Dicembre è stato un mese misero, quest'anno. I motivi sono noti e plurimi, ma attenendomi al tema in questione il punto è che è stata dura trovare lavori di cui parlare. Con un po' di impegno posso però augurare anche questa volta: buon ascolto!
► 1970
Nico - Desertshore (Reprise)
Questo è l'album più bello di Nico, già nota per i suoi splendidi lavori solisti (Chelsea Girl e Marble Index), oltre che per la collaborazione con i Velvet Underground di Warhol (dalla cui esperienza questo Desertshore si porta in dote John Cale come magnifico produttore, coadiuvato dall'altrettanto mitico Joe Boyd). Impossibile - per ottime ragioni - approcciarsi a questo classico con la mente scevra da preconcetti (tutti rafforzativi del valore dell'opera): si tratta di un monolite che, per la sua natura colta e sperimentale, oltre che avveniristica negli arrangiamenti e nel mood (i Dead Can Dance saranno tra i più noti debitori del sound di Christa Päffgen), non può che distanziarsi da qualsiasi altra cosa prodotta in quel 1970, assurgendo a intramontabile capolavoro. La voce imperiosa di Nico si erge sopra le fluttuazioni gotiche dell'harmonium (la prima "Janitor of Lunacy", ode al compianto Brian Jones), oppure tratteggia ballate gotiche fitte di inflitrazioni sonore (rintocchi di piano e bordoni di harmonium in "The Falconer", la cui apertura melodica finale è tanto inaspettata quanto sublime, ripiombando poi nella pece del tema iniziale; pizzichi di clavicembalo nella sinistra "Le petit chevalier"), oppure costruite su semplici armonie vocali e flebili interventi di tromba ("My Only Child"), fino ad arrivare a brani stupefacenti come la solenne "Abschied", dove ritroviamo il senso avanguardistico e drammatico della viola di Cale, la delicatissima e barocca "Afraid", l'onirica e medievaleggiante "All That is My Own". Un dei lavori minimalisti più massimali di sempre.
► 1980
Angel Witch - Angel Witch (Bronze)
La leva punk dell'heavy metal: la new wave of british heavy metal può essere così rappresentata, vista l'evoluzione contemporanea (e antagonista, almeno su un piano sociologico e di costume) alla stagione punk, il cui effetto liberatorio sembra fornire il propellente per liberare le energie di un vigoroso recupero in salsa DIY della recente tradizione hard rock (Blue Oyster Cult, Deep Purple, Led Zeppelin, Black Sabbath e compagnia bella). Eppure, ascoltando le tracce di questo esordio del gruppo londinese, si percepisce anche anche un'indiretta affinità stilistica: il suono è più selvaggio e di pancia, diretto e grezzo, seppur amante del virtuosismo e di un certo esibizionismo machista, oltre che di un immaginario esoterico sconosciuto alla materialista generazione no future. La prima "Angel Witch" è infatti un primo, efficacissimo esempio: chitarre al fulmicotone lanciate in riff scalpitanti e solo imbizzarriti, per una stilettata rapidissima e violenta. Si procede, tra accelerate punk e crescendo prog, con la prorompente "Atlantis", la solenne "White Witch", la settantiana "Sorcerers", la conturbante "Free Man" e la granitica "Angel of Death". Tutta la bellezza di una scena in definizione (per quanto già straordinariamente definita nell'esordio degli Iron Maiden) in un album che ci regala un appetitoso ibrido di sonorità heavy rock liberamente mescolate in una grande prova di creatività.
