- Pierre Bourdieu
Fonte: Berkeley Journal of Sociology, Vol. 32 (1987), pp. 1-17
Pubblicato da: Regents of the University of California
Traduzione: Matteo Castello
Sarebbe facile e allettante ridicolizzare l’argomento di questo simposio e svelare i presupposti nascosti sotto la sua apparente neutralità. Ma se mi consentite una sola critica al modo in cui è formulata la questione della classe sociale, è che porta a credere erroneamente che tale problema possa essere ridotto a una semplice scelta, e risolto da qualche argomento di buon senso.
Infatti, dietro l’alternativa proposta – la classe è un costrutto analitico o una categoria popolare? – si nasconde uno dei più complicati tra tutti i problemi teorici, vale a dire il problema della conoscenza, ma nella forma molto particolare che il problema assume quando l’oggetto di questa conoscenza è fatto sia di soggetti epistemici, sia da soggetti epistemici.
Uno dei principali ostacoli per la sociologia scientifica è l’uso che facciamo delle opposizioni comuni, dei concetti binari, o di quelle che Bachelard chiama “coppie epistemologiche”: costruite dalla realtà sociale, queste vengono sconsideratamente impiegate per costruire la realtà sociale. Una di queste antinomie fondamentali è l’opposizione tra oggettivismo e soggettivismo o, in un linguaggio più attuale, tra strutturalismo e costruttivismo, che possono essere approssimativamente caratterizzati come segue. Dal punto di vista oggettivista, gli agenti sociali possono essere “trattati come cose”, come nel vecchio precetto durkheimiano, il che vuol dire, classificati come oggetti: l’accesso alla classificazione oggettiva presuppone in questo caso una rottura con le ingenue classificazioni soggettive, viste come “preconcetti” o “ideologie”. Dal punto di vista soggettivista, come rappresentato dalla fenomenologia, dalla etnometodologia e dalla sociologia costruttivista, sono gli agenti a costruire la realtà sociale, intesa essa stessa come il prodotto dell’aggregazione di questi atti individuali di creazione. Per questo tipo di marginalismo sociologico, non c’è bisogno di rompere con l’esperienza sociale primaria, perché il compito della sociologia è quello di fornire “un resoconto dei resoconti”.
Questa è in realtà una falsa opposizione. Nella realtà, gli agenti sono sia oggetto di classificazione che soggetti classificatori, ma essi classificano in accordo alla (o a seconda della) loro posizione all’interno delle classificazioni. Per riassumere quello che voglio dire, posso commentare brevemente la nozione del punto di vista: il punto di vista è una prospettiva, una visione soggettiva parziale (momento soggettivista); ma allo stesso tempo è una concezione, una prospettiva, effettuata da un punto, da una determinata posizione in uno spazio sociale oggettivo (momento oggettivista). Consentitemi di sviluppare ognuno di questi momenti, quello oggettivista e quello soggettivista, nel modo in cui si applicano all’analisi della classe, e di mostrare come essi possano e debbano essere integrati.
Il momento oggettivista – dalle classi sociali allo spazio sociale: la Classe come valido costrutto teorico.
La prima domanda, legata a quella assegnata, è: “le classi sono un artificio scientifico oppure esistono nella realtà?”. Questo stesso interrogativo non è che un eufemismo per la domanda più diretta e direttamente politica: “le classi esistono oppure no?”, dal momento che questo interrogativo sorge nell’oggettività stessa del mondo sociale e delle lotte che in esso si verificano.
La questione dell’esistenza o non esistenza delle classi è, almeno a partire dalla comparsa del Marxismo e dei movimenti politici che esso ha ispirato, uno dei maggiori criteri divisivi nell’arena politica. Quindi ci sarebbero tutte le ragioni per sospettare che, qualunque possa essere la risposta a questa domanda, essa dipenda da scelte politiche, anche se le due possibili posizioni sull’esistenza delle classi corrispondono alle due possibili posizioni sul modo di conoscenza, quella realista o quella costruttivista, di cui la nozione di classe è il prodotto.
Chi sostiene l’esistenza delle classi tenderà ad assumere una posizione realista e, se incline alla sperimentazione, tenterà di determinare empiricamente le proprietà e i confini delle diverse classi, a volte arrivando al punto di considerare il singolo individuo tra i membri di questa o quella classe. A questo approccio si potrebbe opporre, e così è stato fatto spesso, in particolare dai sociologi conservatori, l’idea che le classi non siano nient’altro che le categorie dello scienziato, senza alcun fondamento nella realtà, e che ogni tentativo di dimostrare l’esistenza delle classi partendo dalla misurazione empirica di indicatori oggettivi della posizione sociale e economica si scontri con il fatto che è impossibile trovare, nel mondo reale, discontinuità nette: il reddito, così come molte delle proprietà associate agli individui, mostra una distribuzione continua che fa apparire come un puro artificio statistico qualsiasi categoria discreta costruita sulla sua base. E la formula di Pareto, secondo cui tracciare un confine tra un ricco e un povero non sarebbe più facile che tracciarlo tra un giovane e un vecchio – ai giorni nostri si potrebbe aggiungere: tra un uomo e una donna – questa formula soddisferà sempre coloro, e ce ne sono molti, anche tra i sociologi, che vogliono convincere se stessi e gli altri che le differenze sociali non esistono, o che stanno scomparendo (come nell’argomento dell’imborghesimento della classe lavoratrice o dell’omogeneizzazione della società) e su questa base sostengono che non esiste nessun principio di differenziazione dominante.
