lavorano incessantemente al suo riassorbimento, al suo inabissamento. Anzi, il testo è un lento inno al perdersi, allo sciogliersi, al domandare lasciato piacevolmente senza risposta, cullato dalle sensazioni ben più soddisfacenti delle dinamiche sonore, in sviluppo continuo e allo stesso tempo ineffabile. “So i feel refracted, split in twenty two”, canta Silberman, enfatizzando il senso di smarrimento e di scioglimento in cui anche l’ascoltatore è ormai invischiato, complici i sibili sempre più fitti e stordenti sullo sfondo, nonostante ogni elemento stia già iniziando lentamente a riassorbirsi, sottraendosi, sfumando, dalla pasta compositiva. Scopriamo quindi, in un decorso di pochi minuti, su quali fragili equilibri poggiavano le armonie lasciate crescere e gonfiarsi prima di questa fine subacquea, ennesimo espediente compositivo che proprio al vuoto, all'assenza, consacra il suo finale. 

Un brano che, da solo, salva una carriera. E che, forse, suona così bene proprio perché distante dall'approccio collagista e ipertestuale di molta musica contemporanea. Qui ci si immerge in una visione, in uno spunto intuitivo, dilatando la discesa a piacimento, senza fretta e pressione alcuna. Non è cosa da poco nel continuo baraccone pop degli ultimi anni.



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Una canzone, un disco. "Windowsill", Arcade Fire (Neon Bible, 2007)

arcade fire neon bible
Gli Arcade Fire sono stati, almeno al tempo degli esordi, un’irripetibile celebrazione di togetherness. Il loro era un gruppo nel vero senso della parola: ogni brano si nutriva di un collettivismo che lasciava poco spazio al singolo, nonostante l’istrionismo di Win Butler. In Funeral questo senso della coralità era prorompente, esplosivo. In Neon Bible invece, pur non lesinando l’enfasi chamber tanto cara alla band di Montréal, tutto è ripiegato in una più densa riflessività, in un mood torbido e suburbano (dove su Bowie ha la meglio lo Springsteen di Nebraska), per una scrittura che strappa i climax a forza di intrichi di suono in lento, magmatico accumulo, dove la tensione crescente viene spezzata da improvvisi riflussi o da esplosioni repentine. Registrato in una vecchia chiesa presbiteriana, Neon Bible vive di risonanze, di impasti infittiti di eco, di un sound greve eppure in qualche modo vaporoso, espanso. 

Sounds and visions: le liriche del secondo lavoro degli Arcade Fire condividono con la gestione del suono la stessa ansia infervorata da predicatore millenarista, tra imponenti atti d’accusa fin du siècle, fino a passaggi dove si fondono – marchio di fabbrica della band, come già detto – percorsi personali e destini collettivi. “Windowsill” è quindi il perfetto apice di un disco che trasuda un’esigenza espressiva e raffigurativa che si strozza e tracima, che non riesce a stare nei margini, che respira affannosa tra slanci e ritirate. Quei tre accordi ripetuti di chitarra si fanno largo sul ronzio insistente, in sottofondo, dei fiati e degli archi che finiranno per prendere sempre più spazio, amplificando la potenza di un rifiuto disperato e ottuso: “I don’t wanna see it at my windowsill”. Sì, perché la consapevolezza è quella di una marea che monta, di una mente che vacilla, di una casa che brucia, di una guerra inarrestabile. Lo sguardo è però quello di un adolescente impaurito che scambia la volontà di fuga dalla casa di un padre abusivo con il rifiuto di un’America altrettanto nemica, che fa convergere l’intrusione della televisione spazzatura con le più minacciose intrusioni militariste in vista della nuova guerra santa. Profetico, lacerante, il piccolo grande rifiuto degli Arcade Fire coinvolge tutti noi, tutti quelli che per anni si sono trincerati nello slogan “non in mio nome”, pensando così di poter sfuggire al precipitare di una storia che si credeva di poter tenere virtualmente fuori dal campo visivo, di poter sigillare oltre gli spazi domestici, privati, nell’illusione di poter spargere scintille evitando il conseguente incendio. 

Lo slancio espressivo in Neon Bible, così ben tipizzato nel brano in questione, non è solo quello di una band capace di cogliere in qualche modo lo spirito del tempo, ma anche quello di un collettivo consapevole del suo aver portato su livelli di notorietà inediti le istanze di un movimento che da anni serpeggiava nel sottobosco indie: la wave canadese che, prima degli Arcade Fire, era rimasta un fenomeno in penombra, era ora al centro della scena. Come al solito la notorietà porterà ad album sempre meno ispirati e sempre più banali, ma la doppietta Funeral-Neon Bible rimane tra i caposaldi del pop del nuovo millennio. 



