Due dischi (più uno). Il 2024 secondo Matteo Losi e Marco Biasio.


Il 2024 è già un ricordo, ma quando due firme della storica webzine StoriadellaMusica si riuniscono per parlare di musica vale la pena tornare a volgere, anche solo per un attimo, lo sguardo all'indietro. Nessuna operazione nostalgia, badate bene. Qui c'è solo roba freschissima. Matteo Losi e Marco Biasio ci regalano le loro considerazioni su due album che hanno caratterizzato i loro rispettivi ascolti durante l'anno appena trascorso. E il sottoscritto? Ovviamente non potevo esimermi dal partecipare al gioco, ed ecco che i dischi consigliati diventano tre.  

DILLOM – POR CESAREA (BOHEMIAN GROOVE)
Matteo Losi

Il festival Buenos Aires Trap, svoltosi il 7 e 8 Dicembre, ha richiamato più di centomila spettatori e simbolicamente consacrato, con tutte le sue contraddizioni, il ruolo primario del genere nei gusti delle nuove generazioni non solo argentine ma di gran parte dell'America Ispanica. Il ventitreenne Dillom è tra i massimi esponenti di questa cosiddetta “seconda ondata” dell'hip hop argentino insieme a Wos, entrambi artefici di proposte musicali ben più variegate/pregnanti della media. Dillom, in particolare, parla una lingua ibrida dove experimental hip hop e horrorcore convivono con l'indie rock, il trip hop, la trap, il latin alternative, il soul psichedelico

L'attesissimo secondo album “Por Cesárea” è coronazione del suo teatro delle crudeltà imbevuto di pop art, snocciolando in poco più di 35 minuti psicosi individuali che si fanno collettive (il punk dalle striature noise “Coyote”), disfunzionalità emotive (la ballad elettrica “Cirugía”), fragili sogni (“Ciudad De La Paz”, tra le più grandi (art) pop song mai incise). Non tanto una spirale discendente quanto un sistema di fratture spazio-temporali, che dall'orrorifico prologo “Ultimamente” (il tentato suicidio della madre del protagonista e le pillole lasciategli in “eredità” come motore del concept) testimoniano il disgregarsi della mente, delle forme, del reale, per giungere infine al miraggio di una possibile, salvifica riaffermazione dell'individuo e dell'arte (ancora “Ciudad De La Paz”). 

Specchio di tali premesse, i brani mutano in continuazione, alternando diverse sezioni e differenti setting strumentali: “Carie” deflagra senza preavviso in un crescendo orchestrale da thriller; il rap rock di “Buenos Tiempos” si liquefà in trap catatonica con voci mostruosamente deformate; la strumentale “Irreversible”, vero “cuore” di tenebra del disco, esordisce giustappunto con battito cardiaco e ansimi per evolvere in marziale cattedrale industrial. Dillom abita questi scenari con un flow mortifero/ciondolante e un cantato fragile ma aggraziato, laddove produttori di polso come Fermín Ugarte e Luis Tomás La Madrid, entrambi ben noti nell'ambiente, offrono un fondamentale contributo nel dare consistenza/fruibilità al patchwork. 

Di rilievo anche i due featuring vocali: l'icona del rock latino Andrés Calamaro nel downtempo noir “Mi Peor Enemigo”, e la pop singer/attrice Lila che in “Carie” intona i primi quattro versi di “Plegaria Desvelada” (1976), canzone originariamente composta ed eseguita dalla scrittrice/poetessa/compositrice María Elena Walsh, altra figura d'importanza incommensurabile nella cultura argentina. 


THE JESUS LIZARD – RACK (IPECAC) 
Marco Biasio 

Complicatissimo parlare oggi di un nuovo disco di inediti dei Jesus Lizard, il primo a ventisei anni di distanza da quel “Blue” che, con la pervasiva mestizia dei fine utopia (e con un pugno di canzoni obiettivamente, serenamente definibili non all’altezza del repertorio dei primi Noughties), aveva temporaneamente consegnato ai posteri l’avventura rivoluzionaria del quartetto di Austin, Texas. Per quanto, in barba all’inesorabile scorrere del tempo, sogni ancora di (trovare dentro di me il coraggio necessario per) lanciare tutte le pietre che quotidianamente carezzano la mia faccia, ogni giudizio più o meno ponderato su “Rack” sembrerebbe poter sfidare la tacita tenuta del quieto comun vivere (ma quale quieto comun vivere?). “Rack” è un capolavoro!, digita entusiasta Scribacchino 1; ci piaci / di più / appeso a testa in giù! ribatte composta la folla di chi ancora non ha digerito l’attacco di “Then Comes Dudley” (non fate loro sentire “Hide & Seek” o “What If?”, altrimenti vanno in iperventilazione). “Rack” è una merda!, si affretta a correggere Scribacchino 2; ecco l’ennesimo snob del cazzo!, rincara la dose la torma di quelli che non si ricordano mai se qualcun altro si scriva con o senza apostrofo (sarebbe riuscita la buona anima di Serianni a dire “senza” prima di prendersi del prescrittivista?). Bellino “Rack”, ma volete mettere “Goat” o “Liar”!, chioserebbe allora con prudenza strategica Scribacchino 3; un peccato di pleonastico fanfanismo che tuttavia, agli occhi del neomanicheismo turbocapitalista, suona peggio che sparare ad un cervo zoppo e legato in un armadio davanti ad una convention di fruttariani. 