Quelli che pretendono di trovare classi “preconfezionate” già costituite nella realtà oggettiva e quelli che le ritengono niente più che meri artefatti teorici (accademici o “popolari”), ricavati da un taglia e cuci arbitrario di un altrimenti indifferenziato continuum del mondo sociale, hanno una cosa in comune, e cioè che entrambi accettano una filosofia sostanzialista, nell’accezione del termine di Cassirer, che non riconosce altra realtà se non quella direttamente offerta all’intuizione dell’esperienza ordinaria. Infatti è possibile negare l’esistenza delle classi come insieme omogeneo di individui economicamente e socialmente differenziati oggettivamente costituiti come gruppi sociali, e allo stesso tempo asserire l’esistenza di uno spazio di differenze basato su un principio di differenziazione economica e sociale. Per fare ciò bisogna soltanto accettare la concezione relazionale o strutturale caratteristica della matematica o della fisica moderne, che identificano il reale non con le sostanze, ma con le relazioni. Da questo punto di vista, la “realtà sociale” di cui si parla nella sociologia oggettivista (quella di Marx, ma anche di Durkheim) consiste in un insieme di relazioni invisibili, quelle che nello specifico costituiscono uno spazio di posizioni esterne le une dalle altre e definite dalla loro distanza relativa. Per questo realismo della relazione, il reale è relazionale; la realtà non è altro che la struttura, intesa come un insieme di relazioni costanti che spesso sono invisibili, perché oscurate dalle realtà dell’esperienza sensoriale ordinaria, e in particolare dagli individui ai quali si ferma il realismo sostanzialista. È proprio lo stesso sostanzialismo che rivendica sia la conferma che la negazione delle classi. Da un punto di vista scientifico, ad esistere non sono le “classi sociali” così come intese dal pensiero realista, sostanzialista ed empirista adottato sia dagli oppositori che dai sostenitori dell’esistenza della classe, ma piuttosto uno spazio sociale nel vero senso del termine, se ammettiamo, come Strawson, che la proprietà fondamentale dello spazio sia l’esteriorità reciproca degli oggetti in esso racchiusi.
Il compito della scienza, quindi, è di costruire lo spazio che ci permetta di spiegare e predire il massimo numero possibile di differenze osservate tra gli individui, o, il che è lo stesso, di determinare i principali criteri di differenziazione necessari o sufficienti per spiegare o predire la totalità delle caratteristiche osservate in un dato insieme di individui.
Il mondo sociale può essere concepito come uno spazio multi-dimensionale che può essere costruito empiricamente scoprendo i principali fattori di differenziazione che spiegano le differenze osservate in un dato universo sociale, o, in altri termini, scoprendo i poteri o le forme di capitale che sono o possono diventare efficienti, come gli assi in un gioco di carte, in questo particolare universo, cioè nella lotta (o competizione) per l’appropriazione di risorse scarse di cui questo universo è il sito. Da ciò segue che la struttura di questo spazio è data dalla distribuzione delle varie forme di capitale, cioè dalla distribuzione delle proprietà che sono attive all’interno dell’universo oggetto di studio – quelle proprietà capaci di conferire forza, potere a di conseguenza profitto al loro possessore.
In un universo sociale come quello della società francese, e senza dubbio nella società americana odierna, queste forze sociali fondamentali sono, secondo le mie ricerche empiriche, prima di tutto il capitale economico, nelle sue varie forme; in secondo luogo il capitale culturale o meglio, il capitale informativo, di nuovo nelle sue diverse forme; in terzo luogo due forme di capitale che sono fortemente correlate, il capitale sociale, che consiste nelle risorse fondate sulle connessioni e sull’appartenenza di gruppo, e il capitale simbolico, che è la forma che i diversi tipi di capitale assumono una volta percepiti e riconosciuti come legittimi. Così gli agenti sono distribuiti nello spazio sociale complessivo, in primo luogo in accordo con il volume globale di capitale che questi possiedono, in secondo luogo in relazione alla composizione del loro capitale, cioè in base al peso relativo delle varie forme di capitale rispetto al capitale complessivo, specialmente quello economico e culturale, e in terzo luogo a seconda dell’evoluzione nel tempo del volume e della composizione del loro capitale, cioè in base alla loro traiettoria nello spazio sociale. Agli agenti e ai gruppi di agenti viene assegnata una posizione, un luogo o una precisa classe di posizioni confinanti, per esempio un’area particolare all’interno di quello spazio; essi sono dunque definiti dalla loro posizione relativa rispetto a un sistema multidimensionale di coordinate i cui valori corrispondono ai valori delle diverse variabili pertinenti. (L’occupazione è generalmente un buono ed economico indicatore della posizione nello spazio sociale e, inoltre, fornisce preziose informazioni sugli effetti occupazionali, per esempio gli effetti della natura del lavoro, dell’ambiente lavorativo, con le sue specificità culturali e organizzative, ecc.).
Ed è qui che le cose iniziano a farsi complicate: in effetti è piuttosto probabile che il prodotto della concezione relazionale (come il diagramma a tre dimensioni nell’analisi fattoriale) sia interpretato in senso realista e “sostanzialista”: le “classi” intese come classi logiche – concetti analitici ottenuti ripartendo teoricamente uno spazio teorico – sono quindi considerate come reali, come gruppi costituiti oggettivamente. Ironicamente, più è accurata la costruzione teorica delle classi teoriche, più è alta la possibilità che queste possano essere considerate come gruppi reali. Effettivamente, queste classi sono basate su principi di differenziazione che sono effettivamente i più efficaci nella realtà, vale a dire, ad esempio, i più adatti a fornire la migliore spiegazione del maggior numero di differenze osservate tra gli agenti. La costruzione dello spazio sta alla base di una divisione per classi che sono solo artifici analitici, ma artifici ben fondati nella realtà (cum fundamento in re). Grazie all’insieme dei criteri ordinari che misurano la distanza relativa tra gli individui, acquisiamo gli strumenti per raggruppare gli individui in classi in modo tale che gli agenti nella stessa classe siano tra loro il più simile possibile sotto il maggior numero di aspetti (e tanto più quanto il numero di classi così definite sia ampio e l’area da esse occupata nello spazio sociale sia contenuta), e in modo tale che le classi siano il più possibile differenziate l’una dall’altra – o, in altre parole, garantiamo la possibilità di ottenere la massima separazione possibile tra classi il più possibile omogenee.