► 1990
Il black album (Chorny albom) dei Kino è uno dei più intensi dischi postumi mai pubblicati. Non solo perché la storia della band sovietica è di per sé ricca, se non epica (viste le restrizioni governative cui la musica rock doveva creativamente adattarsi), ma anche perché l'ultimo lavoro di Viktor Tsoi, morto in un incidente stradale nell'agosto del 1990, rappresenta l'apice artistico di una carriera indimenticabile, iniziata nei primi Ottanta con registrazioni domestiche in bassa fedeltà ed evolutasi, tra folk, jangle e post-punk, con lavori di grande spessore tra cui i capisaldi della maturità Gruppa krovi (1988) e Zvezda po imeni Solntse
(1989). Tutta l'enfasi new wave di cui erano capaci i Kino (grazie all'istrionico e drammatico Tsoi, il Bruce Lee del rock sovietico) si mescola egregiamente con una rinnovata e aggiornata veste armonica, questa volta senza una sbavatura: "Кончится лето (Konchitsya leto)" è serrata e muscolare, con la marcata sezione ritmica a sostenere il fraseggio chitarristico su cui spicca il motivo elettrico di Yuri Kasparyan, che adorna con i suoi giochi di armonici l'altrettanto intensa "Красно-желтые дни (Krasno-zheltyye dni)", mentre "Нам с тобой (Nam s toboy)" e l'iconica "Муравейник (Muraveynik)" sfoderano un aggiornamento synthpop che sembra arrivare direttamente dai New Order. "Звезда (Zvezda)", dal canto suo, non fa che fornire l'ennesimo inno anthemico (senza dimenticare la malinconica "Кукушка (Kukushka)") a consacrazione di uno dei più grandi miti del rock sovietico di sempre. Imperdonabile ignorare una storia così bella.
► 2000
Juana Molina - Segundo (Domino)
Il secondo album di Juana Molina, allora quasi quarantenne di Buenos Aires con un passato da attrice di programmi tv, rappresenta la definitiva dipartita dal mondo della televisione e il corrispondente approdo, convinto, a quello della musica, dopo l'accoglienza non troppo favorevole del primo lavoro. L'aria di Los Angeles dovette risultare rinvigorente per la Molina, che una volta rientrata a Buenos Aires pubblicò il suo Segundo del tutto padrona dei propri mezzi espressivi. Folktronica soffice e graziosamente profumata di toni latini ("¿Quién?", "¡Que llueva!"), bozzetti da film di Michel Gondry, (la prima "Martin Fierro", "El perro"), sempre in bilico tra un approccio ludico e la sperimentazione colta ("Mantra del bicho feo"), in immersioni di folk psichedelico ("La visita", "El desconfiado") ed elettronica a bassa intensità ("Sonamos"). L'album della Molina rappresenta un interessante e rifinito oggetto musicartigianale, un tentativo di dialogare con la modernità mantenendo però un mood domestico, posato, assorto.
► 2010
Big Blood - Dark Country Magic (Dontrusttheruin)
I nostri figli (o nipoti) non ci crederanno, ma c'è stato un tempo in cui roba come questa era, se non di moda, piuttosto frequente nei circuiti alternativi e indie. Nonostante risultati altalenanti, questo lavoro di una delle band più prolifiche degli anni dieci regala alcune prove di spessore. Partendo da ingredienti che comprendono Nico, Amon Duul e Black Heart Procession, il duo di Portland (luogo cruciale per certo indie sperimentale contemporaneo, con Grouper a far da capofila) sforna piccoli gioielli come "Creepin' Crazy Time" e "Ringers in the Fold", che giocano con un freak-gothic country dai contorni sinistri ed evocativi, stregoneschi e psichedelici (accordi ripetuti di banjo, bordoni di violino, strascichi di elettrica, percussioni rituali, per non parlare della voce stridula e spiritata di Colleen Kinsella), con ballate folk che non avrebbero sfigurato in Carnival of Souls ("She-Wander(er)") momenti corali da Arcade Fire dell'orrore ("...Is All We Have", "Song for RO-HE-GE"), delicate ballate folk-psichedeliche ("Coming Home pt.III"). I problemi ci sono, inutile negarlo, tra cui qualche lungaggine di troppo (tape recordings sconslusionati, freak-out inconcludenti, esperimenti sonori fini a se stessi) e qualche giro a vuoto, ma fa tutto parte del gioco: un gioco che si sviluppava liberamente su bandcamp e che non era mosso da nessuna finalità commerciale, piuttosto dalla volontà di condividere le velleità espressive della coppia. Un gioco che, essendo divertente per i Big Blood, riesce ad esserlo anche per l'ascoltatore, e questo è l'importante (conoscerne di gente che gioca così).
Detto ciò, ecco che come al solito passo in rassegna i dischi più interessanti del 1970, 1980, 1990, 2000 e 2010. Buon ascolto!
Qui l'elenco delle puntate precedenti:
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