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Sables d'Or

Sables-d’Or-Les-Pins arriva dopo l’ennesima, lunga, dritta strada bretone. La mattina è iniziata presto, con un gran mal di testa. Questa cittadina balneare è stata pensata per ospitare personaggi del calibro di Scott Fitzgerald. Poi la crisi del ‘29 ha spazzato via ogni illusione. Di quel sogno rimane soltanto l’ordine desolato e rigoroso delle aiuole all’inglese, che nel ‘21 presero il posto delle dune di sabbia. Il viale alberato è un invito alle dolci passeggiate estive lungo villette in classico stile bretone e numerose licenze années folles sparse qui e là, tra piscine fluorescenti, hotel sfarzosi e bianchi casinò, fino ad arrivare alla grande rotonda dove convergono tutte le strade, risolvendo nella veduta sulla baia le eleganti fantasie della planimetria cittadina. La spiaggia, una bianca distesa di sabbia fine, raccoglie i profumi di una Manica che inizia a perdersi nell’Oceano. 

Fermo la macchina molto prima della rotonda, considerando l’opportunità di una passeggiata lungo il viale di questo posto così ricercato, eppure così arenato in un’impossibilità cicatrizzata nel tempo. Una città fantasma che fa finta di niente dal 1929. Un uomo taglia il prato, io lo guardo lavorare mentre le gambe si riabituano a camminare, dopo ore di viaggio. 
Ormai il mio scopo è soltanto quello di andare avanti, per quanto la sosta sia ancora un rito a cui assegno una certa sacralità. Ho ancora vive le sensazioni delle scogliere di cap Fréhel, che precipitano inesorabili nel mare annullando in un sol colpo le traiettorie disegnate dai sentieri brulli nascosti tra brughiere di erica e ginestre. E ora sono su questa promenade che doveva brulicare di facoltosi turisti inglesi e che è finita per diventare l’ennesima placida località per pensionati e viaggiatori casuali, di passaggio. 

Cent’anni fa, un soffio. In fondo continuiamo a ripercorrere le stesse illusioni. Solo le ripide falesie di granito sfidano le nostre pretese di piegare il caos alla nostra volontà. Visitando le città d’Europa ho sempre pensato che certi luoghi plasmati dall’uomo, come una grande piazza, un viale monumentale, il cortile di un palazzo signorile, possano strutturare anche chi li percorre. Le geometrie urbane esercitano una forza capace di disciplinare il movimento, di inserire l’uomo in un contesto, facendo della sua presenza un fatto scenico, estetico, come proiettandolo sul palco di un teatro. La stessa cosa non succede in natura, dove invece la presenza umana si perde, si scioglie, risultando ridimensionata e vana, costretta a un’improvvisazione di second’ordine. E cosa dire, invece, di questi luoghi che sigillano un fallimento, una vanagloria? Non è anche questo posto una sorta di scenario naturale, catastrofico, nonostante le sembianze ordinate, artificiali, immobili? Non sono forse questi passanti, io stesso, semplici figuranti immiseriti dalla percezione di questa forza che schiaccia, da questa resa inesorabile a potenze più grandi, da questo senso di sconfitta storica? 

Finito il viale, con le ultime arcate punteggiate da tavolini, non resta quindi che la spiaggia, che stride e stona, perché il confine non è netto. Niente precipita da nessuna parte, tutto si sfiora, si lambisce in modo ambiguo, nascondendo un mutuo disprezzo irrisolto. Torno indietro, sento che la malinconia del decadimento impregna questo luogo, una grande sabbia mobile dove si potrebbe tranquillamente affondare con un sorrisetto ebete stampato sul volto. Mi conforta il rombo del motore e il riacquistato senso del movimento. Un’altra fuga, la mia. Un dettaglio su cui preferisco non soffermarmi. Non mi inganno però sul fatto che Scott Fitzgerald fosse un ricco capriccioso e lunatico. E lasciarmi alle spalle un posto che per lui sarebbe stato perfetto mi placa, come una di quelle bugie delicate che si raccontano ai bambini perché dormano tranquilli.
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Saint-Brieuc

Il vecchio noce spacca in due lo stradone di ciottoli grossolani che, di fronte a quell'ostacolo, si sdoppia in diramazioni opposte, ognuna costretta a digradare per conto suo verso la cattedrale, tra antiche casette a graticcio dai colori tenui in elegante contrasto con la pietra scura che altrimenti si imporrebbe nello scenario medievale del borgo. Il noce è lì da chissà quanto, e ora una piazzetta lo circonda come a volerlo preservare. Pare che tutta la città si sia sviluppata partendo dal vecchio noce. Prima la strada deviata da quel tronco secolare, poi la piazzetta a cuneo, con i muriccioli su cui da secoli si adagiano gli avventori dei caffè intorno, e così tutta la morfologia della città sembra essersi organizzata per assecondare le forme a mano a mano imposte da quell'unico elemento immoto, fisso, eterno. Proprio come le onde che si formano attorno al tonfo di un sasso lanciato nell'acqua, così la città si propaga a cerchi concentrici, via via più frastagliati e immemori della loro necessaria origine. 

