[#10] Dischi di ottobre (con lo ⓪)

Prepararsi al lockdown e al coprifuoco, prepararsi mentalmente, è una pratica inedita che mai ci saremmo immaginati di dover mettere in conto. Eppure eccoci qua. Per fortuna che la compagnia, musicalmente parlando, non manca. Buon ascolto.

► 1970

kevin ayers canterbury 1970
Kevin Ayers - Shooting at the Moon (Harvest)

La scuola di Canterbury aveva la particolarità, più unica che rara, di far esprimere musicisti validissimi in un contesto irriverente, leggero, capace di non prendersi troppo sul serio pur esprimendo una ricerca sonora ai limiti del pop (tra jazz, sperimentazione d'avanguardia, costruzioni progressive e rimandi alla musica colta). Kevin Ayers, proveniente dall'esperienza dei Soft Machine, inaugura la carriera solista nel 1969 con l'irriverente Joy of a Toy, proseguendo con questo Shooting at the Moon, pastiche straniante di pop progressivo e psichedelico, incostante e free form (il collage astrattista di "Rheinhardt and Geraldine" o il concretismo di "Pisser dans un violon"). Dalla cantilena/chanson di "May I", così finemente arrangiata, al chitarrismo hard e contorto di "Lunatics Lament", passando per il divertissement "The Oyster and the Flying Fish" e il progressive-jazz-pop di "Red Green and You Blue", l'album è un continuo alternarsi di sperimentazioni, scherzi, giochi melodici e arditezze compositive. Pur se discontinuo, questo rimane un album curiosissimo e denso di spunti. Un gioiellino di irriverenza compositiva che non suona (quasi) mai meramente formalistica, esprimendo invece una carica vitale e sardonica unica nel suo genere.

► 1980

omd enola gay organization 1980
OMD - Organization (DinDisc)

Ho sempre subito il fascino romantico e decadente degli OMD, band illustre e visionaria, oltre che ambiziosa (l'autosabotaggio di Dazzle Ships proprio all'apice della fama la dice lunga). Eppure, nonostante il seguito di massa, ho sempre trovato bizzarro che i dischi della band di Andy McCluskey vendessero: cupi, ombrosi, pieni di addensamenti atmosferici e brani letargici (se confrontati con gli splendidi e brillanti anthem pop). E quindi "Enola Gay", ovviamente, spigliatissima e radiofonica eppure così stridente nel suo riferimento a uno dei più grandi massacri del ventesimo secolo. Ed ecco, però, che "2nd Thought" giunge cinerea e precaria a smorzare i toni, con i suoi synth eterei su basi ritmiche fruscianti, mentre McCluskey trascina il suo canto desolato. Un piccolo gioiellino di pop oscuro cui fa seguito la successiva "VCL XI", ripetitiva, sperimentale (fitta di intromissioni sonore), un incedere meccanico addobbato da tocchi melodici di synth e rintuzzato dal bel basso corposo che però non concede grandi aperture pop (nessun ritornello). A pensarci, di hit vere e proprie, in questo Organization, abbiamo solo la prima "Enola Gay", "The More I See You" (di chiara derivazione Human League) e "Promise" (che anticipa, col suo gusto romantico e mitteleuropeo grandi successi come "Souvenir"): gli altri sono bozzetti atmosferici di grande eleganza (la cupa "Statues", la severa "The Misunderstanding", ma soprattutto la superba "Stanlow", che richiede però un poco di pazienza prima del climax, rifuggendo nuovamente la fruibilità in favore delle esigenze espressive della band). L'accoglienza del pubblico fu ottima, e il gruppo ne approfittò per lanciare, a un anno di distanza, il fortunatissimo Architecture & Morality, altrettanto conturbante e raffinato. Un successo basato su un elemento tanto netto quanto impalpabile: il fascino. Un fascino ancora intonso dopo quarant'anni dalla pubblicazione.

► 1990

ride shoegaze nowhere sex 1990
Ride - Nowhere (Creation)

Trovo nello shoegaze tutto quello di cui un adolescente introverso potesse avere bisogno negli anni Novanta (ma anche oggi): malinconia dolciastra indie e scariche di rumore psichedelico e ottundente, anche se con una vena di gentilezza borghese infilata tra le righe. I Ride, da Oxford, sono dunque la perfetta sintesi di melodia e rumore, di svagatezza jangle pop e slancio sonicyouthiano. "Seagull" è la perfetta intro, con quei suoi coacervi di suono che si addensano colmando lo spettro sonoro, tra distorsioni roboanti, wah-wah estremi, effettistica di nastri in tape reverse sullo sfondo, eppure senza rinunciare al ruolo guida della melodia vocale di Mark Gardener (senza contare il contributo del basso plastico e giocoso di Steve Queralt), in qualche modo limpida e stagliata sulla massa rumoristica strumentale. Bellezza assoluta, quella che traspare tra i feedback e il massicio wall of sound ("Kaleidoscope" ne è la rapida conferma, col drumming impazzito di Laurence Colbert, "Polar " la somma consacrazione, con le chitarre di Gardener e Andy Bell trattate in maniera radicale, incredibilmente innovativa), che però raggiunge il suo apice in momenti di distesa contemplazione: "In a Different Place" sgocciola malinconia british (marca Creation) da tutti i pori, pur nelle sue esplosioni di chitarre elettriche, per non parlare dell'incredibile "Dreams Burn Down", capolavoro di equilibrio e raffinatezza (e chitarre che punteggiano una trama melodica delicatissima mentre tutto intorno l'atmosfera si infuoca e si gonfia), o dell'ultima "Vapour Trail", colma di classicismo rinascimentale eppure così inedita e avveniristica. Uno dei più grandi fenomeni culturali degli anni Novanta (che in merito a fenomeni culturali non scherzavano) consacrato da uno degli esemplari di maggior pregio di una scena che, nonostante sia durata, allora, poco più di un soffio, ha marchiato a fuoco il rock alternativo contemporaneo.

► 2000

radiohead kid a 2000 daily mail
Radiohead - Kid A (Parlophone)

Dei Radiohead si parla troppo e spesso a sproposito. Quindi: ascoltate questo disco e basta.








► 2010

robert owens chicago house 2010

Robert Owens - Art (Compost)

Dal 2008 in poi (grazie a un capolavoro come quello di DJ Sprinkles) la riscoperta della deep house ha contribuito ad aprire la strada alla più generale ribalta della black music degli anni Dieci. Da un lato si ponevano le basi per una riscoperta "bianca" del genere (Fort Romeau, Blondes, Disclosure, Caribou), dall'altra una rilettura in chiave espansa, allargata all'ibridazione con soul, jazz, lounger'n'b e pop. In questo caso il maestro Robert Owens (accompagnato, nello stesso anno, da John Roberts), non si è fatto scappare l'occasione di dire la sua, anzi, ci ha consegnato un'opera massiccia (doppio album) e esaustiva. Musica d'atmosfera ("Black Diamond"), torpori r'n'b e neo soul ("Hearts and Soul", "Wonderful", "Same Old Thing"), rievocazioni garage ("Art", "Rise"), spinte acid-techno ("Be Your Own Hero"), delizie elettroniche assortite ("Moments"). Insomma, uno zibaldone notevole.
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