Paradossalmente, gli strumenti usati per costruire e raffigurare lo spazio sociale tendono a nasconderlo alla vista; le popolazioni a cui è necessario dare forma per oggettivare le posizioni che occupano nascondono queste stesse posizioni. Questo è tanto più vero quanto lo spazio è costruito in modo tale che, più sono vicini i singoli agenti, maggiore è il numero probabile di proprietà condivise, e viceversa, più sono lontani tra di loro, minori saranno le proprietà in comune. Per essere più precisi, gli agenti che occupano posizioni confinanti in questo spazio, sono sottoposti a condizioni simili e sono dunque soggetti a simili fattori condizionanti: di conseguenza essi avranno tutte le possibilità di avere simili disposizioni e interessi, e quindi di produrre pratiche e rappresentazioni dello stesso tipo. Coloro i quali occupano la stessa posizione hanno tutte le possibilità di avere lo stesso habitus, almeno fino a quando le traiettorie che li hanno portati a quelle posizioni sono esse stesse simili.
Le disposizioni acquisite nella posizione occupata comportano un adattamento a questa posizione – quello che Erving Goffman chiama il “senso del proprio posto”. È questo senso del proprio posto che, in una situazione interattiva, spinge coloro che in francese chiamiamo les gens humbles, letteralmente “la gente umile” - forse “common folks” in inglese – a rimanere “umilmente” al loro posto, e che spinge gli altri a “tenere le distanze”, o a “mantenere il proprio ruolo sociale”. Andrebbe detto tra parentesi che queste strategie possono essere del tutto inconsce a prendere la forma di ciò che comunemente chiamiamo timidezza o arroganza. In verità, queste distanze sociali sono inscritte nel corpo. Da ciò consegue che le distanze oggettive tendono a riprodursi nell’esperienza soggettiva della distanza, essendo la distanza nello spazio associata a una forma di avversione o incomprensione, mentre la vicinanza è vissuta come una più o meno inconscia forma di complicità. Questo senso del proprio posto è allo stesso tempo un senso del posto degli altri e, assieme alle affinità di habitus vissute sotto forma di attrazione o repulsione personale, è alla radice di tutti i processi di cooptazione, amicizia, amore, associazione, ecc., e di conseguenza fornisce il principio di tutte le alleanze e le connessioni durevoli, incluse le relazioni approvate legalmente.
Così, sebbene la classe logica, intesa come un costrutto analitico fondato nella realtà, non sia niente più che l’insieme degli occupanti della stessa posizione nello spazio, questi agenti sono di per sé influenzati nel loro essere sociale dagli effetti delle condizioni e dei condizionamenti corrispondenti alla loro posizione definita sia intrinsecamente (cioè a partire da una certa classe di condizioni materiali di esistenza, da esperienze primordiali del mondo sociale, ecc.), che relazionalmente (cioè nella relazione con altre posizioni, come quelle più in alto o più in basso, o quelle mediane, come nel caso di quelle posizioni “di mezzo”, intermedie, neutrali, né dominanti né dominate).
L’effetto omogeneizzante dei condizionamenti omogenei è alla base di quelle disposizioni che privilegiano lo sviluppo di relazioni, formali o informali (come l’omogamia), che tendono a incrementare questa stessa omogeneità. In parole semplici, le classi costruite raggruppano teoricamente gli agenti che, essendo soggetti a simili condizioni, tendono ad assomigliarsi l’un l’altro e, di conseguenza, sono inclini a riunirsi anche praticamente, a riunirsi come un gruppo pratico, e così a rinforzare i loro punti di somiglianza.
Riassumendo: le classi costruite possono essere caratterizzate in un certo senso come insiemi di agenti che, in virtù del fatto che occupano posizioni simili nello spazio sociale (cioè nella distribuzione dei poteri), sono soggetti a simili condizioni di esistenza e a simili fattori condizionanti e, di conseguenza, sono dotati di simili disposizioni che li spingono a generare simili pratiche. A questo proposito, tali classi soddisfano tutti i requisiti di una tassonomia scientifica, allo stesso tempo predittiva e descrittiva, che ci permette di reperire il maggior numero di informazioni al minor costo: le categorie ottenute separando gli insiemi caratterizzati dalla somiglianza delle loro condizioni occupazionali all’interno di uno spazio tridimensionale, hanno una grandissima capacità predittiva al costo di un relativamente basso sforzo cognitivo (cioè, sono necessarie relativamente poche informazioni per determinare la posizione in quello spazio: bastano tre coordinate, il volume complessivo del capitale, la composizione del capitale e la traiettoria sociale). Questo uso del concetto di classe è inseparabile dall’ambizione di descrivere e classificare gli agenti e le loro condizioni di esistenza in modo tale che la suddivisione dello spazio sociale in classi possa spiegare le variazioni delle pratiche. Questo intento è espresso in forma particolarmente lucida da Maurice Halbwachs, il cui libro, pubblicato nel 1955 con il titolo “Schema di una psicologia delle classi sociali”, apparve per la prima volta nel 1938, un buon decennio prima dell’influente volume di Richard Centers sulla Psicologia delle classi sociali nel suo paese, con il titolo rivelatore: “I motivi dominanti che orientano l’attività nella vita sociale”. Raggruppando in un unico insieme gli agenti caratterizzati dalle “stesse condizioni collettive permanenti”, come dice Halbwachs, la nostra intenzione è di spiegare e predire le pratiche delle varie categorie così costituite.
