C’è un punto della notte dove il tempo sembra magicamente fermarsi. In quel lasso temporale, dalla durata indefinita, le ore si sciolgono e si accavallano l’una sull’altra, e il meccanismo della differenza si inceppa. È in uno di questi rifugi temporali che mi trovo ora, inglobato nel silenzio della città e sepolto sotto un cielo nero senza stelle. Lo sfondo ovattato delle poche auto che ancora scorrono in lontananza non fa che rendere tutto ancora più surreale. Come se si trattasse del rantolo di un animale ferito acquattato nel sottobosco di cemento.
Devo aspettare ancora un po’ e penso che sarebbe fantastico poter rimanere incastrato qui per sempre. Trattengo il respiro, nonostante il cuore batta forte e i pensieri scalpitino come cavalli imbizzarriti. Anche quel rantolo sembra affievolirsi mentre faccio lo sforzo di appiccicarmi la notte addosso. È tardi, e il momento è sempre più vicino. Eppure ora anche il vento che fino a poco fa scuoteva le fronde degli alberi e sollevava le cartacce dal marciapiede ha smesso di soffiare. Sono immobile su questa panchina. Sento l’aria addensarsi tutto intorno come se fossi immerso nell’acqua. Muovo appena un braccio e percepisco la consistenza fluida del gas tutto intorno. E lo vedo, vedo il turbinio impercettibile delle particelle di azoto e ossigeno, i ghirigori invisibili di atomi in moto. Non mi stupisco nello scorgere d’un tratto una balena, un’immensa balena, a pochi metri di distanza. Oscilla lenta, illuminata dalla luce fioca del lampione per poi sfumare nell’oscurità. Stropiccio gli occhi e mi chiedo se per caso non stia sognando. Eppure no, eccola di nuovo riemerge dall’ombra: si impone nello spazio con la sua stazza monolitica, pur librandosi nel vuoto, leggera come uno sbuffo di vapore. Ondeggia piano e mi ricorda il peso schiacciante delle mie scelte. Soldi facilissimi. Una roba pulita. Un sistema di sicurezza che è uno scherzo. Si sentono sicuri perché pensano che in questo posto certe cose non possano capitare. Avrebbe dovuto essere l’elefante nella stanza, mentre è lei, la balena notturna, a schiaffarmi sul muso il peso delle mie responsabilità. La libertà impone dei doveri, e il primo di tutti è quello di riconoscere come la nostra strada ce la costruiamo passo falso dopo passo falso, rinuncia dopo rinuncia. Il dovere può schiacciarti o liberarti. Io sono un tutt’uno con l’atmosfera.
Su una di queste panchine devo aver anche scopato, secoli fa. Deve essere stata quella laggiù, dove è scomparsa la balena, inghiottita da questa notte che continua ad offrire un riparo insperato. E se non fosse un monito, la balena, ma una possibilità di salvezza? Ci penso mentre mi trovo a ripetere in sequenza le fasi della mia discesa verso gli inferi. Si sale in macchina, ci si infila il passamontagna, si tira dritto verso la villa. Lì saranno tutti addormentati. E se ci sono bambini? Non è un problema nostro, si fanno star zitti anche loro se è il caso. Ecco, la balena mi porta con sé verso profondità nuove, inesorabili, nere come la notte che continua ad essere immobile e densa. Solo che adesso mi schiaccia, mi soffoca. L’importante è che si trovi lui, lo si renda inoffensivo e gli si faccia dire quella cazzo di combinazione. Farà resistenza, lo sai, non è uno smidollato. E noi lo lavoriamo un po', e se non molla c’è la moglie. Però i bambini non si toccano. Vediamo. Tanto parla prima. Il furgone arriverà a momenti, una volta salito non ci sarà più nessuna scusa. La differenza tra un prima e un dopo è come il taglio di una lama: una volta praticata l’incisione è fatta, le parti non si possono riattaccare. Lo spazio tra l’innocenza e la colpa è tutto qui, in uno squarcio nella notte, su una panchina, in compagnia di una balena fluttuante. Noto solo ora che il suo carapace si è fatto meno lucido, e sulla superficie si addensano incrostazioni di crostacei, di parassiti, oltre a solchi rugosi di vecchie ferite che percorrono disordinatamente il corpo magniloquente, intento a danzare nell’aria.
Ecco d’un tratto il rombo accigliato del motore, il bagliore dei fari, il sibilo del finestrino che si abbassa, il fischio sommesso del mio compare che buca la notte. La mia bolla protettiva potrebbe resistere a questo assalto, potrebbe concedermi un riparo finché il tempo non riparta col giungere del primo mattino. Forse allora la balena svanirà. Io potrei alzarmi, sgranchirmi le giunture, ficcarmi le mani in tasca e andare al primo bar, sedermi ad un tavolino e ordinare un caffè doppio. Magari una brioche. Godermi il sorgere del sole e il privilegio di non avere altro da fare per tutto il giorno se non assaporare l’assenza di colpa. L’essere libero dal peso delle responsabilità. Un altro fischio, e una voce nervosa e soffocata. Che cazzo fai, vieni qui! Mi alzo di colpo e i pensieri rimangono incollati sulla panchina. C’è solo la balena, questa maledetta balena, ferma in lontananza. Mi guarda col suo occhio severo e triste. Mi guarda fisso. Sbrigati cazzo! Passo oltre, vado verso il furgone, spalanco il portellone e mi infilo nel vano di carico. Prima di chiudere torno a guardare nella notte. Lei non c’è più, rimane solo uno spiazzo d’erba illuminata da qualche lampione fioco. Posso andare. Il portellone sbatte forte e il contraccolpo del mezzo in movimento mi fa vacillare. Riesco a mantenere l’equilibrio, mi acquatto contro la lamiera e infilo il passamontagna. Tutto bene là dietro? Sì, bene. Strano, la sensazione è sempre quella di stare dentro l’acqua. Potrei essere in un sottomarino. Il mezzo si inabissa, la pressione aumenta, l’oscurità è sempre più impenetrabile. Sento di avere un sonno millenario. E poi sento un suono, un canto. È lei, la balena, che mi segue mentre scendo in profondità. È bello non essere lasciato solo proprio ora. Mi concedo di chiudere gli occhi, e l’oscurità mi inghiotte di nuovo, come mi volesse nascondere in un abbraccio.
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