Io sono sotto al noce, la seconda birra fresca sul mio tavolino in ferro smaltato, seduto sul muretto che delimita il perimetro della piazzetta. Attorno a me poche persone, forse perché è ancora presto e gli abitanti di questa città devono ancora uscire da lavoro. Sono qui perché volevo viaggiare da solo, e invece non faccio che cercare lo sguardo degli altri. Potrei dire di essere proprio come gli strati più esterni di questa città nata dal lancio di un sasso: man mano che proseguo nel viaggio mi deformo e non combacio più con le intenzioni della partenza. 

Sono ormai un paio d’ore che sto seduto a questo tavolino. I bicchieri di birra si accumulano, lenti, per venire portati via da una cameriera simpatica, che ora mi sorride. Deve aver capito che, nonostante il tasso alcolico, non rappresenterò un problema. Con il passare del tempo è come se la città mi abbracciasse, dandomi l’illusione di una familiarità del tutto frutto del torpore dell’alcool. L’aria profuma, è sera. Una coppia vicino a me è impegnata in una di quelle chiacchierate abbandonate e intime, allacciata da una sinuosa prosodia straniera di cui colgo appena qualche frase. Vorrei allacciarmi a quel ritmo, prendere l’onda e unirmi alla discussione. Lui ad un certo punto ha un moto, un impeto delicato, gira il tavolino rettangolare di novanta gradi, in modo da accorciare le distanze. Un bel gesto. Lei apprezza, perché approfittando della nuova vicinanza, gli stringe un braccio. Si guardano. Distolgo l’attenzione, questa non sembra una scena destinata ad essere consumata da qualche estraneo a caso. 

Prendo il taccuino lasciato aperto sul tavolo e segno tre strofe tremolanti: 

“Non è che una speranza vana nel tempo 
Lo sguardo che rivolgo al vuoto astratto 
Che si sdoppia di continuo tra te e me” 

Tutto in questo viaggio è doppio. Il rifrangersi del cielo sui vasti bagnasciuga inumiditi dalle maree, il confronto continuo tra terra e oceano, la quiete dei borghi e la furia agitosa del vento che spinge le onde contro le scogliere a precipizio, le intenzioni che mi spingono e mi frenano. Ora, però, è tempo di alzarsi. Mi guardo ancora attorno ma non trovo nessun appiglio al quale aggrapparmi. Devo continuare a spingermi oltre, proseguendo verso ovest. Non è per niente scontato abbandonare di continuo ciò che ci fa star bene. L’istinto mi suggerirebbe di fermarmi, di allungare il soggiorno in questa città che mi pare tanto accogliente, tanto mia. Star fermi è la forza seducente più insidiosa da contrastare durante un viaggio. Mi alzo a fatica, le gambe indurite dalla seduta prolungata e dalle tante birre. Lancio, con la coda dell’occhio, una sbirciata alla coppia vicino. Non si stringono più, nemmeno si parlano. Lei mi rivolge un’occhiata svogliata, mentre io raccolgo lo zaino e cerco di tenermi saldo, consapevole di apparire per quello che sono: uno straniero solitario e ubriaco che sta lasciando per sempre questo posto, senza lasciare niente di sé. 

Dal canto mio, invece, c'è molto in gioco. Rescindo un legame effimero, ma pur sempre un legame. Mi decido, saluto i due, schiarendomi la voce e incespicando in un “au revoir” che suona vano. Loro, però ricambiano entusiasti e mi sorridono. Hanno pochissimo da perdere. Mi basta così poco per ritrovare il coraggio. Mi allontano senza voltarmi, pago e saluto ancora la cameriera, la mente già oltre, già a domani. La strada che ho fatto prima la ripercorro all'incontrario, per l’ultima volta. So dove andare. Accetto tutto. Solo il noce, come sempre, resta fermo, immobile.
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Recensione ► The Millennium - Begin (Columbia, 1968)

La storia del pop è da sempre una storia di produttori geniali: Phil Spector e Joe Meek, con il loro approccio futurista e innovativo, Sam Phillips e il rock'n'roll, Don Kirshner e la sua scuderia Brill Building, Berry Gordy e la Motown, per non parlare del George Martin "quinto membro" dei Beatles. Il produttore definisce la visione, guida l'artista (in maniera più o meno dittatoriale, oppure assecondandone maieuticamente la personalità), struttura il soundscape, mette a fuoco un timbro, un marchio di fabbrica (si pensi a Steve Albini). Curt Boettcher, nome obbligatorio in una qualsiasi classifica dei migliori produttori di sempre, era capace - come molti altri del suo mestiere - di dominare tutto il processo creativo, dalla produzione al songwriting, dall’arrangiamento all’ideazione di stravaganti tecniche sperimentali, rappresentando una delle più importanti figure del suo tempo: tra i padri putativi del sunshine pop, Boettcher mise la sua peculiare visione al servizio di band di culto come The Association e Eternity's Children, partecipando come musicista e autore, assieme al produttore dei Byrds Gary Usher, alle esperienze estemporanee ma fondamentali di Sagittarius e Millennium, due band cruciali per la definizione dell’estetica sunshine e baroque pop californiana di fine anni Sessanta. 