Si potrebbe però andare ancora oltre e, a partire dalla stessa concezione oggettivista del mondo sociale, postulare, come fece Marx, che le classi teoriche siano classi reali, gruppi reali di individui mossi dalla coscienza dell’identità delle loro condizioni e dei loro interessi, una consapevolezza che simultaneamente li unisce e li contrappone alle altre classi. In verità, la tradizione Marxista commette proprio lo stesso errore teorico che Marx stesso accusava in Hegel: equiparando le classi costruite, che esistono come tali solo sulla carta, con le classi reali materializzate sotto forma di gruppi mobilizzati in possesso di un’autocoscienza assoluta e relazionale, la tradizione Marxista confonde le cose della logica con la logica delle cose. L’illusione che ci porta a credere che le classi teoriche siano automaticamente classi reali – gruppi composti da individui uniti dalla consapevolezza e dalla conoscenza della loro condizione comune e pronti a mobilitarsi nel perseguimento dei loro interessi comuni – proverà a radicarsi in uno dei modi seguenti. Da un lato, ci si potrebbe appellare all’effetto meccanico dell’identità delle condizioni che, presumibilmente, sarà destinato ad imporsi nel tempo. Oppure, seguendo una logica completamente differente, si potrebbe invocare l’effetto di un “risveglio della coscienza” (prise de conscience) concepito come la realizzazione della verità oggettiva; oppure una combinazione qualsiasi dei due approcci. O ancora meglio, quest’illusione proverà a fondarsi sulla riconciliazione, realizzata sotto la guida illuminata del Partito (con la P maiuscola), della visione popolare e della visione accademica, cosicché alla fine il costrutto analitico venga trasformato in una categoria popolare.
L’illusione del teorico che trasforma in realtà le astrazioni nasconde un’intera serie di grossi problemi, cioè quelli che proprio la costruzione di classi teoriche ben fondate, quando controllata epistemologicamente, ci permette di porre: una classe teorica, o “classe sulla carta”, può essere considerata come una classe reale probabile, o come la probabilità di una classe reale, i cui componenti sono probabilmente avvicinati e mobilitati (ma non realmente mobilitati) in base alle loro somiglianze (di interessi e disposizioni). Allo stesso modo lo spazio sociale può essere costruito come una struttura delle probabilità di riunire gli individui o di separarli, una struttura di affinità e ostilità tra di loro. Resta comunque il fatto che, contrariamente a quanto ipotizza la tradizione Marxista, il passaggio dalla probabilità alla realtà, dalla classe teorica alla classe pratica, non è mai garantito: anche se sostenuti dal “senso del proprio posto” e dall’affinità dell’habitus, i principi di rappresentazione e di divisione del mondo sociale che operano nella costruzione teorica delle classi devono competere, nella realtà, con altri criteri, etnici, razziali o nazionali, e ancor più concretamente, con i criteri imposti dall’esperienza ordinaria delle divisioni e rivalità occupazionali, territoriali e locali. La prospettiva adottata nella costruzione delle classi teoriche potrebbe anche essere la più “realista”, visto che fa affidamento sui principi davvero alla base delle pratiche; ma non ciò non basta perché si imponga agli agenti in maniera auto-evidente. La rappresentazione individuale e collettiva che gli agenti possono acquisire del mondo sociale e del loro posto in esso potrebbe benissimo essere costruita secondo categorie del tutto differenti, anche se, nelle loro pratiche quotidiane, questi agenti seguirebbero le leggi immanenti di quell’universo grazie alla mediazione del loro senso del proprio posto.
In breve, ipotizzando che le azioni e le interazioni possano in qualche modo essere dedotte dalla struttura, si rinuncia ad affrontare il problema del movimento dal gruppo teorico al gruppo pratico, cioè, il problema delle politiche e del lavoro politico richiesto per imporre un criterio di visione e divisione del mondo sociale, anche quando questo criterio è ben fondato nella realtà. Mantenendo una netta distinzione tra la logica delle cose e le cose della logica, anche quelle che meglio si adattano alla logica delle cose (come le classi teoriche ben fondate), possiamo dimostrare in un sol colpo diverse affermazioni: prima di tutto che le classi realizzate e mobilitate dalla e per la lotta di classe, le “classi-in-lotta”, come avrebbe voluto Marx, non esistono; poi, che le classi possono aderire a una forma di esistenza definita solo a costo di un lavoro specifico, del quale è un elemento decisivo la produzione specificamente teorica di una rappresentazione delle divisioni; e infine che questo lavoro politico avrà maggiori probabilità di successo se equipaggiato di una teoria con solide basi nella realtà, dal momento che l’effetto esercitato sarà tanto potente quanto più ciò che questa teoria vuole mostrare o far credere si troverà, allo stato potenziale, nella realtà stessa. In altri termini, un’adeguata teoria delle classi teoriche (e dei loro confini) fa supporre che il lavoro politico finalizzato a produrre le classi sotto forma di istituzioni oggettive, allo stesso tempo espresse e costituite da organi di rappresentanza permanenti, da simboli, acronimi e elettori, abbia la sua propria logica specifica, quella propria di tutte le produzioni simboliche. E questo lavoro politico di “classmaking” ha più probabilità di essere efficace quando gli agenti la cui unità si sforza di dimostrare sono vicini tra loro nello spazio sociale e quindi appartengono alla stessa classe teorica.
