Saint-Brieuc

Il vecchio noce spacca in due lo stradone di ciottoli grossolani che, di fronte a quell'ostacolo, si sdoppia in diramazioni opposte, ognuna costretta a digradare per conto suo verso la cattedrale, tra antiche casette a graticcio dai colori tenui in elegante contrasto con la pietra scura che altrimenti si imporrebbe nello scenario medievale del borgo. Il noce è lì da chissà quanto, e ora una piazzetta lo circonda come a volerlo preservare. Pare che tutta la città si sia sviluppata partendo dal vecchio noce. Prima la strada deviata da quel tronco secolare, poi la piazzetta a cuneo, con i muriccioli su cui da secoli si adagiano gli avventori dei caffè intorno, e così tutta la morfologia della città sembra essersi organizzata per assecondare le forme a mano a mano imposte da quell'unico elemento immoto, fisso, eterno. Proprio come le onde che si formano attorno al tonfo di un sasso lanciato nell'acqua, così la città si propaga a cerchi concentrici, via via più frastagliati e immemori della loro necessaria origine. 

Io sono sotto al noce, la seconda birra fresca sul mio tavolino in ferro smaltato, seduto sul muretto che delimita il perimetro della piazzetta. Attorno a me poche persone, forse perché è ancora presto e gli abitanti di questa città devono ancora uscire da lavoro. Sono qui perché volevo viaggiare da solo, e invece non faccio che cercare lo sguardo degli altri. Potrei dire di essere proprio come gli strati più esterni di questa città nata dal lancio di un sasso: man mano che proseguo nel viaggio mi deformo e non combacio più con le intenzioni della partenza. 

Sono ormai un paio d’ore che sto seduto a questo tavolino. I bicchieri di birra si accumulano, lenti, per venire portati via da una cameriera simpatica, che ora mi sorride. Deve aver capito che, nonostante il tasso alcolico, non rappresenterò un problema. Con il passare del tempo è come se la città mi abbracciasse, dandomi l’illusione di una familiarità del tutto frutto del torpore dell’alcool. L’aria profuma, è sera. Una coppia vicino a me è impegnata in una di quelle chiacchierate abbandonate e intime, allacciata da una sinuosa prosodia straniera di cui colgo appena qualche frase. Vorrei allacciarmi a quel ritmo, prendere l’onda e unirmi alla discussione. Lui ad un certo punto ha un moto, un impeto delicato, gira il tavolino rettangolare di novanta gradi, in modo da accorciare le distanze. Un bel gesto. Lei apprezza, perché approfittando della nuova vicinanza, gli stringe un braccio. Si guardano. Distolgo l’attenzione, questa non sembra una scena destinata ad essere consumata da qualche estraneo a caso. 

Prendo il taccuino lasciato aperto sul tavolo e segno tre strofe tremolanti: 

“Non è che una speranza vana nel tempo 
Lo sguardo che rivolgo al vuoto astratto 
Che si sdoppia di continuo tra te e me” 

Tutto in questo viaggio è doppio. Il rifrangersi del cielo sui vasti bagnasciuga inumiditi dalle maree, il confronto continuo tra terra e oceano, la quiete dei borghi e la furia agitosa del vento che spinge le onde contro le scogliere a precipizio, le intenzioni che mi spingono e mi frenano. Ora, però, è tempo di alzarsi. Mi guardo ancora attorno ma non trovo nessun appiglio al quale aggrapparmi. Devo continuare a spingermi oltre, proseguendo verso ovest. Non è per niente scontato abbandonare di continuo ciò che ci fa star bene. L’istinto mi suggerirebbe di fermarmi, di allungare il soggiorno in questa città che mi pare tanto accogliente, tanto mia. Star fermi è la forza seducente più insidiosa da contrastare durante un viaggio. Mi alzo a fatica, le gambe indurite dalla seduta prolungata e dalle tante birre. Lancio, con la coda dell’occhio, una sbirciata alla coppia vicino. Non si stringono più, nemmeno si parlano. Lei mi rivolge un’occhiata svogliata, mentre io raccolgo lo zaino e cerco di tenermi saldo, consapevole di apparire per quello che sono: uno straniero solitario e ubriaco che sta lasciando per sempre questo posto, senza lasciare niente di sé. 

Dal canto mio, invece, c'è molto in gioco. Rescindo un legame effimero, ma pur sempre un legame. Mi decido, saluto i due, schiarendomi la voce e incespicando in un “au revoir” che suona vano. Loro, però ricambiano entusiasti e mi sorridono. Hanno pochissimo da perdere. Mi basta così poco per ritrovare il coraggio. Mi allontano senza voltarmi, pago e saluto ancora la cameriera, la mente già oltre, già a domani. La strada che ho fatto prima la ripercorro all'incontrario, per l’ultima volta. So dove andare. Accetto tutto. Solo il noce, come sempre, resta fermo, immobile.

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