Il cielo si sta tingendo di un rosso acceso, innaturale. La piana sottostante è sferzata dal vento gelido che scende dalle cime dopo che il sole ha calcato la steppa per tutto il giorno. Sarà una notte bastarda se non trovo subito un riparo. Con tutti i selvatici che infestano questa zona non ho nessuna intenzione di dormire sotto le stelle. Duecento metri più su, oltre il costone che accartoccia in un grugno di granito le curve di livello, c’è un villaggio dove non mette piede nessuno da chissà quanto tempo. Guardo in alto: i satelliti pulsano dietro la cortina celeste dalle tinte al neon, procedendo lungo le loro traiettorie misteriose e inesorabili, esattamente come faccio io da anni. Siamo rimasti in pochi da queste parti. Piccoli allevatori schivi. Impiegati doganali e tecnici degli impianti di stoccaggio delle acque alluvionali. Cercatori di reperti sputati fuori dai ghiacciai squagliati. Piloti di navicelle commerciali in quarantena forzata. Contrabbandieri di neoplasma per propulsori ionici. Riparatori di vele solari e smaltitori di batterie esauste. Locandieri, spacciatori di freeze e puttane. Tutta gente che non ha nemmeno avuto il lusso di potersi chiedere come fosse finita a fare questa vita di merda: sono semplicemente rimasti appiccicati qui come mosche sulla colla. E poi ci sono i ghiacciatori come me. Pochi, stupidi. Però solo io mi sono impuntato con questo versante abbandonato. Solo io salgo così in alto. Sarà che non voglio rimanere appiccicato.
I ruderi puntellati da vecchi tiranti sono come escrescenze casuali spuntate tra i viottoli invasi dalle ortiche e dagli spinaci selvatici, ottimo materiale per una zuppa improvvisata. Tra una pausa e l’altra delle raffiche di vento percepisco un odore acre di erba bruciata: non sono solo. Spalanco l’uscio dell’unica rovina col tetto ancora integro e appena dentro riecco lo stesso odore, questa volta più intenso. In fondo, nella penombra di lievi bagliori rossastri, due occhi bucano per un attimo lo spazio. Uno sbuffo di fumo si allarga per disperdersi e rimanere attaccato alle travi spesse e ai pochi suppellettili di legno, una panca, un tavolo di pino, qualche seggiola da mungitura e sacchi pieni di lana ingiallita alla rinfusa contro le pareti. Proprio in mezzo alla stanza pulsa ancora un cumulo di braci. Prendo qualche rametto da un fascio adagiato sulla panca e ravvivo la fiamma. Gli occhi stanno bassi, semichiusi. Stabilire un contatto è un atto di eccessiva fiducia nell’umanità, soprattutto quassù. Soprattutto a stomaco vuoto.
Continuo a scrutare il volto nella penombra mentre aggiungo tocchi di proteine essiccate al brodo di erbe montane. Deve venire bello forte, il brodo, ci devo fare su un buon sonno. Però la presenza di un’altra persona, muta, sconosciuta, viva, mi manda ai matti. Non ha ancora fatto un cenno, questo maledetto, come se non esistessi. Devo capire cosa diavolo ci faccia quassù. Non è nemmeno stagione di caccia, dev’essere un vagabondo. Più ci penso più l’idea di passare la notte con uno sconosciuto diventa insopportabile.
- Non ti dispiacerà condividere un po' di quella tua zuppa.
Le parole si propagano nella stanza rintuzzando nell’aria come il volo di un pipistrello sorpreso in una grotta, facendomi trasalire.
Mentre riempio la gavetta fino all’orlo sento la mia ansia dissiparsi quel tanto che basta per tornare in me. Faccio scorrere la ciotola verso la voce.
- Ce n’è quanta ne vuoi. Hai del pane?
Ecco che sento un rimestio scomposto, e in un attimo un bel tozzo finisce a due passi da me. È pane nero, non ne trovavo da un sacco di tempo. Finiamo di mangiare in silenzio, lui riaccende la sua sigaretta d’erba e il fumo torna ad appiccicare l’atmosfera. Mi corico, la stanchezza è arrivata tutta d’un colpo, liberata dal cedere della tensione che ora si sta riassorbendo come un unguento per le cicatrici.
- Sei un ghiacciatore, si capisce.
La voce è granulosa, attutita dalle coperte spesse ammassate sul volto e inspessita da anni di catrame e abbandono.
- E da cosa lo capisci?
- Siete gli unici che vi ostinate a salire in alto. Non c’è più niente che valga la pena cercare da queste parti.
- Questo è tutto da vedere. Comunque mi pare che anche a te non faccia schifo l’altitudine.
- Bah, io non ho nessun altro posto dove andare. E poi qui è roba mia.
- Roba tua? Pensavo che fosse tutto abbandonato.
- Ci puoi scommettere che è tutto abbandonato, dice raspando con la gola, per poi lanciare uno sputo diretto nell’oscurità, ma è mio comunque.
Avere qualcosa di proprio di questi tempi è un gran lusso, penso, anche se dovesse trattarsi di quattro sassi. La proprietà è un appiglio solido in un mondo che slitta e frana. La proprietà te la possono togliere solo ammazzandoti.