Sia che abbiano una base occupazionale come nelle nostre società o che abbiano una base genealogica come in quelle pre-capitaliste, i gruppi non si presentano già preconfezionati nella realtà. E anche quando si presentano con quell’aria di eternità che è il segno distintivo della storia naturalizzata, essi sono sempre il prodotto di un complesso lavoro storico di costruzione, come ha mostrato Luc Boltanski nel caso della categoria tipicamente francese dei “cadres” (ingegneri e dirigenti, o classe manageriale). Il titolo del famoso libro di E. P. Thompson, The Making of the English Working Class, andrebbe presso letteralmente: la classe lavoratrice come la percepiamo oggi per mezzo delle parole che usiamo per nominarla, come “classe lavoratrice”, “proletariato”, “lavoratori” (travailleurs), “lavoro”, ecc., e per mezzo delle organizzazioni che dovrebbero rappresentarla, con i loro acronimi, uffici, consigli, bandiere e così via, questa classe è un fondato artefatto storico (nello stesso modo con cui Durkheim parla della religione come una “fondata illusione”). Ciò è vero anche per un gruppi come gli anziani, i vostri “senior citizens”, che Patrick Champagne e Rémi Lenoir hanno mostrato essere una genuina invenzione storica nata dall’azione dei gruppi d’interesse e riconosciuta dalla certificazione legale. Ma è la famiglia stessa, nella sua forma nucleare che conosciamo oggi, che può essere meglio descritta come il prodotto dell’azione, di nuovo riconosciuta dalle disposizioni legali, di un’intera serie di agenti e istituzioni, come le lobbies nel settore della pianificazione e della politica famigliare.
Così, nonostante ci siamo allontanati dal problema iniziale, possiamo provare a riconsiderare i termini con cui è stato formulato. Le classi sociali, o più precisamente, la classe cui ci riferiamo tacitamente quando parliamo di classi sociali, cioè “la classe lavoratrice”, esiste abbastanza da permetterci di dubitare sulla sua esistenza, o al limite di negarla, anche nelle più solide sfere accademiche, solo nella misura in cui tutti i tipi di agenti storici, partendo dagli scienziati sociali come Marx, sono riusciti a trasformare quello che sarebbe potuto rimanere un “costrutto analitico” in una “categoria popolare”, vale a dire in una di quelle finzioni sociali così perfettamente reali prodotte e riprodotte dalla magia della credenza sociale.
Il momento soggettivista – campi di forze e campi di lotte: il lavoro di “class-making”.
L’esistenza o la non esistenza delle classi è una delle maggiori poste in gioco nella lotta politica. Questo fatto è più che sufficiente a ricordarci che, come ogni gruppo, i collettivi che hanno una base economica e sociale, siano essi gruppi professionali o “classi”, sono costruzioni simboliche orientate al perseguimento di interessi individuali e collettivi (e, prima di tutto, al perseguimento degli specifici interessi dei loro portavoce). Lo scienziato sociale si occupa di un oggetto che è esso stesso l’oggetto, e il soggetto, delle lotte cognitive – lotte non solo tra accademici, ma anche tra profani e, tra questi, tra i vari professionisti della rappresentazione del mondo sociale. Lo scienziato sociale potrebbe quindi essere tentato di ergersi ad arbitro, in grado di giudicare con suprema autorità tra costruzioni rivali, tra quelle semplici teorie popolari escluse dal suo discorso teorico senza rendersi conto di come queste siano parte integrante della realtà e, entro certi limiti, siano costitutive della realtà del mondo sociale.
Questo epistemocentrismo teorico porta a ignorare che i criteri utilizzati nella costruzione dello spazio oggettivo e delle classificazioni ben fondate che esso rende possibili, sono anche strumenti – potrei dire armi – e poste in gioco nella lotta di classificazione che determina la creazione o la distruzione delle classificazioni attualmente in uso. Ad esempio, il valore relativo tra i differenti tipi di capitale, economico e culturale, o tra gli svariati tipi di capitale culturale, il capitale legale-economico e il capitale scientifico, viene continuamente messo in discussione, rivalutato, tramite battaglie tese a gonfiare o sgonfiare il valore di uno o dell’altro tipo di capitale. Si consideri, nel contesto americano, la mutevolezza storica dei valori relativi, contemporaneamente economici, sociali e simbolici, dei titoli economici, stock, bond, IRA (conti pensionistici individuali), o dei titoli di studio; e tra questi ultimi, del Master in Business Administrations (MBA) rispetto al Master in Arte e Antropologia o in Letteratura comparata. Un gran numero di criteri utilizzati nelle analisi scientifiche come strumenti di conoscenza, inclusi quelli più neutrali e quelli che sembrano più “naturali” come l’età o il sesso, funzionano nelle pratiche reali come schemi di classificazione (pensiamo all’uso delle coppie vecchio/giovane, paleo/neo, ecc.). Le descrizioni che gli agenti producono per soddisfare le esigenze della loro esistenza quotidiana, e in particolare i nomi dei gruppi e tutto il vocabolario disponibile per nominare e pensare il sociale, devono la loro logica specifica, strettamente pratica, al fatto che sono spesso controversi e inevitabilmente guidati da considerazioni pratiche. Da ciò segue che le classificazioni pratiche non sono mai del tutto coerenti o razionali in senso logico; esse comportano necessariamente un certo grado di rilassatezza, dovuta al fatto che devono rimanere “pratiche”, utili. Dal momento che un’operazione di classificazione dipende dalle funzioni pratiche che soddisfa, questa può basarsi su diversi criteri a seconda della situazione, e può produrre tassonomie altamente variabili. Per le stesse ragioni, una classificazione può operare su vari livelli di aggregazione. Il livello di aggregazione sarà più elevato quando la classificazione verrà applicata a una regione dello spazio sociale distante, e quindi, meno conosciuta – allo stesso modo per cui la percezione degli alberi da parte di un abitante di città è meno chiaramente differenziata rispetto alla percezione di un abitante di campagna. Inoltre, come gli intenditori che catalogano i dipinti in rapporto a un membro caratteristico o archetipo della corrente in questione, invece di passare in rassegna tutti i membri individuali di quella corrente o di prendere in esame tutti i criteri formali necessari per stabilire che un oggetto faccia effettivamente parte di quella corrente, gli agenti sociali, per accertare le posizioni sociali, prendono come punti di riferimento le manifestazioni caratteristiche di una posizione nello spazio sociale con cui abbiano familiarità.
