INTRODUZIONE
Un patto che non ha coinvolto tutte le categorie economiche, ma che ha saputo consolidare un blocco di interessi solido e fidelizzato, fondato anche, come hanno dimostrato le recenti inchieste giudiziarie, sui rapporti di lungo periodo con esponenti della criminalità organizzata.
La fase attuale si apre invece con la riforma del federalismo fiscale e la legge di stabilità del 2011, che hanno comportato il ridimensionamento della disponibilità finanziaria della regione, con la soppressione della compartecipazione all’imposta sul valore aggiunto. Nonostante un bilancio relativamente alto e un livello di spesa pro-capite tra i maggiori d’Italia (sebbene in calo), la nuova configurazione normativa (nazionale e comunitaria) impone una più oculata razionalizzazione delle risorse e una minore discrezionalità in merito al loro impiego. Si sono così incrinate irrimediabilmente le condizioni di stabilità dell’assetto politico, a sua volta condizionato da problemi interni (l’incapacità di esprimere un ricambio della classe dirigente e una credibile proposta di sviluppo) e infine delegittimato dalle indagini sull’utilizzo dei fondi dei gruppi consiliari e, soprattutto, dal terremoto delle inchieste sul radicamento della ‘ndrangheta in Valle d’Aosta.
La frammentazione estrema della politica valdostana poggia le sue basi nel più ampio processo di scomposizione politico-economica e di ininterrotti scandali giudiziari.
La crisi legata alla pandemia, nonostante un precario effetto politico di ricompattamento attorno alle forze moderate, non ha fatto che inasprire le tendenze di lungo corso, pesando su un’economia sempre più precaria e su lavoratori e lavoratrici sempre più confinati in settori a basso reddito e a scarse tutele. Nel frattempo, però, corpi “estranei” al contesto valdostano si sono sviluppati e rafforzati nutrendosi sia di parte dell’elettorato autonomista che di quello moderato-progressista, sia di fasce finora ininfluenti o marginali da un punto di vista politico (si consideri, in questo senso, la fugace scalata del M5S e il più consistente consolidamento della Lega).
Ci troviamo a vivere in una crisi costituente, che intercetta e declina la più ampia e secolare crisi del capitalismo neoliberale, la quale determina fratture profonde negli equilibri delle democrazie liberali occidentali, funestate da rigurgiti reazionari, tendenze oscurantiste e spinte disgregative. Si apre, però, un campo di possibilità. È in questo campo che occorre trovare le condizioni per una svolta progressista ed emancipativa.
I. CONTESTO ECONOMICO
La Valle d’Aosta è da tempo una realtà post-industriale, per quanto esistano poli di specializzazione e importanti realtà storicamente consolidate. In un contesto caratterizzato, tra il 2007 e il 2019, da una riduzione del numero delle imprese pari al -14,5%, il settore industriale ha perso numerosi posti di lavoro (20,4% tra il 2008 e il 2019), dinamica confermata da una contrazione delle attività manifatturiere pari al -1,1% nel 2019 e esacerbata dalla crisi del comparto delle costruzioni (che ha conosciuto una perdita occupazionale del 34%). Non è tuttavia immaginabile l’abbandono di una strategia di rilancio del settore secondario, che deve essere ristrutturato e ammodernato, e che deve essere incluso in una più ampia strategia di sviluppo economico sostenibile, tecnologicamente avanzato, energeticamente efficiente e socialmente inclusivo, nonché capace di dare origine a processi di agglomerazione e di sviluppare forme di connessione reticolare tra unità produttive e tra comparti (ispirandosi, inoltre, a modelli di economia circolare), oltre a fornire un contributo in termini di innovazione tecnologica e attrazione sul territorio di settori ad alta intensità di capitale.