Non sono ancora del tutto convinto riguardo al perché lui sia qui, lo confermano le piccole scariche elettriche di sospetto che irrigidiscono le mascelle e continuano a tenermi sulle spine. Quanto avrei preferito starmene per i fatti miei. Non è la prima volta che finisco da queste parti e di tracce umane non ne ho mai notate. Lassù, molto oltre la quota degli ultimi arbusti rinsecchiti, rimane ancora una lingua di ghiaccio nascosta tra le pieghe di roccia. E ghiaccio vuol dire acqua. E l’acqua è facilmente convertibile in denaro, di questi tempi. Incredibile pensare a quanta acqua si riesca a ricavare da un giacimento di ghiaccio. Basta avere la giusta attrezzatura, un grossista fidato e delle buone gambe. E bisogna saper perdere, ogni tanto.
Ora il silenzio si è imposto come una terza presenza, più invasiva e pervicace di quella dell’uomo che tace di nuovo, inglobato dalla cappa ottundente fatta di nulla. Mi giro su un lato e mi avviluppo in posizione fetale per trattenere quanto più calore possibile. Le mani strette nelle tasche sembrano più grosse di quel che sono: sento le dita gonfie e spesse, appiccicate l’una all’altra come propaggini aliene, quasi si stessero espandendo ciucciando linfa vitale dal braccio. Mi capita sempre quando sono irrequieto. I polpastrelli tesi giocano con il sassolino bianco che tengo con me come una reliquia. Non riesco a non pensare alle opportunità che questo piccolo frammento minerale potrebbe dispiegare. Lui non deve vederlo. Lo sfilo con discrezione dalla tasca e lo osservo come ho già fatto centinaia di volte. Le superfici opalescenti paiono catturare il brillio della brace, rifrangendolo sulle molteplici imperfezioni screziate. Una volta si pensava che questo fosse ghiaccio fossilizzato. Tutto torna.
Non riesco a dormire. Frugo nello zaino che uso come cuscino ed estraggo l’inalatore per asmatici già carico di una buona dose di freeze. Premo l’erogatore e la sensazione di gonfiore degli arti recede di botto. Le ondate di gelo bollente si irraggiano lungo ogni mia terminazione nervosa, fino a che un formicolio diffuso mi stringe in una morsa per poi sciogliersi in un gocciolio di colori e lievi spasmi. La notte si schiude e mi abbraccia. Sarà un sonno senza sogni.
A queste altitudini la mattina arriva sempre come una promessa tradita. I raggi del sole feriscono di striscio i cristalli di brina e pare che tutto, l’erba gelata, gli arbusti rinsecchiti, i massi erratici sparsi, prendano un gran respiro. Non c’è una nuvola in cielo, anche oggi farà caldo. La brace è ridotta a un cumulo di cenere e non vale la pena sprecare fatica per il fuoco, masticherò qualche pezzo di pane camminando. Non ho tempo da perdere, entro questa sera voglio riempirmi il muso e sparire in qualche bordello giù in città. Sono stanco, stanco, eppure esiste una forza dentro che mi obbliga a muovermi, una forza che mi impedisce di stendermi vicino a un albero qualsiasi, più a valle, e caricare troppo l’inalatore. Quella forza è la mia febbre distruttrice e, distruzione per distruzione, fanculo, preferisco muovermi.
Supero i muretti a secco che una volta delimitavano campi di patate e vigne. Impossibile sapere se risalgono a cinquanta o cento anni fa, qui è stato un continuo avanzare e rinculare secondo le capricciose variazioni dei limiti climatici, nella speranza di conquistare nuove terre fertili strappate al gelo. Ormai è da tanto che nessuno ci prova più: anche se dovesse crescere qualcosa non ci sarebbe un cane a cui venderla. Quello per cui sono qui io, invece, sì che vale la pena. Mi ci rompo volentieri il culo per una cosa del genere. La mia vena di quarzo è da qualche parte lassù, ne sono sicuro, come sono sicuro che nessuno ha mai sospettato di un tale ben di dio incastonato nel sottosuolo di questi pendii. Ci si può fare una fortuna con tutto quel minerale, anche perché quel che fa la differenza è la briciolina di paglia luccicante incastrata tra i tetraedri cristallini del mio frammento color neve. Si percepisce a malapena, eppure quello è oro. È oro, perdio!
Le gambe sono ancora dure a causa del sonno artificiale che mi sono voluto concedere, ma la testa è limpida, i sensi accesi. Stringo il sassolino mentre supero respirando forte il limite degli ultimi arbusti odorosi: tra poco entrerò nel regno delle pietraie, ed è lì che passerò il giorno, lungo il greto del vecchio torrente, con un metal detector e con i suoi bip, bip, bip, bip.
-Toc!
La mano smette di accarezzare il minerale e tutte le sue promesse, andandosi a posare sul calcio della pistola nascosta sotto il cinturone. Si sente ogni passo in questo sbriciolio diffuso e qualcuno, dietro di me, non troppo distante, ne ha fatto uno di troppo. E oggi, si intende, di passi voglio sentire solo i miei. Vecchio maledetto, potevi continuare a farti i fatti tuoi, penso sfilando un poco l’arma, ora pronta all’uso, attento a non far notare la mia allerta. Simulo naturalezza ma sono teso come un’antenna. A spezzare il silenzio arriva stridulo e netto il fischio di una marmotta che ci ha visti e segnala la nostra presenza. Si goda pure lo spettacolo. Pensandoci – stringo più forte il calcio - potrebbe farmi comodo un tetto tutto mio da queste parti, nei mesi che mi aspettano. E la proprietà, si sa, te la possono togliere solo ammazzandoti.
0 commenti:
Posta un commento
Commenta e dimmi la tua. Grazie!