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Sables d'Or

Sables-d’Or-Les-Pins arriva dopo l’ennesima, lunga, dritta strada bretone. La mattina è iniziata presto, con un gran mal di testa. Questa cittadina balneare è stata pensata per ospitare personaggi del calibro di Scott Fitzgerald. Poi la crisi del ‘29 ha spazzato via ogni illusione. Di quel sogno rimane soltanto l’ordine desolato e rigoroso delle aiuole all’inglese, che nel ‘21 presero il posto delle dune di sabbia. Il viale alberato è un invito alle dolci passeggiate estive lungo villette in classico stile bretone e numerose licenze années folles sparse qui e là, tra piscine fluorescenti, hotel sfarzosi e bianchi casinò, fino ad arrivare alla grande rotonda dove convergono tutte le strade, risolvendo nella veduta sulla baia le eleganti fantasie della planimetria cittadina. La spiaggia, una bianca distesa di sabbia fine, raccoglie i profumi di una Manica che inizia a perdersi nell’Oceano. 

Fermo la macchina molto prima della rotonda, considerando l’opportunità di una passeggiata lungo il viale di questo posto così ricercato, eppure così arenato in un’impossibilità cicatrizzata nel tempo. Una città fantasma che fa finta di niente dal 1929. Un uomo taglia il prato, io lo guardo lavorare mentre le gambe si riabituano a camminare, dopo ore di viaggio. 
Ormai il mio scopo è soltanto quello di andare avanti, per quanto la sosta sia ancora un rito a cui assegno una certa sacralità. Ho ancora vive le sensazioni delle scogliere di cap Fréhel, che precipitano inesorabili nel mare annullando in un sol colpo le traiettorie disegnate dai sentieri brulli nascosti tra brughiere di erica e ginestre. E ora sono su questa promenade che doveva brulicare di facoltosi turisti inglesi e che è finita per diventare l’ennesima placida località per pensionati e viaggiatori casuali, di passaggio. 

Cent’anni fa, un soffio. In fondo continuiamo a ripercorrere le stesse illusioni. Solo le ripide falesie di granito sfidano le nostre pretese di piegare il caos alla nostra volontà. Visitando le città d’Europa ho sempre pensato che certi luoghi plasmati dall’uomo, come una grande piazza, un viale monumentale, il cortile di un palazzo signorile, possano strutturare anche chi li percorre. Le geometrie urbane esercitano una forza capace di disciplinare il movimento, di inserire l’uomo in un contesto, facendo della sua presenza un fatto scenico, estetico, come proiettandolo sul palco di un teatro. La stessa cosa non succede in natura, dove invece la presenza umana si perde, si scioglie, risultando ridimensionata e vana, costretta a un’improvvisazione di second’ordine. E cosa dire, invece, di questi luoghi che sigillano un fallimento, una vanagloria? Non è anche questo posto una sorta di scenario naturale, catastrofico, nonostante le sembianze ordinate, artificiali, immobili? Non sono forse questi passanti, io stesso, semplici figuranti immiseriti dalla percezione di questa forza che schiaccia, da questa resa inesorabile a potenze più grandi, da questo senso di sconfitta storica? 

Finito il viale, con le ultime arcate punteggiate da tavolini, non resta quindi che la spiaggia, che stride e stona, perché il confine non è netto. Niente precipita da nessuna parte, tutto si sfiora, si lambisce in modo ambiguo, nascondendo un mutuo disprezzo irrisolto. Torno indietro, sento che la malinconia del decadimento impregna questo luogo, una grande sabbia mobile dove si potrebbe tranquillamente affondare con un sorrisetto ebete stampato sul volto. Mi conforta il rombo del motore e il riacquistato senso del movimento. Un’altra fuga, la mia. Un dettaglio su cui preferisco non soffermarmi. Non mi inganno però sul fatto che Scott Fitzgerald fosse un ricco capriccioso e lunatico. E lasciarmi alle spalle un posto che per lui sarebbe stato perfetto mi placa, come una di quelle bugie delicate che si raccontano ai bambini perché dormano tranquilli.
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