La mancanza di un settore capace di trainare l’economia locale è aggravata dagli ampi divari territoriali riscontrati sul territorio valdostano. Il turismo è infatti un settore che si concentra nell’Alta Montagna, mentre la Media Montagna e la Campagna urbanizzata (dove ha sede un settore agricolo potenzialmente innovativo e dove si hanno i tassi di vecchiaia più bassi d’Italia) si collocano su livelli del valore aggiunto simili ad alcune regioni del Mezzogiorno. Per quanto riguarda il Capoluogo (dove è più alto il livello di senilizzazione della popolazione) è l’amministrazione pubblica il vero traino in termini di valore aggiunto pro-capite. Questa grossolana tripartizione (cui si potrebbe aggiungere la concentrazione industriale della bassa valle) suggerisce una profonda fragilità strutturale, legata alle fratture e alle discontinuità territoriali di una regione dove i salari privati rimangono bassi rispetto alla media nazionale, dove la disoccupazione ha conosciuto una forte accelerata a partire dal 2010-2011 e pare recuperare solo di fronte a un aumento degli inattivi, e dove proprio i settori in crescita durante gli anni passati (il turismo e il settore alberghiero) si trovano ora ad affrontare enormi difficoltà legate all'emergenza sanitaria, unendosi così alle imprese del commercio, dell’agricoltura, delle attività immobiliari e del settore industriale.
Le difficoltà, tuttavia, sono frutto di un’eredità storica: un’economia dominata dalla piccola e micro impresa, tipicamente sotto-capitalizzata (e quindi incapace a reggere shock improvvisi o prolungati periodi di crisi), dove i salari sono tendenzialmente più bassi, dove i settori ad alto valore aggiunto scarseggiano, dove la produttività ristagna, così come gli investimenti, e dove manca una coerente e lungimirante politica industriale e di sviluppo.
In tale contesto di precarietà e frammentazione produttiva non si può immaginare un rafforzamento strutturale del mondo del lavoro: senza un piano di uscita dalle condizioni di valorizzazione capitalistica, le condizioni dei salari e dell’occupazione dipendono dalla capacità del sistema economico di produrre ricchezza e crescita. Il mercato, tuttavia, non è in grado di coordinare un processo virtuoso e generalizzato di sviluppo rispettoso delle persone e dell’ambiente: serve per questo un forte ruolo di strumenti di programmazione e pianificazione pubblica, uniti a sforzi altrettanto consistenti per demercificare e democratizzare il più possibile i processi che coinvolgono l’occupazione e l’organizzazione del lavoro.
Lo sviluppo di un welfare pubblico inclusivo e non assistenzialista, oltre alla promozione di forme cooperative di impresa (assieme a strumenti di recupero d’impresa e maggiore partecipazione dei lavoratori all’interno delle imprese) e al sostegno e al rafforzamento del terzo settore, vanno coniugati con un piano di investimenti nei settori innovativi e a maggiore prospettiva di sviluppo, di formazione e qualificazione dei lavoratori, di incentivazione di rapporti di lavoro stabili, a tempo indeterminato. La presenza di settori in permanente affanno va a pesare sulla vita di chi in quei settori lavora. Occorre dunque investire sul rafforzamento dei processi di potenziamento effettivo del ruolo dei lavoratori e delle lavoratrici (che siano autonomi o dipendenti) all’interno di un duplice paradigma: quello della programmazione pubblica degli investimenti e delle principali direttive di sviluppo regionale e quello della maggiore interconnessione e autonomizzazione degli operatori economici (le interconnessioni tra imprese risultano contenute rispetto al dato medio italiano), all’interno di un quadro complessivo dove il sostegno pubblico si coniughi con un potenziamento reale degli attori dello sviluppo locale.