Si potrebbe e si dovrebbe superare, da un lato, l’opposizione tra l’approccio che possiamo etichettare indifferentemente come realista, oggettivista o strutturalista, e la concezione costruttivista, soggettivista, o spontaneista dall’altro. Ogni teoria dell’universo sociale deve includere la rappresentazione che gli agenti hanno del mondo sociale e, più precisamente, del contributo che essi danno alla costruzione dell’idea di quel mondo e, di conseguenza, alla costruzione stessa di quel mondo. Deve tenere conto del lavoro simbolico di fabbricazione dei gruppi, del group-making. È attraverso questo infinito lavoro di rappresentazione (in tutti i sensi del termine) che gli agenti sociali cercano di imporre la loro visione del mondo o la visione della loro posizione in quel mondo, e di definire la loro identità sociale. Una simile teoria deve accettare come una verità incontrovertibile che la verità del mondo sociale è la posta in gioco di una lotta. E, allo stesso modo, deve riconoscere che, a seconda della loro posizione nello spazio sociale, cioè della distribuzione delle varie categorie di capitale, gli agenti impegnati in questa lotta sono equipaggiati molto iniquamente nello scontro per imporre la loro verità, e hanno obiettivi molto diversi, per non dire opposti.
Quindi le “ideologie”, i “pregiudizi”, e le teorie popolari che la frattura oggettivista ha dovuto mettere da parte in primo luogo per costruire lo spazio oggettivo delle posizioni sociali, devono essere reinserite nel modello della realtà. Questo modello deve tenere conto del fatto che, contrariamente all’illusione del teorico, il senso del mondo sociale non si afferma in maniera univoca e universale; è invece sottoposto, nell’oggettività stessa, a una pluralità di punti di vista. L’esistenza di una pluralità di punti di vista e di punti di divisione tra loro differenti, o anche antagoniste, è dovuta, dal lato “oggettivo”, alla indeterminatezza relativa della realtà che si presta alla percezione. Dal lato dei soggetti sensibili, è dovuta alla pluralità di punti di vista e divisioni disponibili in ogni dato momento (i criteri di divisione religiosi, etnici o nazionali, ad esempio, possono competere con i principi politici fondati su criteri economici o occupazionali). Essa deriva anche dalla diversità dei punti di vista implicata dalla diversità delle posizioni, dei punti dello spazio da cui derivano le varie prospettive. In effetti, la “realtà” sociale non si manifesta né come del tutto determinata, né come del tutto indeterminata. Da un certo punto di vista, si presenta come fortemente strutturata, essenzialmente perché lo spazio sociale si rivela sotto forma di agenti e istituzioni dotati di diverse proprietà che hanno probabilità molto ineguali di apparire tra loro combinate: allo stesso modo in cui gli animali con le piume hanno più probabilità degli animali con la pelliccia di avere le ali, così le persone che hanno una perfetta padronanza del loro linguaggio hanno maggiori probabilità degli altri di essere visti nelle sale concerto e nei musei. In altre parole, lo spazio delle differenze oggettive (per ciò che concerne il capitale economico e culturale) trova espressione in uno spazio simbolico di distinzioni visibili, di segni distintivi che equivalgono a un gran numero di simboli di distinzione. Per gli agenti dotati delle pertinenti categorie di percezione, ad esempio di un intuito pratico dell’omologia tra lo spazio dei segni distintivi e lo spazio delle posizioni, le posizioni sociali sono immediatamente distinguibili a partire dalle loro manifestazioni visibili (“ça fait intellectuel”, “fa molto intellettuale”). Detto questo, la specificità delle strategie simboliche e in particolare delle strategie che, come i bluff o dei rovesciamenti simbolici (la versione intellettuale del Maggiolino Volkswagen), sfruttano la padronanza pratica delle corrispondenze tra i due spazi per produrre ogni tipo di interferenza semantica, consiste nell’introdurre, nell’obiettività stessa delle pratiche o delle proprietà percepite, una sorta di ambiguità semantica che non faciliti la decodifica diretta dei segni sociali. Tutte queste strategie trovano ulteriore forza nel fatto che anche le più costanti e affidabili combinazioni di proprietà si basano solo su connessioni statistiche e sono soggette a variazioni nel tempo.
Questo, tuttavia, non è tutto. Se è vero che i principi di differenziazione obiettivamente più potenti, come il capitale economico e culturale, producono differenze nette tra gli agenti situati ai limiti estremi delle distribuzioni, essi sono evidentemente meno efficaci nelle zone intermedie dello spazio in questione. È in queste posizioni medie o intermedie dello spazio sociale che l’indeterminatezza e l’ambiguità del rapporto tra pratiche e posizioni sono maggiori, e che lo spazio disponibile per le strategie simboliche pensate per inceppare questo rapporto è più grande. È comprensibile come questa regione dell’universo sociale abbia fornito agli interazionisti simbolici, specialmente Goffman, un terreno adatto esclusivamente all’osservazione delle varie forme di rappresentazione di sé attraverso cui gli agenti si sforzano di costruire la propria identità sociale. E dobbiamo aggiungere a queste forme le strategie volte a manipolare i segni più affidabili della posizione sociale, quelli che i sociologi si appassionano a usare come indicatori, come l’occupazione e l’origine sociale. È il caso ad esempio, in Francia, degli instituteurs, gli insegnanti di scuola elementare, che chiamano se stessi enseignants, che può voler dire professore di scuola superiore o anche professore universitario; o dei vescovi e degli intellettuali che tendono a sottostimare le loro origini sociali, mentre altre categorie tendono a sovrastimarle. Analogamente, dovremmo anche menzionare tutte quelle strategie ideate per manipolare i rapporti dell’appartenenza al gruppo, siano essi rapporti familiari, etnici, religiosi, politici, professionali o sessuali, per ostentarli o celarli a seconda degli interessi pratici e degli scopi specifici di ogni caso in riferimento alla situazione concreta in questione, scommettendo, in base alle esigenze del momento, sulle possibilità offerte dalle appartenenze simultanee a una pluralità di collettivi. (Tali strategie hanno il loro equivalente, all’interno delle società relativamente uniformi, nel modo con cui gli agenti fanno leva sulle affiliazioni genealogiche, familiari, di clan e tribali).
