Chi l'avrebbe mai detto che novembre potesse somigliare così tanto a marzo? Ecco, ora lo sappiamo. I dischi invece, per fortuna, non sono mai gli stessi. Buon ascolto!
► 1970
Amon Düül II - Yeti (Liberty)
Uno dei dischi più impattanti di sempre per il sottoscritto adolescente (o appena post). Il monolite Yeti, tra i capisaldi del rock psichedelico tedesco, fu capace di cementare le ambizioni di autonomia culturare di una generazione grazie a un lavoro in grado di estremizzare tutte le componenti dell'ondata psichedelica del decennio appena concluso (l'estensione, la profondità sonora, il rumore, l'anarchia compositiva, il freak-out improvvisato, qui esemplificato dalla lunghissima suite finale), sfociando in un contaminatissimo calderone di balzi in avanti, rock anglo-americano e musica d'arte mitteleuropea. Il collettivo musicale di Monaco, convertitosi in band grazie a John Weinzierl dopo l'esperienza della comune degli Amon Düül, arriva a Yeti dopo il bellissimo e promettente Phallus Dei, strano gioiello oscuro incastonato in un nerissimo 1969. Il garage rock di "Burning Sister" e il suo chitarrismo sfrenato inaugurano la prima suite ("Soap Shop Rock"), sorta di zibaldone mutante di acid-rock da sabba stregonesco (i violini sinistri della angosciosa "Flesh-Coloured Anti-Aircraft Alarm" fanno da esorcismo post-bellico di una generazione nata sulle ceneri del nazismo), che lascia spazio alla tregua orientaleggiante di "She Came Through the Chimney" (elemento costante della band, si senta "Cerberus", se non di tutto il krautrock), con i suoi echi alla Velvet Underground. "Archangels Thunderbird" ci regala l'inno definitivo della band, una versione spiritata e heavy dei Jefferson Airplane, declamata dall'allucinata Renate Knaup e colma di dissonanze che contribuiscono ad atmosfere sgranate, rarefatte, minacciose. E se "Eye Shaking King" gioca splendidamente con un estremismo psichedelico senza paragoni (le distorsioni elettroniche applicate alla voce raggelano il sangue, i bordoni di chitarroni elettrici scuotono e stordiscono), avendo la pazienza di superare le intemperie delle logoranti impro finali, "Sandoz in the Rain" giunge a darci il meritato ristoro, oasi metaforica conclusiva di misticismo dolce e comunitario (ospiti della jam i membri della comune Rainer Bauer, Ulrich Leopold, Thomas Keyserling). Un classico intramontabile.
► 1980
Bauhaus - In the Flat Field (4AD)
Facile avvicinarsi a un album del genere nel nuovo Millennio, direte voi, dopo la sua ampia e duratura metabolizzazione e il suo status di indiscusso capolavoro del genere. E invece no, per niente. In qualche modo la santificazione trae in inganno: non ci sono qui gli elementi strettamente di genere che ci si aspetterebbe, non si trovano tra le tracce dell'album gli stilemi cristallizzati nei futuri cliché della corrente gotica. Anzi, le svisate sono ricorrenti e numerose, e lo spirito prevalente è dissacrante e, in certa misura, free-form (per quanto legato dal filo rosso di un'inquietudine orrorifica e angosciata che conferisce al lavoro la sua natura "dark"). A partire dalla prima "Dark Entries", ci si trova di fronte a un'impennata garage (da citare quindi gli Adverts più che i Cure) che, però, cova in seno un'involuzione (più che un'esplosione), un rimestamento sadico e gotico. L'album si mantiene dunque su questa mistura di elettricità chitarristica caustica e sfibrata (un grandissimo e geniale Daniel Ash), lavorando alle contorsioni paranoidi da brividi di "Double Dare", agli strascichi esacerbati e stridenti di "In the Flat Field", alle rarefazioni minimaliste di "The Spy in the Cab", fino alle squadrature post-punk di "St. Vitus Dance" e al conclusivo, tesissimo crescendo di "Nerves", tra rintocchi di piano raggelanti e chitarre espressioniste. Tutto questo sfruttando a meraviglia lo stato di trance costante di un'infoiatissimo Peter Murphy e il lavoro magistrale della sezione ritmica serrata e rutilante del duo David J e Kevin Haskins (capace di destrezze notevoli, come ad esempio in "Dive"). Un capolavoro che costruisce, decostruendone anticipatamente le componenti pure, la sensibilità, prima che lo stile, gothic rock.