II. CONTESTO POLITICO
L’autonomismo rappresenta oggi più che mai una risposta conservatrice e inadeguata, incapace di delineare una via d'uscita coerente e realistica ai problemi e alle fratture sociali emersi durante il lungo decennio di crisi. Per quanto la tendenza conservatrice sia sempre stata un elemento costitutivo della narrazione autonomista, la sua funzione regressiva e difensiva (invece che affermativa) è esacerbata dalla crisi di egemonia che investe il gruppo dirigente dell’Union e i suoi svariati satelliti e contendenti. L’arretramento politico (la compagine autonomista valeva quasi l’80% nel 2013, scendendo al 42% nel 2020) e la perdita di presa ideologica in tempi di ristrettezze finanziarie ne indeboliscono la capacità di controllo del territorio, mentre gli scandali giudiziario-morali ne hanno eroso la credibilità e l’autorevolezza, oltre che l’agibilità politica (in questo senso vanno letti sia i tentativi esterni di minare il ruolo del Presidente-Prefetto, sia quelli di promuovere una legge elettorale presidenzialista).
Tutti questi “colpi” hanno determinato una involuzione identitaria e una più venale lotta per il potere: da una parte la ricerca di una nuova purezza - in chiave neanche troppo sottilmente etnica - ha portato all’espulsione delle componenti “estranee” (in particolare quelle calabresi, oltre a qualche capro-espiatorio interno) dai propri ranghi, determinando un rischioso divaricamento tra componenti sociali, dall’altra lo scontro tra fazioni ha infittito la frammentazione politica. L’insistenza identitaria, comunque la si voglia declinare, rappresenta un arretramento verso posizioni microsovraniste di chiusura e di rivendicazione di esclusività particolaristica ed escludente. La risposta agli stimoli esterni, sempre visti come potenzialmente minacciosi in quanto disgregatori della “comunità” locale, è sempre illustrata nei termini di un “Noi” coeso e unitario contro un “Loro” definito arbitrariamente.
La prevalenza del soggetto comunitario sul variegato tessuto sociale rende dunque particolarmente inefficace la risposta politica di fronte alla frammentazione socio-economica determinata dal lungo decennio di crisi.
In questo contesto il ruolo della destra è particolarmente preoccupante e trova un inedito terreno fertile. Per decenni gli spazi di agibilità e di rappresentanza della destra (tanto quella moderata quanto quella più radicale) sono stati occupati dalla “balena rossonera” e dalla sua retorica dell’equidistanza opportunistica (ni droite ni gauche) in nome degli interessi locali. Oggi la crisi della classe dirigente autonomista e della sua rispettabilità percepita aprono spazi consistenti per un ricambio del ceto politico e per un ruolo inedito di forze che mai avevano attecchito nell’agone elettorale e nella rappresentanza delle istanze sociali. Sotto questa luce va’ vista la consistente forza acquisita dalla Lega: un processo certamente guidato dalla ribalta nazionale e dall’operazione di trasformazione nazionalista e populista operata da Salvini, ma capace di attecchire in Valle d’Aosta proprio grazie agli spazi lasciati aperti dalla crisi della storica nomenclatura locale. Spazi entro cui un ceto sociale prima sufficientemente tutelato dalla classe dirigente localista, oppure marginalizzato e schiacciato sotto la sua mole (penso alle frazioni superiori delle libere professioni e del commercio), può ora trovare occasioni di rappresentanza e rilevanza, nella lotta per l’accaparramento di risorse scarse e per la rivendicazione di un maggiore peso politico.
Non vanno certo sottovalutati gli appigli reazionari ed escludenti propri della narrazione etno-redistributiva della Lega salviniana (narrazione che ha trovato peraltro terreno fertile nella retorica comunitaria e identitaria autonomista), ma la rivalsa leghista ha una sua specifica configurazione legata al ricambio della classe dirigente, oltre che alla “questione morale” che investe l’autonomismo valdostano. La frammentazione sociale, l’aumento delle disuguaglianze e i processi di impoverimento relativo di lavoratori e lavoratrici non fanno che creare terreno fertile per un ulteriore radicamento delle istanze populiste di destra.
Il centrosinistra valdostano non ha saputo inserirsi adeguatamente in questo processo di scomposizione, mantenendo un profilo subalterno e condizionato ai posizionamenti del mondo autonomista, senza mostrare un profilo autonomo e in grado di imporre al dibattito pubblico e agli alleati di governo temi specifici e distintivi.
