Una canzone, un disco. "Endless Ladder", The Antlers (Undersea EP, 2012)

In un’epoca ormai lontana, gli Antlers potevano rappresentare un ragionevole punto di incontro tra le varie correnti di un indie americano che, tra fascinazioni sperimentali (Deerhunter), freak out post-post-post-qualcosa (Animal Collective), scioglievolezze dream pop (Beach House), riscoperte folk (Bon Iver) e pomposità rock autoriali (The National), forniva innumerevoli spunti per una formula capace di tenere assieme le parti. 

Purtroppo la formula senza capo né coda degli Antlers non ha saputo tenere fede alle aspettative. La speranza, tuttavia, è l’ultima a morire. Infatti, nell’EP Undersea, pubblicato nel 2012, c’è un brano che rappresenta quanto di meglio sfornato dalla band, dando forma compiuta – per quanto estemporanea - alle possibilità dischiuse da una scena musicale in fermento. Questione di ritmo, forse, o di gradazione delle componenti: sta di fatto che fin dal primo brano tutto sembra funzionare senza intoppi. "Drift Drive" procede elegantissima, senza alcuna ansia da prestazione, tra quel lamento di tromba che aggiunge un intelligente cromatismo ai rintocchi di piano e al motivo acquatico della chitarra, mentre Peter Silberman gestisce i vocalizzi in perfetta armonia minimalista. 

È però "Endless Ladder", con i suoi quasi nove minuti di durata, a raggiungere la perfezione. Il brano prende forma da pochissimi elementi: il feedback della chitarra elettrica, il loop vocale e lo sgocciolio di poche note di tastiera. Proprio mentre la sezione ritmica irrompe nella sua cadenza al cloroformio, ecco che il brano si schiude, punteggiato dagli intarsi chitarristici e dai fraseggi magnetici del piano elettrico, mentre tutt'attorno vortica un pulviscolo elettronico immerso nell’eco, solleticando lo spettro uditivo e infondendo allo sviluppo del brano una connotazione psichedelica e kosmische. “If I seem much different, more removed, if I seem distracted, its not from you”. E così, cullato da questo dolce incedere anestetizzato, il lirismo di Silberman sembra non voler porre troppa resistenza alle forze che lavorano incessantemente al suo riassorbimento, al suo inabissamento. Anzi, il testo è un lento inno al perdersi, allo sciogliersi, al domandare lasciato piacevolmente senza risposta, cullato dalle sensazioni ben più soddisfacenti delle dinamiche sonore, in sviluppo continuo e allo stesso tempo ineffabile. “So i feel refracted, split in twenty two”, canta Silberman, enfatizzando il senso di smarrimento e di scioglimento in cui anche l’ascoltatore è ormai invischiato, complici i sibili sempre più fitti e stordenti sullo sfondo, nonostante ogni elemento stia già iniziando lentamente a riassorbirsi, sottraendosi, sfumando, dalla pasta compositiva. Scopriamo quindi, in un decorso di pochi minuti, su quali fragili equilibri poggiavano le armonie lasciate crescere e gonfiarsi prima di questa fine subacquea, ennesimo espediente compositivo che proprio al vuoto, all'assenza, consacra il suo finale. 

Un brano che, da solo, salva una carriera. E che, forse, suona così bene proprio perché distante dall'approccio collagista e ipertestuale di molta musica contemporanea. Qui ci si immerge in una visione, in uno spunto intuitivo, dilatando la discesa a piacimento, senza fretta e pressione alcuna. Non è cosa da poco nel continuo baraccone pop degli ultimi anni.



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