► 1990
Happy Mondays - Pill 'N' Thrills and Bellyaches (Factory)
Si potrebbe dire che gli Happy Mondays siano Madchester. Loro, tra gli assoluti antesignani del genere, hanno saputo interpretare al meglio, al di là delle etichette giornalistiche, lo spirito di quel breve ma incontenibile lasso di tempo (e al contempo lo spirito Factory aggiornato a quel tempo). Se già con il disco precedente i fratelli Ryder avevano mescolato un approccio annoiato e indolente a una carica dance stonata, con questo terzo lavoro si consacra la formula nel migliore dei modi. "Kinky Afro" è un rigoglioso ribollire di chitarre stralunate (merito del talentuoso Mark Day), di cori gospel, di propulsioni funk, di molli movenze dance: uno dei tanti pezzi che invitano a muoversi, anche da soli nella propria stanza, come "God's Cop", traghettato lungo un beat conturbante da una slide guitar distorta e languida, o "Loose Fit", in pieno stile Primal Scream, tutta un fiorire di percussioni legato dalle trame chitarristiche sullo sfondo, per non parlare di "Denis and Lois", sgargiante revivalismo anni Settanta contaminato di psichedelia e cultura rave fino all'osso. "Step On", cover radicale del brano di John Kongos, arriva infine a consacrare il tutto con uno dei pezzi più belli e iconici della band. Poi c'è quella sensibilità annoiata e svogliata, all'insegna della ripetizione e della creazione di un mood intorpidito, che rendeva così affascinate il precedente Bummed e che qui si rinnova con la bellissima "Donovan", o con la sordida "Bob's Yer Uncle", o ancora la luminescente "Holidays". Pills 'N' Thrills and Bellyaches, ovvero come salutare il 1990 nel migliore dei modi.
► 2000
The Avalanches - Since I Left You (Modular Recordings)
Ci sono dischi che hanno una natura e uno spirito amabilmente ludico, portando agli estremi la natura leftfield pop che li contraddistingue. Ecco, Since I Left You è l'album ludico per eccellenza, capolavoro Plunderphonics, giocoso e sbarazzino fin nel midollo, capace di elevare le tecniche di sampling e di sound collage a forma d'arte. Ogni elemento, tratto da innumerevoli dissezioni di frasi musicali tratte da altrettanti vinili (e quindi, di nuovo, il gioco dell'appassionato musicale di sistemare citazioni qui e là), è sistemato all'interno di un grande quadro complessivo dove la perfezione dell'incastro è tutto. Quella pennata di chitarra funky nella prima traccia omonima, ad esempio, tra campionature di flauti e quell'alchimia perfetta tra coretto e inserto vocale (tratti, rispettivamente, da "The Sky's the Limit" dei Duprees e da "Everyday" dei Main Attraction), per un risultato che mette insieme dance alternativa alla Saint Etienne, easy listening, soul e sunshine pop anni Sessanta. O ancora le pulsazioni acquatiche nell'house densissima di "Radio", o le sincopi di "Two Hearts in 3/4 Time", splendidamente lounge grazie al vocalizzo di Marlena Shaw in fantomatico duetto con John Cale, le cadenze techno-hip-hop di "Flight Tonight", il tropicalismo psichedelico di "Diners Only" che si scioglie nella house music sgargiante di "A Different Feeling", fino alla consacrazione turntablism/western di "Frontier Psychiatrist" e al delirio vintage di "Live at Dominoes". Un viaggio intricato che non può lasciare indifferenti: tra i lavori più divertenti di sempre.
► 2010
Di rock e pop cinese ne so pochissimo. Di certo però il primo album ufficiale degli Omnipotent Youth Society è il giusto sprone per saperne di più. Dopo anni di singoli, live, e bootleg, l'album viene pubblicato nel 2010 ed è una consacrazione: attivi dagli anni Novanta, i membri del gruppo hanno sviluppato un seguito che, immagino, sia immensamente più largo di qualsiasi altra indie band del globo (e la vittoria dell'importante Top Chinese Music Awards come migliore band non può che aver allargato le fila dei fan). Il lavoro, autoprodotto, è un gioiellino di scrittura, tra elegante chamber rock (la bellissima "Ten Thousand Hippies"), incursioni tra folk, psichedelia e progressive ("The Less than Omnipotent Comedy" con la sua lunga coda strumentale, o la splendida "The Boulder That Crushes the Breast", sprizzante creatività da tutti i pori, tra jangle, musica da camera e indie rock di pregio), regalando momenti di grande grazia compositiva (la ballata "A Heart Wrenching Joke and a Long Daydream", l'ultima "Kill the One From Shijiazhuang"). Un lavoro notevole, che dietro la sua autorevolezza e maturità fa presagire l'esistenza una quantità di tesori sommersi tutta da scoprire.
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