Questa manipolazione simbolica dei gruppi trova una forma paradigmatica nelle strategie politiche: così, in virtù della loro posizione oggettiva posta a metà strada tra i due poli dello spazio, situandosi in una condizione di instabile equilibrio e oscillando tra due opposte coalizioni, gli occupanti delle posizioni intermedie dello spazio sociale sono l’oggetto di classificazioni completamente contraddittorie da parte di coloro che provano, nella lotta politica, di cooptarli alla propria parte. (I cadres francesi, ad esempio, possono essere liquidati tra i “nemici di classe” e trattati come meri “servi del capitale”, o al contrario possono essere inclusi nella classe dominata, in quanto vittime dello sfruttamento).
Nella realtà del mondo sociale, non ci sono né più né meno confini netti, né più né meno fratture assolute, di quante ce ne siano nel mondo fisico. I confini tra le classi teoriche che l’indagine scientifica ci permette di costruire sulla base di una pluralità di criteri sono simili, per usare una metafora di Rapoport, ai confini di una nuvola o di una foresta. Questi confini possono quindi essere concepiti come frontiere o come livelli immaginari, così che la densità (degli alberi o del vapore acqueo) sia più alta da un lato e più bassa dall’altro, o sia superiore a un certo livello da un lato e inferiore dall’altro. (In realtà, un’immagine più appropriata sarebbe quella di una fiamma i cui contorni sono in costante movimento, fluttuanti attorno a una linea o superficie). Ora, la costruzione di gruppi (mobilitati o “mobilitabili”), vale a dire l’istituzionalizzazione di un’organizzazione permanente capace di rappresentarli, tende a sancire divisioni durevoli e accettate che, nel caso più estremo, per esempio al livello più alto di oggettivazione e istituzionalizzazione, possono prendere la forma di limiti legali. Gli oggetti nel mondo sociale implicano sempre un certo grado di indeterminatezza e ambiguità, e quindi comportano un preciso livello di elasticità semantica. Questo elemento di incertezza è ciò che fornisce terreno a percezioni e costruzioni diverse o antagoniste che si confrontano l’un l’altra e possono essere oggettivate sotto forma di istituzioni durevoli. Una delle maggiori poste in gioco di questi conflitti è la definizione dei confini tra i gruppi, il che vuol dire la definizione stessa di quei gruppi che, facendosi valere e manifestandosi come tali, possono diventare forze politiche capaci di imporre la loro idea delle divisioni, e quindi capaci di assicurare il trionfo di quelle disposizioni e di quelli interessi legati alla loro posizione nello spazio sociale. Così, accanto alle battaglie individuali della vita quotidiana dove gli agenti contribuiscono ininterrottamente a cambiare il mondo sociale sforzandosi di imporre una rappresentazione di se stessi tramite strategie di auto-rappresentazione, si aggiungono le lotte collettive propriamente politiche. In queste lotte il cui fine ultimo, nelle società moderne, è il potere di nomina detenuto dallo stato, per esempio il monopolio della violenza simbolica legittima, gli agenti – che in questo caso sono quasi sempre degli specialisti, come nel caso dei politici – lottano per imporre le rappresentazioni (come ad esempio le manifestazioni) che creano proprio ciò che viene rappresentato, che lo fa esistere pubblicamente, ufficialmente. Il loro obiettivo è di trasformare la propria idea del mondo sociale, e i principi di divisione sui quali essa è basata, nella concezione ufficiale, nel nomos, nel principio di osservazione e di divisione ufficiale.
Ciò che è in palio nelle lotte simboliche è l’imposizione della visione legittima del mondo sociale e delle sue divisioni, cioè il potere simbolico come potere di “costruzione del mondo” (“worldmaking”), per usare le parole di Nelson Goodman, il potere di imporre e inculcare i principi di costruzione della realtà, e in particolare di preservare e trasformare i principi riconosciuti di unione e separazione, di associazione e dissociazione già al lavoro nel mondo sociale come nelle classificazioni vigenti in materia di genere, età, etnia, regione o nazionalità, il che vuol dire, essenzialmente, il potere sulle parole utilizzate per descrivere i gruppi o le istituzioni che li rappresentano. Il potere simbolico, la cui forma per eccellenza è il potere di costruire i gruppi e di consacrarli o istituirli (in particolare attraverso riti istitutivi, dei quali il matrimonio è l’esempio paradigmatico), consiste nel potere di far esistere qualcosa che prima esisteva solo in forma tacita, in forma oggettivata, pubblica, formale, come le costellazioni che, secondo Goodman, iniziano ad esistere solo quando sono scelte e nominate come tali. Quando applicato a un collettivo sociale, anche a uno definito virtualmente nella maniera della nuvola, il potere performativo di dare nomi, quasi sempre associato al potere di raffigurazione, fa esistere in forma stabilita, per esempio come organismo aziendale, ciò che fino ad allora esisteva solo come una collezione seriale di individui giustapposti. A questo punto bisognerebbe dedicarsi più esaustivamente alle implicazioni del fatto che la battaglia simbolica tra gli agenti è perlopiù condotta tramite la mediazione di professionisti della rappresentazione che, agendo come portavoce dei gruppi al cui servizio offrono le loro competenze specifiche, si confrontano l’un l’altro entro un campo chiuso, relativamente autonomo, cioè quello politico.
