Il casermone in lamiera ondulata è sempre stato qui, immutabile come un elemento geologico. Quando ero bambina la fabbrica doveva essere ancora in attività, eppure, nei miei ricordi, se ne stava lo stesso muta e immobile, come se il suo destino di relitto industriale fosse iscritto nella sua struttura fin dal principio.
“Cosa fanno lì dentro mamma?”.
“Non sporgerti dal finestrino piccola”
“Va bene… Cosa fanno lì dentro ma’?”
“Fanno i bastoncini che usi per andare a sciare, Lia”.
“E quanti ne fanno?”.
“Ne fanno milioni e milioni!”.
Credo che nemmeno mamma sapesse se stava esagerando o no.
La macchina scorre sibilando sull’asfalto brullo, lungo un tratto impegnativo di curvoni e gallerie. Da tantissimo tempo non guardavo dal finestrino questo paesaggio che ora si srotola lungo il tragitto. Mi sono abituata a guidare meno, ad essere circondata da palazzi e vetrate. La natura, nelle mie città, è diventata poco più di un elemento scenografico. Qui invece sembra che siano gli edifici ad essere fuori posto.
Il ricordo che ho di questi luoghi si ancora a pochi appigli. La fabbrica. Il tornante che innescava sempre un incredibile mal d’auto. Un lungo e altissimo viadotto da cui si poteva vedere il campo da calcio. Lo spettacolo di un brutto incidente lungo la carreggiata che aveva preoccupato molto i miei genitori riguardo agli effetti che una tale visione avrebbe potuto avere sulla mia fragile psiche di bambina. Il cane bianco dei nonni. L’altalena appesa al ramo del grande castagno del vicino. Poi, pian piano, i viaggi si sono fatti sempre più radi, fino ad azzerarsi. Fino ad oggi.
Sono sedici anni che non metto piede da queste parti.
“Da grande cosa vuoi fare mamma?”
“Be’ Lia, io sono già grande…”
“È più grande la nonna di te! E lei dice sempre che si può cambiare vita tutti i giorni, e che nella vita di prima era una guaritrice indiana”
“La nonna dice un sacco di cose. Sai, lei è sempre stata eccentrica. A volte non bisogna prendere per oro colato tutto quello che dicono le persone”
“Ma la nonna a me sta simpatica. Cosa vuol dire che è centrica?”
“Vuol dire che… a volte ha delle idee particolari. E dice certe cose solo per far colpo sugli altri”
“Tu cosa vuoi fare da grande mamma?”
“...Io voglio fare… io voglio viaggiare lontano e pensare solo a dove andare il giorno dopo”
“Viaggiare non è un lavoro! Ma poi viaggi da sola? E io cosa faccio?”
“No che non viaggio da sola. Ti porterei con me piccola Lia”
“E papà?”
“E papà…”
Maggy sta ancora dormendo. Buon segno, vuol dire che non ho perso la mano al volante. Affronto le curve e i salti di pendenza con dolcezza. Mi dicevano tutti che ero una brava guidatrice. Ho imparato qui. Guardando fuori dal finestrino mi stupisco che tutto sia rimasto esattamente come lo ricordavo. Mi chiedo se valga il contrario: io sono la stessa? Tutto quello che è successo in questi sedici anni come si manifesta sul mio corpo, sul mio essere nello spazio? Probabilmente il semplice fatto di trovarmi qui, e non da un’altra parte, è il solo cambiamento significativo che ci si aspetta di registrare in una persona. Sì, ci sono le rughe, qualche capello bianco. Però sono sempre la stessa, no? Come la fabbrica.
“Dove siamo ma’?”
“Ben svegliata Maggy. Siamo quasi arrivati”
Il fatto che si sia svegliata proprio ora mi colma di una soddisfazione imprevista. La vedo dallo specchietto retrovisore: un poco imbronciata come tutti i bimbi appena usciti dal sonno, osserva il paesaggio fuori dal finestrino. Chissà come dev’essere per lei confrontarsi con queste montagne, con il cielo che, per quanto stretto tra le cime, appare comunque più ampio che in città. Mi immedesimo in lei, ma provo anche invidia. Vorrei tornare ad ammirare anche io tutto questo per la prima volta, con meraviglia. Tornare bambina. Non sa quanto sia fortunata.
“Dove vuoi andare se fai quella che viaggia, mamma?”
“Non lo so Lia, in posti che non ho mai visto. Ad esempio in Canada”
“Cosa c’è in Canada?”
“Ci sono grandi foreste, laghi, e poi ci sono le alci, che sono come dei cervi ma più grandi, con corna imponenti sulla testa”
“Anche qui ci sono le foreste, mamma. Andiamo al mare, su un’isola!”
“Mi piacciono le isole. Potremmo pescare e dormire sulla sabbia, ti andrebbe?”
“...io non so se voglio andare via. Qui c’è Clara, e poi Laura, e poi Luca. E la nonna. E la scuola? Mi piace andare a scuola"
“…”
“...mamma?”
“Dimmi, Lia”
“Io non voglio cambiare vita tutti i giorni. Mi piace stare qui con una vita sola”
“E allora stiamo qui, piccola Lia”
In realtà di cose ne sono cambiate tante. Mentre lo penso squilla il telefono. Ecco la città che cerca di intrufolarsi ancora nella mia vita. Cerco il tastino per spegnere questo coso. Ne voglio comprare uno più piccolo, con meno funzionalità. La vita urbana genera una tendenza alla complicazione, alla moltiplicazione dei bisogni. Le cose finiscono per stringertisi attorno fino a soffocarti. Ho bisogno di più spazio.
Siamo quasi arrivate. La strada sale e si fa impervia. I prati intorno sono come irrigiditi dalle prime gelate dopo la calura estiva. Gli alberi cominciano a colorarsi di tonalità ocra e arancioni. Chissà come sarà la casa. Sono anni che non ci entra nessuno. Per certi versi io e Maggy siamo nella stessa condizione: stiamo per vedere entrambe qualcosa per la prima volta.
“Devi fare pipì?”
“No”
Dice sempre di no, poi mi tocca fermarmi, o peggio cambiarla, in posti improbabili. Fortuna che qui ormai ci sono solo prati.
“Sei sicura sicura?”
“Quanto restiamo qui?”
“Non lo so, il necessario”
Dicono che ai bambini bisogna dare risposte chiare, e questa è la risposta più vicina alla verità che riesco a immaginare.
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