Occasioni di dialogo

Si consumano le occasioni di dialogo, lo sento. Penso a quel film cecoslovacco dove i volti si inglobano in un’incessante sequenza di sopraffazione. I personaggi di Jan Svankmajer si masticano e si rigettano, disfacendosi e riplasmandosi ad ogni boccone. Così noi ci stiamo parlando addosso da qualche minuto, sperando che le parole possano scalfire l’altro come oggetti contundenti. E invece di fronte a me ho una persona vacua, lontana. Non è più con me. Le mie parole non hanno peso e si sciolgono nell’aria, non arrivano nemmeno alla soglia dell’udibile. Sfumano contro la sua risolutezza fiera e stolta. Che stupida! Contro il suo sguardo perso nel vuoto. Vorrei mangiarla, trattenerla dentro me. Non è possibile. Stupida, stupida! 

Hai finito? 
Ho finito. 

Ci allontaniamo. Mi trascino dietro tutto il fardello di quanto avrei voluto ancora dire. Le parole (quelle dette, quelle non dette) ora assumono il peso di mille bossoli sputati fuori dal caricatore di un mitra rovente, involucri piombati che si accumulano nella testa come scorie. Ho la bocca impastata e mi muovo senza dare al mio passo una precisa direzione. I pensieri vagolano a caso, attorcigliandosi imbizzarriti. Non guardo nemmeno più davanti a me, gli occhi puntati in giù, su quel ritmico portare un passo avanti l’altro. Mi torna in mente la teoria delle fortificazioni di Austerlitz. Più ci si prodiga nell’esercizio della difesa più ci si invischia nel delirio di una paranoica opera di rafforzamento. Le strutture murarie, sempre più soffocanti, attraggono nemici via via più agguerriti. Sono loro, alla fine, a imporre le regole del gioco, lasciando che gli assediati si tramutino in impotenti osservatori. Si finisce per morire di fame, negli assedi, oppure a non accorgersi di quel punto nascosto e ignorato lasciato scoperto nella foga del trinceramento. 

La mia difesa è stata una rovina. Le mie mura sono crollate. Io sono a pezzi, sparso in calcinacci. 

STOP. Clacson, auto, strepiti. 

Questa mattina mi sono svegliato già incazzato. Ho aperto gli occhi e non ho riconosciuto il posto in cui mi trovavo. Del resto, come sentirsi a proprio agio in un luogo così? Un albergaccio da due soldi. Suonata la sveglia non ho trovato il solito interruttore che, allungando appena la mano dietro la testa, illumina ogni giorno le mie abitudini. Quando la luce ha rischiarato la stanza sono stato assalito da un accanito senso di estraneità. Ci ho messo un attimo per capire non solo dove ero, ma anche chi fossi. Questo smarrimento, che a dir la verità non mi avrà tenuto avvinghiato più di qualche secondo, mi è parso invece protrarsi per un’infinità. Poi ho realizzato. Sono qui per incontrarla, anzi, sono qui per perderla e si sa, per queste cose occorre una convalida, una sorta di certificato. Serve mettere un punto. Gli umani vogliono essere proprio sicuri della fine, e l’essere sicuri passa per l’esaurire le parole da dirsi. Parole di inizio, parole di mezzo, parole di fine. Io devo essermi solo perso il punto.

(………………………………………………………………………………………………………) 

Mi è tornato alla mente un ricordo mentre l’acqua della doccia scorreva viscida lungo il mio corpo - che avrebbe del resto potuto anche essere uno scafandro, un giubbotto, uno strato di pelle morta. Lei pesca un grissino dal cestino di un bar, è l’ora dell’aperitivo. Non saprei dire dove siamo, forse in vacanza. Oppure si tratta di una delle nostre abituali uscite a due passi da casa per sentirci comunque vivi. Ad ogni modo, lei sfila il grissino dal fascio croccante, lo porta lentamente alla bocca e io mi accorgo, con una consapevolezza estrema, che proprio sulla punta di quel grissino si è posato un moscerino, un piccolo esserino flebile e grigiastro. Potrei avvertirla, eppure resto a guardare. Lei apre la bocca, lo fa lentamente, come per dirmi “davvero non vuoi avvertirmi del fatto che sto per masticare un insetto?”, ma io non fiato e, disinvolto, aspetto di vedere cosa succede. E succede che d’un tratto le sue labbra si serrano sul croccante spuntino e tutto finisce in un attimo, senza particolari drammi (fatta eccezione per il moscerino triturato). 

Forse mi sento come il moscerino? Oppure traggo da questo episodio la raffigurazione di una vendetta postuma, anonima, ma inesorabile? Non sono io quello debole, ti ho osservata mentre ti gustavi un insetto! Ah! Stupida! 

La doccia si sta facendo davvero troppo lunga. 

Chissà se questa mattina è capitata prima o dopo il consumarsi della nostra rottura. Potrebbero anche essere passati anni. Ho come l’impressione, a volte, che il tempo segua percorsi tutti suoi, che si avviti e si torca, che si avviluppi su se stesso per scaraventarti a terra disarcionandoti da quella illusione di linearità che tutti vorremmo conservare intatta. E ora (o prima?, o deve ancora accadere?, o è già successo mille volte?) sto camminando alla cieca in questo asfissiante reticolo di viuzze periferiche, con questo groviglio di pensieri che si annodano, si slegano, salgono in superficie disordinatamente come reclamando la loro cazzuta esistenza autonoma. I negozi si susseguono, tutti uguali, mentre i passanti passano, come deve essere. Sono uno di loro, eppure non si può dire il contrario: nessuno è uno di me. Estraneità è il termine più appropriato. Ognuno sta nel suo spazio, vede gli altri, si potrebbe dire che ne riflette l’oggettività, ma questo implica più separazione, non meno. Siamo cose per chi ci guarda, per chi ci cozza contro. Non esiste connessione se non nel botta e risposta che non fa che certificare il nostro esistere come oggetti per gli altri e come soggetti soltanto per noi. Come dialogare con chi in fondo non è nemmeno composto della nostra stessa materia? 

STOP. Ronzio, silenzio, voci. 

Il cielo è blu, una nuvola è appena passata lieve assorbendo per un istante i raggi acuti di mezzogiorno. Non avevo mai guardato il cielo sdraiato sull’asfalto. Causa di forza maggiore, che volete che vi dica. Intorno a me sento un vociare indistinto. Un’ombra mi tocca. No, signora, non mi copra il cielo, non spenga il sole, me lo sto proprio godendo. Sono tornato in me, o così pare, eppure sento pochissimo del mio corpo. Come se fossi estraneo a me stesso. Sento però i pensieri farsi nitidi, sono tutto sensazioni, e ho questo spazio immenso proprio di fronte a me, lo potrei anche toccare. Se solo riuscissi, se solo riuscissi a sollevare il bracc… Non importa. Mi limito a guardare. E respiro, respiro, sono calmo. Mi spiace per quel moscerino, accidenti. E per le parole che non ho detto mentre i pensieri si liberano dall’intrico. 
Come sta? Non si preoccupi, sta arrivando un’ambulanza. 
Grazie, grazie. Sto… bene. Mi lasci soltanto scoperto il cielo. E poi vi dovete scostare, per favore, perché devo andare da lei, ho un sacco di cose da dire.

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