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Una canzone, un disco. "Windowsill", Arcade Fire (Neon Bible, 2007)

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Gli Arcade Fire sono stati, almeno al tempo degli esordi, un’irripetibile celebrazione di togetherness. Il loro era un gruppo nel vero senso della parola: ogni brano si nutriva di un collettivismo che lasciava poco spazio al singolo, nonostante l’istrionismo di Win Butler. In Funeral questo senso della coralità era prorompente, esplosivo. In Neon Bible invece, pur non lesinando l’enfasi chamber tanto cara alla band di Montréal, tutto è ripiegato in una più densa riflessività, in un mood torbido e suburbano (dove su Bowie ha la meglio lo Springsteen di Nebraska), per una scrittura che strappa i climax a forza di intrichi di suono in lento, magmatico accumulo, dove la tensione crescente viene spezzata da improvvisi riflussi o da esplosioni repentine. Registrato in una vecchia chiesa presbiteriana, Neon Bible vive di risonanze, di impasti infittiti di eco, di un sound greve eppure in qualche modo vaporoso, espanso. 

Sounds and visions: le liriche del secondo lavoro degli Arcade Fire condividono con la gestione del suono la stessa ansia infervorata da predicatore millenarista, tra imponenti atti d’accusa fin du siècle, fino a passaggi dove si fondono – marchio di fabbrica della band, come già detto – percorsi personali e destini collettivi. “Windowsill” è quindi il perfetto apice di un disco che trasuda un’esigenza espressiva e raffigurativa che si strozza e tracima, che non riesce a stare nei margini, che respira affannosa tra slanci e ritirate. Quei tre accordi ripetuti di chitarra si fanno largo sul ronzio insistente, in sottofondo, dei fiati e degli archi che finiranno per prendere sempre più spazio, amplificando la potenza di un rifiuto disperato e ottuso: “I don’t wanna see it at my windowsill”. Sì, perché la consapevolezza è quella di una marea che monta, di una mente che vacilla, di una casa che brucia, di una guerra inarrestabile. Lo sguardo è però quello di un adolescente impaurito che scambia la volontà di fuga dalla casa di un padre abusivo con il rifiuto di un’America altrettanto nemica, che fa convergere l’intrusione della televisione spazzatura con le più minacciose intrusioni militariste in vista della nuova guerra santa. Profetico, lacerante, il piccolo grande rifiuto degli Arcade Fire coinvolge tutti noi, tutti quelli che per anni si sono trincerati nello slogan “non in mio nome”, pensando così di poter sfuggire al precipitare di una storia che si credeva di poter tenere virtualmente fuori dal campo visivo, di poter sigillare oltre gli spazi domestici, privati, nell’illusione di poter spargere scintille evitando il conseguente incendio. 

Lo slancio espressivo in Neon Bible, così ben tipizzato nel brano in questione, non è solo quello di una band capace di cogliere in qualche modo lo spirito del tempo, ma anche quello di un collettivo consapevole del suo aver portato su livelli di notorietà inediti le istanze di un movimento che da anni serpeggiava nel sottobosco indie: la wave canadese che, prima degli Arcade Fire, era rimasta un fenomeno in penombra, era ora al centro della scena. Come al solito la notorietà porterà ad album sempre meno ispirati e sempre più banali, ma la doppietta Funeral-Neon Bible rimane tra i caposaldi del pop del nuovo millennio. 



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