Insomma, comunque la si pensi, integri non se ne esce. Ma proprio perché integri non se ne esce, chi in questo momento si sta rendendo responsabile dell’ecocidio di intere foreste virtuali per il tornaconto di nessuno vorrebbe aggravare volontariamente la propria posizione, popolando il manoscritto che va componendosi con postille egoriferite a margine. Ad esempio: “Hide & Seek”, primo singolo estratto e brano trainante dell’intero disco, si colloca senza alcun dubbio tra i dieci pezzi che più ho ascoltato nel corso del 2024. Perché? Beh, esattamente perché è un pezzo dei Jesus Lizard: una tonitruante cannonata punk che confina a forza il boogie woogie sulla sedia elettrica e lo passa da parte a parte con lame post-core (inconfondibili le invenzioni chitarristiche di Duane Denison, uno che di anni, tra parentesi-non-parentesi, ne sta per fare sessantasei). Per chi a leggere ‘punk’ pensa male immaginando di azzeccarci e subodora la più classica delle timbrate al cartellino, ecco un uno-due che metterebbe in ginocchio persino il più protervo maranza di Pioltello: da un lato il licantropesco crooning hc di “Falling Down” (stop and go! stop and go!), dall’altro lo schiumante r’n’r pneumatico di “Moto(R)” (palm! muting! palm! muting!). C’è chi va alla ricerca del tempo perduto e chi invece, par di capire, di tempo da perdere non ne ha più, anche quando l’estetica del cazzotto si sublima in una sua paranoica ipostasi (il caracollante noise-blues di “Armistice Day”) o il re si denuda in un luciferino monologo al bromuro che vede gli Oxbow sbronzarsi assieme ai For Carnation (“What If?” sta a ricordarci che uno degli ultimi dischi controfirmati dalla sei corde di Denison è il sottovalutato comeback dei Tomahawk, “Tonic Immobility”). 

Ha un bel da fare Scribacchino 4 per non corteggiare ulteriormente l’estetica dei meta-non sequitur e, al contempo, non far trasparire troppo del suo pensiero originale. Euristica forse ruffiana, ma efficace: se l’accolita del capopopolino Yow vi faceva venire l’orticaria già ai tempi d’oro, “Rack” non farà altro che gettare chicchi di sale rosa himalayano sui bordi rimarginati delle vostre ferite immaginate, specialmente quando il fantasma del Natale passato torna a manifestarsi con l’insidiosa pervasività delle rugginose progressioni morse di “Goat” (“Alexis Feels Sick”), dallo scalcagnato palco di un cabaret pentatonico Yow torna a pisciare sul gessato degli ambasciatori argentini di turno (“Lady Godiva”) o la dissonanza noise si sgretola in un muro di suono impressionistico ove qui e lì baluginano barbagli di melodia storta (“Is That Your Hand?”). Un appunto conclusivo, però, quello sì: quel gioiello post-crimsoniano di “Cost Of Living” doveva assolutamente trovare posto nella tracklist finale! 


HALEY HEYNDERICKX – SEED OF A SEED (BIG MAMA) 
Matteo Castello 

Perché tutti a volte abbiamo bisogno di un senso della tradizione, ed io ho bisogno di una mente silenziosa in un’inondazione di consumi”. Ecco, eccolo il punto della faccenda. Lo canta Haley Heynderickx, artista di Portland al di fuori dei radar nostrani, nella bellissima “Seed of a Seed”, da cui prende il nome il secondo lavoro, uscito a novembre per l’indipendente Mama Bird. E se ai tempi dell’esordio la necessità dichiarata era quella di coltivare un giardino ("I Need to Start a Garden", 2018), ora sembra proprio arrivato il momento della contemplazione, della calma, della raccolta. 

Quello che colpisce, in un lavoro così imbevuto di questa ricerca di un “senso della tradizione” (un senso ovviamente spurio, ibrido, reimmaginato: un bisogno profondo) è proprio la vitalità che lega lo sviluppo e l’espressività dei brani ad una contemporaneità che traspare, in negativo, tra visioni bucoliche e sogni ad occhi aperti, tra metafore panteiste e istantanee di storie familiari dai contorni ancestrali: una poetica frutto della gemmazione di un innesto tra narrativa americana escapista, realismo magico alla Toni Morrison e figlie delle figlie (seed of a seed of seed) di tutto quello che va da Linda Perhacs all’indiefolk degli ultimi anni. Il senso di Heynderickx per il songwriting è graziosamente artigianale, volutamente irregolare ma cesellato e impreziosito da una visione autentica, da una manualità gentile ed attenta. Arpeggi tondi che si diramano in contorsioni da piante rampicanti, arrangiamenti sontuosi al miele, vocalizzi limpidi che risuonano al meglio in spazi aperti. 

E allora come interpretare la richiesta di scuse di “Sorry Fahey”? Non certo come un senso di inadeguatezza tecnico-stilistica, anche perché la tecnica altro non è che il rapporto vivo tra le pratiche e il proprio tempo. Forse è la consapevolezza, invece, di una distanza storica, di un guasto più generale, insanabile, che vanifica ogni tentativo di fuga immaginaria (“I won’t buy it today”). Nonostante tutto, però, “daydream dies slow”: forse vale la pena fare il tentativo di protrarre ancora per un po’ l’incanto, di mettere in luce la contraddizione, di scacciare le seduzioni storte di ciò che preme appena al di fuori della stanza, o oltre il giardino. L’arte fa questo, trasfigura e critica. E Haley Heynderickx continua a rinnovare l’incanto.
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