Il Partito democratico è stato travolto dalle inchieste legate alle spese dei gruppi consiliari, dimezzando i propri voti e non riuscendo ad eleggere alcun consigliere nel 2018: un vuoto coperto, a riprova dell’esistenza di un consistente spazio per una proposta progressista, dalla coalizione di Impegno Civico. Una coalizione, tuttavia, particolarmente legata a nomi provenienti dalla diaspora autonomista (con il 30% delle preferenze attribuibili a un solo candidato) e legata ai flussi elettorali in uscita dal centrosinistra locale. Il Partito democratico è oggi riuscito a rientrare in Consiglio regionale solo grazie a un’opportuna politica di alleanze, ma riveste un ruolo minoritario all’interno di un sistema (conflittuale) di rapporti di forza.
Entro questa dinamica pare esserci spazio potenziale per colmare il vuoto rimasto aperto a sinistra, coltivando una linea alternativa e indipendente che sappia inserirsi negli spazi lasciati aperti dall’assenza sostanziale di una formazione per il Lavoro e per l’Ambiente, di ispirazione antiliberista e di sinistra in Valle d’Aosta.
III. DALLA PARTE DEL LAVORO
La composizione sociale della Valle d’Aosta ha conosciuto profondi mutamenti nel tempo, alcuni di questi ancora in via di sviluppo. Nel 2017 il reddito pro-capite e la spesa per consumi delle famiglie non avevano ancora recuperato i livelli del 2007, per un’erosione sostanziale della ricchezza pro-capite.
In questo processo di erosione progressiva dei livelli di benessere che avevano storicamente caratterizzato il territorio valdostano, si sono approfonditi i divari interni al mondo del lavoro: le condizioni lavorative sono peggiorate, in linea con la dinamiche di dequalificazione e frammentazione del mondo del lavoro su scala nazionale ed europea.
Da un lato, sul piano demografico, è diminuita la componente lavorativa delle fasce più giovani, parallelamente all’aumento della quota di lavoratori ultracinquantacinquenni: segno non solo della scelta giovanile di abbandonare, a favore di altre regioni o dell’estero, un mercato locale poco orientato al ricambio generazionale, poco innovativo e caratterizzato da un basso livello di qualificazione, ma anche dell’esistenza di forti barriere all’ingresso, come dimostrato dall’elevato tasso di disoccupazione giovanile (21,7% nel 2019). Dall’altro le condizioni contrattuali e retributive del lavoro sono peggiorate fortemente: aumentano i part-time (+36,5% tra il 2007 e il 2019) e gli avviamenti a tempo determinato (43mila nel 2019, pari all’89% degli avviamenti, 15mila in più rispetto al 2009; nel complesso il lavoro a tempo determinato è cresciuto del 50,7% tra il 2007 e il 2019), con un'incidenza del 18,6% dei lavoratori assunti con contratti a termine e un aumento dei lavoratori irregolari.
A livello retributivo, inoltre, la Valle d’Aosta è caratterizzata da livelli salariali più bassi della media italiana nel settore privato, segno dell’inadeguatezza della struttura produttiva locale. Tra chi subisce maggiormente questa situazione troviamo i giovani, le donne, gli stranieri, i dipendenti delle micro-imprese. Come se non bastasse, la crisi legata all’emergenza sanitaria ha interrotto i segnali di ripresa dell’occupazione e ha comportato un forte calo degli avviamenti rispetto al 2019.
Per quanto riguarda il personale pubblico ha pesato, a partire dal 2012, il blocco del turnover, che ha limitato le assunzioni e ha portato a un calo consistente dei dipendenti pubblici, colpendo in particolar modo gli assunti con contratti flessibili (la cui quota è scesa dal 18 al 6% tra il 2008 e il 2018).
