Tramontana

È da venti minuti buoni che aspetto. La cittadina che nella stagione estiva ribolle di persone ora sembra rattrappita nell’aria gelida dell’inverno. Soffia un vento di tramontana che si propaga tra i caruggi e i portici illuminati di un arancio fioco. La pietra del lastricato è scura e riluce, umida, mentre cerco di affondare nel cappotto, nascondendo la faccia nel bavero. 
Era da molto che non tornavo qui. 

Questo paesino di riviera riscopre una sua dura fierezza, d’inverno. Come se fosse costretto a guardarsi allo specchio dopo la baldoria, snaturato e infastidito dalle fiumane agostane, irretito dalle pretese dei turisti di trovare approvazione nelle prostrazioni riverenti dei venditori di vacanze, riscoprendosi l’eterno covo di pescatori. 
Una volta era tutto più semplice, i villeggianti avevano pretese meno simboliche. L'alberghetto dove lavoravo era tutto tranne che simbolico. Le premesse erano chiare: mangiare, dormire, punto. Nessuna aspettativa di vivere un’esperienza, o di essere vezzeggiati come stupidi piccoli budda all’ingrasso. Forse sto esagerando, a quel tempo ero giovane e il mio lavoro era un fatto di necessità, di fame d’indipendenza. Stavo in cucina e cucinavo, niente di più. Cucinavo quello che mi avevano insegnato e, in parte, quello che improvvisavo grazie all’eredità assorbita dal mio entroterra brusco, deindustrializzato. 

Chissà come è cambiata la signora Carla. La ricordo piccola e tenace, capace di mandare avanti la struttura senza fiatare, a testa bassa. C’era lei dietro alla pulizia delle camere, alla lista della spesa, alla gestione delle prenotazioni, alle faccende di contabilità, al servizio in sala. Passavano giornate intere senza vederla di persona, incappando però nei molteplici ed inequivocabili segni del suo passaggio. Il marito, dal canto suo, era il factotum dell’albergo. Risolveva i problemi, aggiustava le cose, rifocillava gli animi. All’inizio mi aiutava in cucina, poi aveva capito di preferire il rapporto con la clientela. E gli piaceva sentirsi utile, purché l’utilità fosse qualcosa di ben tangibile. Io dopotutto ero bravo, nel giro di qualche mese gestivo da solo la piccola brigata dietro ai fornelli. 

- Beviamoci una cosa. Quasi non mi ha salutato. Una pacca sulla spalla e gli occhi bassi. È passato troppo tempo. Nel frattempo è cambiato tutto. Però anche lui sa che serate come questa non sono fatte per star fuori nel nulla a prendere freddo. E io ho aspettato abbastanza qui nel mio giaccone sformato. Il posto dove ci sediamo è un bar qualunque, uno di quelli dove trovi di tutto, perché la sua funzione è quella di dare da bere alla gente che non ha voglia di starsene a casa. E allora beviamo. Non ci diciamo una parola. Lui saluta qualche avventore, scambia due parole di rito con la barista che lo chiama ancora figgeu. A me invece non mi conosce più nessuno. 
Finalmente, finito il primo bicchiere e iniziato il secondo, si scuote. 
- Ricordi? 
- Belin se ricordo. Bei tempi. 
- Sì, perché eravamo giovani e non ce ne fregava un cazzo. Ricordi quel viaggio? 
Sorrido. Scappati in Francia da un giorno all’altro perché a lui l’aveva mollato la ragazza. Per partire avevo lasciato anche la mia, tanto una valeva l’altra. Alla fine non avevamo nemmeno i soldi per fare l’ultimo pieno, ci siamo giocati cinquantamila lire a calcio con un gruppo di francesi senza nemmeno una posta da puntare. I nostri avversari sono andati sulla fiducia ed erano pronti a prendersi la macchina come trofeo, o che ne so io. Però abbiamo vinto. 
- Abbiamo vinto quella volta, dico come illuminato. 
- Quella volta sì. Mi risponde tornando a guardarsi le scarpe. 