Il progetto Millennium prende forma dai Ballroom, band in cui militavano Boettcher e Sandy Salisbury, e si completa grazie all’ingaggio dei chitarristi Michael Fennelly, Lee Mallory e Joey Stec (cinque chitarristi, se contiamo anche Curt e Sandy), del batterista Ron Edgar e del bassista/tastierista Doug Rhodes, entrambi provenienti dall’esperienza Music Machine, assieme al co-produttore Keith Olsen. Pubblicato nel luglio del 1968, Begin, primo e unico lavoro dei Millennium, è un incredibile capolavoro, perfetto sotto ogni aspetto, punto di arrivo e di partenza per la psichedelia, il pop barocco, il rock progressivo, correnti plurime cristallizzate in una manifestazione artistica senza tempo. Non solo: in Begin, come racconta David Howard in Sonic Alchemy: Visionary Music Producers and Their Maverick Recordings, si sperimenta alla grande, utilizzando per la prima volta un registratore a sedici tracce, manipolando i nastri, giocando con l'effetto reverse sugli eco, mescolando musica elettrica e strumenti tradizionali, sontuosi arrangiamenti orchestrali e complessi overdubbing di armonie vocali, risonanze e timbri inusuali, per un vero e proprio wall of sound di effettistica all’avanguardia. Da notare, inoltre, l’approccio totalizzante - una forma di DIY in anticipo sui tempi - con il quale il produttore-musicista si impossessa della lavorazione dell’album, sottraendolo al controllo della Columbia: “we produces ourselves […], half of the Millennium’s production staff is in the group and actually play. In effect, all of us are producers”, dichiarava un Boettcher eccessivamente democratico (basti leggere questa intervista di Michael Fennelly per capire cosa intendo) alla rivista losangelina Open City. 

Si parte con "Prelude", sorta di trip hop ante tempore (con tanto di loop di batteria) in salsa fieristica, tra arrangiamenti di clavicembalo e ottoni che imbastiscono il tema della successiva "To Claudia On Thursday", delicatissima e sognante, scritta da Michael Fennelly e Joey Stec, perfetto connubio corale di sunshine pop e bossa-nova, impreziosito da un basso tondo e plastico e dall'intervento esotico della cuíca brasiliana. La scaletta non smette mai di stupire: una dopo l’altra si avvicendano perle come "I Just Want to Be Your Friend" e "I'm With You", colme di preziosismi in sede di arrangiamento, tra tenue psichedelia, acid rock e elementi da camera, senza contare il caldo blue-eyed soul di "Sing to Me", la sperimentazione timbrica della guitar pop di “It’s You”, con ogni elemento espanso in un coacervo di loop vocali e pennate sorde di chitarra, il country rock alla Byrds (con citazione di “My Girl” dei Temptations tra le righe) di "Some Sunny Day", l'hard rock gonfio e spazioso di "The Kow It All", o la psichedelia barocca e visionaria di "Karmic Dream Sequence #1", profondo lavoro su nastri e suoni astratti (la coda è davvero qualcosa di mai sentito). Gemme tra le gemme la splendida "5 A.M.", scritta da Sandy Salisbury, variopinto bozzetto sunshine condotto da un basso giocoso su una ritmica a base di bongos e su vaporose correnti di armonie vocali; "The Island", scritta da Curt Boettcher, sonnacchioso folk-pop di sonorità molli e narcotizzanti e corredo di effetti tropicali; "There Is Nothing More to Say", firmato dalla coppia Boettcher/Mallory, favoloso ed enfatico inno psych-pop striato dalle chitarre in tape reverse e dalle magniloquenti sovra-incisioni di armonie corali che seguono il continuo e drammatico crescendo del brano. 

Costato un'immensità (100mila dollari) e non seguito dal dovuto riscontro commerciale, Begin è reso ancora più affascinante dal suo essere un prodotto "fallimentare". Troppo avanti allora, oggi è invece uno scrigno delle meraviglie capace di dispensare tutto il suo potere creativo. “We’re not tryign to appeal to the Underground market, because it really doesn’t exist. We’re over ground”. Di cinquantenni così, in giro, se ne vedono (sentono) pochi. 

*Buona parte delle informazioni per questa recensione sono state reperite QUI.
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