La crisi legata all’emergenza sanitaria peserà particolarmente, e in parte ha già pesato, sui lavoratori stagionali, sui lavoratori autonomi (gli indipendenti sono diminuiti del 14,7% tra il 2008 e il 2019, con un particolarmente calo delle lavoratrici indipendenti), sugli addetti del commercio, sui contratti precari e a tempo determinato, sulle donne, sugli stranieri e sui giovani. Molti di questi lavoratori sono concentrati nel settore del turismo, del tempo libero e della ristorazione, tra quelli più colpiti dalle restrizioni legate all’epidemia.
Il malcontento, la perdita di reddito, l’erosione della sicurezza economica e occupazionale sono dinamiche che si sommano a una crisi di lungo periodo che investe svariati settori dell’economia valdostana. Una disgregazione del tessuto sociale che avviene parallelamente all’erosione dei servizi pubblici territoriali, sempre più carenti, inefficienti e esclusivi. Una tale pressione non può che comportare consistenti cambiamenti, sia a livello della tenuta sociale che a livello di turbolenze del quadro politico (ne è un esempio l’elevato tasso, ormai strutturale, di astensionismo).
Serve dunque ridare centralità al mondo del lavoro, dando voce e rappresentanza a una soggettività ampia e trasversale che comprenda le componenti tradizionali dell’occupazione dipendente e le nuove identità occupazionali marginalizzate e precarie. Occorre costruire un’alleanza di classe tra il blocco dei lavoratori e lavoratrici della conoscenza, dell’istruzione, del campo socio-sanitario-assistenziale, e le frazioni di classe emergenti, in declino o a rischio di arretramento (oppure quelle che si vedono tarpare le ali dalle attuali - disfunzionali - relazioni di produzione e di potere). Occorre proporre una visione emancipatrice e unificante capace di uscire dalla narrazione dell’assedio e del contrasto tra lavoratori tutelati e non tutelati tipica della destra, costruendo invece legami solidaristici e unitari tra precariato giovanile, dipendenti del ceto medio e della classe popolare, autonomi appartenenti alle fasce relativamente più precarie e subordinate del mondo del lavoro indipendente (lavoratori a progetto, freelance, lavoratori esternalizzati e a monocommittenza, formatori ed educatori), all’interno di un quadro che sappia unire una prospettiva di rilancio economico e una strategia di uscita dalla precarietà e dalla marginalità, e che al contempo privilegi una strada cooperativa e solidaristica intersezionale.
Servono proposte innovative e realistiche per porre le basi di una tale alleanza sociale: misure per il recupero di impresa, per la riconversione cooperativa delle imprese in fallimento o in difficoltà (in particolare nei settori emergenti), oltre a strumenti per incentivare le alleanze reticolari e consortili tra micro/piccole imprese, misure di incentivazione dei contratti a tempo indeterminato, potenziamento del campo di azione degli operatori di settori emergenti o ad alto potenziale di sviluppo, unitamente a una rivalutazione del ruolo di un welfare universalistico e di un settore pubblico a sostegno dei processi virtuosi ed emancipatori in campo economico e sociale. È necessario coprire il vuoto lasciato da decenni di politiche ciecamente localiste e prive di qualsiasi prospettiva di lungo periodo.
NOTA A MARGINE - Piccole imprese
La Valle d’Aosta è dominata dalla piccola e micro-impresa (le imprese con 0-9 addetti rappresentano il 95% del totale). Di questo fatto va tenuto conto per la ricerca di analisi e di soluzioni realistiche alle problematiche socio-economiche del territorio. Tuttavia va notato come il valore prodotto dallo 0,1% delle imprese valdostane (4 unità con almeno 250 addetti) sia pari al 25,6% del totale, a cui si potrebbe aggiungere il 13,5% delle imprese con 50-249 addetti (che sono lo 0,5%, cioè 68 unità). Quasi il 40% del valore aggiunto valdostano è prodotto da una settantina di imprese, il restante da oltre 11mila (dati Unioncamere-Sisprint).