Quando usciamo camminiamo verso il mare, ripercorrendo i viottoli che inghiottono i nostri passi sordi. Evitiamo di passare lì davanti, a nessuno fa piacere vedere quel posto ora, così diverso ed estraneo. Sono stato io a prendermi cura di tutto quando il proprietario è stato male all’improvviso. Per fortuna la stagione era agli sgoccioli, rimanevano pochi clienti, gente che frequentava l’albergo da decenni e che sceglieva quella stagione crepuscolare per lasciarsi cullare nel torpore della luce preautunnale, per godere degli spazi liberati e placati dopo le invasioni barbariche, riscoprendo un'intimità possibile solo in quel periodo dell’anno. L’albergo aveva un suono diverso in quei giorni. Dalle scale del primo piano si sentivano tintinnare le vettovaglie giù in sala, i profumi della cena si propagavano nella penombra desolata della hall deserta, i pochi avventori entravano e uscivano a ritmi regolari come in una pensione, li si sentiva calpestare il corridoio mollemente, adagio. Una volta partito l’ultimo cliente non era rimasto che pulire a fondo la cucina, rassettare le camere, stipare la biancheria dopo svariati cicli di lavaggio (il profumo di bucato aveva ammantato per giorni il perimetro dell’albergo), controllare le ultime bolle e saldare i conti in sospeso. E poi le telefonate per avvisare i clienti abituali della situazione. Riaprite la prossima estate? Non si sa, speremu. Ero stato colmato da un sentimento sacro nello svolgere quel compito, l’avevo officiato come un rito, prendendomi del tempo, facendo le cose con estrema cura. Al momento di girare la chiave del portone di ingresso, dopo aver chiuso le ante e staccato la corrente, mi sono sentito un nodo in gola. Avrei voluto recitare una preghiera, come alla fine di una veglia funebre. Invece ho lasciato il mazzo nella cassettina della posta e sono tornato a casa masticando una mezza bestemmia. 

- Ci tenevamo a ringraziarti. La mamma, sai, non è più tornata qui. E tu non so cos’hai fatto, dopo. Ma alla fine siamo tutti andati avanti. Ci tenevamo a ringraziarti... 
Lo bofonchia con le mani infilate nei tasconi della giacca, guardando fisso il mare che si gonfia e si sgonfia come una creatura severa e mansueta. Poi mi porge un documento da firmare. Siamo qui per questo, serve la mia dichiarazione di non avere crediti nei confronti degli ex proprietari. La chiusura dell’attività è stata gestita in modo frettoloso, brusco. 
Firmo. Guardo anche io la distesa nera adattando il respiro all’ondeggiare della marea. 
- Io invece volevo dirti che i Liguori prima di partire si sono raccomandati di far aggiustare la finestra della numero 6, che passano gli spifferi. E il rubinetto della 3 sgocciola, il signor Gino non ci dormiva, la notte. Ho provato a darci un po’ di giri di chiave ma non serve. E Walter non vede l’ora di andare a totani con il gozzo del papà, di notte, come tutti gli anni. Dice che se la pesca va bene offre lui la frittura a tutta la sala. 
Mi guarda per la prima volta negli occhi, come scosso dal torpore. Strizza le palpebre e accenna un sorrisetto. 
- Ti o saiæ proprio nescio! 
- Io vado di qua. 
- Io dall’altra parte. 

Ci salutiamo, la stretta di mano questa volta più forte, in qualche modo definitiva. Quel che era da fare è stato fatto. 
Ripercorro i vicoli. Non passo lì davanti, prendo altre strade, come sto facendo da anni ormai. Pensavo di essermi lasciato alle spalle questo mondo, eppure sento che questa cittadina, quest’atmosfera sospesa nel freddo pungente di gennaio, mi vibra sotto la pelle. Alzo il bavero e mi chiudo nel cappotto. Queste folate di tramontana sanno entrarti dentro più di certi ricordi, a volte.
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