È qui che potremmo ancora rintracciare, ma in forma del tutto trasfigurata, il problema dello status ontologico della classe sociale e, a dirla tutta, di ogni gruppo sociale. E, seguendo Kantorovicz, potremmo ricorrere al ragionamento dei canonisti che si chiedevano, come facciamo noi qui a proposito della classe, quale fosse lo status di quella che in Latino medievale si chiamava corporatio, il corpo costituito, la “persona giuridica”. In questo caso, concludevano, come faceva Hobbes che a questo proposito seguiva la stessa logica, che il gruppo rappresentato non è altro che ciò che lo rappresenta, o il fatto della rappresentazione stessa, in questo caso la firma o il sigillo che autentica la firma, sigillum authenticum, da cui deriva la parola francese sigle (acronimo, logo); o più direttamente il rappresentante, l’individuo che rappresenta il gruppo, in tutti i sensi della parola, che lo concepisce mentalmente e lo esprime verbalmente, gli da un nome, che agisce e parla in suo nome, che gli da’ un’incarnazione concreta, lo incarna nella sua stessa persona; l’individuo che, rendendo il gruppo visibile, rendendo se stesso visibile al posto del gruppo, e soprattutto parlando al suo posto, lo fa esistere. (Tutto questo è evidente quando il leader, essendo il depositario di tutto il credo del gruppo, diventa l’oggetto della venerazione che il gruppo rende a se stesso, il cosiddetto “culto della personalità”). In breve, il significato, cioè il gruppo, viene associato al significante, all’individuo, al portavoce, o all’ufficio, alla sezione, al comitato, al consiglio che lo rappresenta. Ecco quello che lo stesso canonista chiamava il mistero del “ministero”, il mysterium del ministerium. Questo mistero può essere riassunto con due equivalenze. La prima stabilisce un’identità tra i committenti e i delegati: la Chiesa è il Papa; Status est magistratus; la carica è il magistrato che la esercita, o secondo Luigi XIV “L’Etat c’est moi”; o ancora, il Segretario Generale è il Partito – che a sua volta è la classe, e così via. Quindi la seconda equivalenza assume che l’esistenza confermata del delegato comporti l’esistenza del gruppo dei committenti. La “classe”, o il “popolo” (“Je suis le peuple”, dice Robespierre), o il genere, o la fascia d’età, o la Nazione, o qualsiasi altro generico collettivo sociale, esiste se e solo se esiste un agente (o più di uno) che possa pretendere, con qualche ragionevole probabilità di essere preso sul serio (al contrario del pazzo che confonde se stesso con la Nazione), di essere la “classe”, il “popolo”, la “Nazione”, lo “Stato” e così via.
Dunque, per fornire una breve risposta alla domanda posta, diremo che una “classe”, sia essa sociale, sessuale, etnica, o di qualsiasi altro tipo, esiste quando ci sono agenti capaci di imporsi in qualità di autorizzati a parlare e agire ufficialmente al suo posto e a suo nome, al posto di coloro che, riconoscendosi in questi plenipotenziari, riconoscendoli intitolati del pieno potere di parlare e agire in loro nome, si riconoscono come membri della classe, e facendo ciò conferiscono ad essa l’unica forma di esistenza che un gruppo può possedere. Ma perché questa analisi sia completa, sarebbe necessario mostrare che questa logica di esistenza per delega, che comporta un’ovvia espropriazione, si impone ancor più brutalmente quando i singoli agenti che devono passare da uno stato di esistenza seriale – collectio personarium plurium, come dicono i canonisti – a una condizione di gruppo consolidato, capace di parlare e agire come un unico individuo, tramite un portavoce dotato di plena potentia agendi et loquendi, siano in mancanza di qualsiasi strumento individuale di azione ed espressione. Cosicché in effetti, a seconda della loro posizione nello spazio sociale, i vari agenti non hanno la stessa possibilità di entrare a far parte delle diverse forme di esistenza collettiva: gli uni sono condannati a una ridotta forma di esistenza, il più delle volte ottenuta al costo dell’espropriazione, concessa dai “movimenti” che dovrebbero rappresentare quella che in questo caso chiamiamo una classe (come nell’espressione “la classe lavoratrice inglese”); gli altri assumono probabilmente la piena realizzazione dell’individualità tramite la libera aggregazione dei privilegiati offerta da quei raggruppamenti rappresentanti in forma esemplare e paradigmatica dai club esclusivi (come i circoli, le accademie, i comitati direttivi, o i consigli di amministrazione).
Nella lotta per creare una visione del mondo universalmente nota e riconosciuta, l’equilibrio di potere dipende dal capitale simbolico accumulato da quelli che mirano ad imporre le svariate visioni in competizione, e dal grado in cui queste visioni sono radicate nella realtà. Questo a sua volta solleva il problema di quali siano le condizioni per formare e far prevalere le visioni dominate. In primo luogo, si può affermare che un’azione volta a trasformare il mondo sociale abbia più probabilmente successo se fondata nella realtà. Ora, la visione dei dominati è in questo senso doppiamente distorta: innanzitutto perché le categorie della percezione che essi impiegano sono loro imposte dalle strutture oggettive del mondo, e quindi tendono a favorire una forma di accettazione “doxica” del suo ordine dato; quindi perché i dominanti si sforzano di imporre la loro visione e di sviluppare delle rappresentazioni che propongono una “teodicea del loro privilegio”. Ma i dominati hanno una padronanza pratica, una conoscenza pratica del mondo sociale sul quale la nominazione può esercitare un effetto teorico, un effetto di scoperta: quando è ben fondato nella realtà, l’atto di dare un nome comporta un potere realmente creativo. Come abbiamo visto nella metafora di Goodman sulle costellazioni, la scoperta crea ciò che già esiste ponendolo su un livello differente, quello della padronanza teorica. Dunque il mistero del ministero può esercitare un effetto davvero magico dando potere alla verità: le parole possono creare le cose e, aderendo alla simbolizzazione oggettivata del gruppo a cui danno un nome, possono, anche se solo per un certo periodo, far esistere come gruppi i collettivi che già esistevano, ma solo allo stato potenziale.
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