Nota politica: Occorre individuare linee di azione comune che coinvolgano i settori più precari e disgregati del mondo del lavoro, tanto di quello dipendente che di quello autonomo, in un processo di costruzione di rivendicazioni e strategie capaci di ridefinire un blocco progressista politico-sociale fondato sul lavoro. Non vanno trascurati gli elementi della piccola e micro-impresa e del lavoro autonomo disposti ad abbandonare la retorica proprietaria e competitiva in nome di strategie reticolari, mutualistiche e cooperative.
Nota economica: Le piccole e micro-imprese valdostane si concentrano in particolare nei seguenti settori: imprese artigiane (manifatturiero e costruzioni), del commercio, dell’alloggio e della ristorazione, senza contare le attività professionali e scientifiche.
Problemi tipici della piccola impresa. In Italia le retribuzioni medie nelle piccole imprese sono poco più della metà di quelle nelle imprese maggiori. Il fenomeno è legato alle caratteristiche proprie della piccola impresa, tenendo anche conto della loro incidenza in settori specifici. Una prevalenza di piccole imprese operanti nel settore dei servizi, dove il valore aggiunto e soprattutto la produttività sono particolarmente bassi, comporta di conseguenza basse retribuzioni (oltre a un maggior numero di ore lavorate, una minore creazione di occupazione, una minore spesa in investimenti) e una sensibilità alla competizione tutta spostata sull’elemento di costo (principalmente del lavoro).
Il miglioramento delle condizioni del lavoro dipende da dinamiche oggettive, economiche. In un sistema capitalistico i salari dipendono dal processo di accumulazione capitalista. Con ciò occorre, entro i limiti del possibile, tentare di inserirsi nei processi in atto per innescare processi di scala capaci di rispondere ai problemi oggettivi e alle fragilità della piccola impresa. Uno degli esempi storici di come tale salto di scala sia stato realizzato in un contesto di piccole unità produttive è quello dei distretti industriali. Un modello di cui tenere conto ma, allo stesso tempo, da adattare non solo ai tempi nuovi (quelli della digitalizzazione e dell’economia della conoscenza), ma anche a forme nuove e innovative di “socializzazione” della produzione e della ricchezza. Oggi si possono immaginare modelli a rete, forme di cooperazione tra unità imprenditoriali, sistemi mutualistici di sostegno e di welfare per il lavoro autonomo, consorzi di operatori, strumenti di sviluppo pubblico di piattaforme digitali, ecc.
L’obiettivo comune a tutte queste ipotesi è quello di attivare e rafforzare gli elementi virtuosi presenti nelle piccole imprese (in termini di flessibilità, di creatività, di motivazione, di professionalità) sfruttando al tempo stesso i vantaggi di scala derivanti dai processi di agglomerazione. I vantaggi aggregativi derivanti dalla messa in connessione delle singole unità possono essere di diverso tipo: diffusione delle conoscenze, compartecipazione del rischio, riduzione dei costi, maggiore capitalizzazione e internalizzazione delle imprese, aumento delle risorse disponibili per investimenti, del rafforzamento della forza contrattuale, maggiore capacità di resistenza ai processi di assorbimento da parte delle grandi unità, ma anche inserimento nei circuiti di welfare aziendale, senza contare la possibilità di ridefinire, attraverso una maggiore capacità di pesare nel contesto locale da parte di “culture professionali diffuse”, il ruolo delle politiche pubbliche di sviluppo economico.
Fonti:
- Da una crisi all'altra: economia e società di fronte alla pandemia. Nota sulla situazione economica e sociale della Valle d'Aosta - Anno 2020
- Una ripresa dal passo incerto: segnali positivi, criticità e disomogeneità dei trend. Nota sulla situazione economica e sociale della Valle d'Aosta - Anno 2019
- Banca d’Italia, Economie regionali, L’economia della Valle d’Aosta, giugno 2011-2020
Ires-Cgil, Analisi economica della Valle d’Aosta, Tendenze di breve periodo, 2019
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