[#03] Dischi di marzo (con lo ⓪)

Per quanto quest'anno (e questo marzo) sarà ricordato nei libri di storia come l'anno del Covid-19, voglio sforzarmi - esercizio personale - di far finta che tutto sia normale, e che sia ancora il tempo di fare le solite cose di sempre, come elencare i dischi usciti nel mese di marzo delle passate decadi. Buon ascolto!

► 1970

os mutantes a divina comedia brazil pop
Mutantes - A divina comédia ou ando meio desligado

Gotica, tenebrosa, inquietante: la copertina del terzo album dei Mutantes è quanto di più distante dall'immaginario Tropicália del gruppo di musicisti che, qualche anno prima, aveva irrimediabilmente rivoluzionato la musica giovanile brasiliana. Approdo a un rock più direttamente legato alle correnti internazionali, ma anche evoluzione coerente di un percorso che continuava a seguire i presupposti del pensiero tropicalista, ovvero quello di una continua e iconoclasta mescolanza di tratti culturali molteplici. Tra il '69 e il '70 l'era hippie era bella che finita, lasciando il posto a un sound più duro, da un lato, e a un pop più consapevole della propria autonomia artistica dall'altro. A divina comédia fa propria questa nuova consapevolezza sposando un formato psichedelico heavy e contaminatissimo, perfettamente delineato dalla prima "Ando meio desligado", un boogie sommerso da fitte trame di organetto attorno cui tremolano e sbuffano accordi di chitarra elettrica, rintocchi gutturali di basso, parti gravi di piano, il tutto episodicamente riallacciato dal groove ipnotico del tema principale, fino al disfacimento nel freak out finale. Si prosegue con le vorticose e spiritate "Quem tem medo de brincar de amor" e "Ave, Lúcifer", con le ballate sinuose di "Desculpe, babe", "Hey Boy" (doo-wop alla brasiliana) e "Chão de estrelas" (vero e proprio mash-up di generi e suoni concreti da civiltà televisiva), con i frenetici giri rhythm and blues  di "Preciso urgentemente encontrar um amigo" e  con l'hard rock infuocato di "Jogo de calçada". Un lavoro complesso e magnetico, tra i massimi capolavori del pop brasiliano.


► 1980

tuxedomoon half mute post punk synthpop
Tuxedomoon - Half-Mute (Ralph Records)

Ennesimo esempio delle potenzialità innovative e sperimentali della brigata post-punk, questo Half-Mute appare ancora oggi indecifrabile e misterioso, per il suo non essere simile a niente apparso prima e, al contempo, per  aver lasciato ai posteri pochi appigli a cui attaccarsi, lasciando un debito stilistico fatto di cenni, di mood, di tratti, di approccio. San Francisco, tra le culle della stagione hippie, ospita a fine Settanta una schiera di artisti sopra le righe: Dead Kennedys e Avengers per quanto riguarda il punk, Residents, Chrome e Tuxedomoon per quanto riguarda invece la new wave più sperimentale. Affascinati dalla musica europea (in "What Use" si respirano fascinazioni decisamente Bowieane), i Tuxedomoon erano teatrali e atmosferici (si prenda l'eccezionale distesa ambient di "Km / Seeding the Clouds"), fondevano sperimentazione elettronica e distese ritmico-timbriche industriali, oltre a prediligere continui rimandi ai rumoristi colti degli anni Sessanta e Settanta. Violino, sax e basso si alternano così a densi strati di sintetizzatori e drum machine ("59 to 1", col suo incedere robotico e accigliato, "Tritone", un continuo formicolare di pulsazioni sinteticihe attorcigliate ad ansiosi loop di violino, "Volo Vivace", dove il violino si lancia in fraseggi classici sopra il borbottare minaccioso del sintetizzatore), mentre brani come "Loneliness" e "7 Years", danno vita a impaludamenti di cupo post-punk. Radicalismo elegante e morboso: da riscoprire a tutti i costi.



► 1990

depeche mode violator
Depeche Mode - Violator (Mute)

Violator, fin da subito, ha assunto lo status di classico: iconico, diretto, capace di sublimare tutta l'esperienza e l'estetica dei Depeche Mode con un colpo da maestro (cosa non facile, vista la sfilza di pesi massimi sfornati pochi anni prima). Uno dei classici album da consigliare per introdurre i neofiti alla band ("comincia da questo"), ma non solo per l'immediatezza della proposta, quanto per il valore aggiunto che traspare nello scorrere dei brani, nella maturità raggiunta da nove pezzi al limite della perfezione. Il settimo album, quello del superamento degli anni Ottanta, sperimenta una grandeur inedita (gli arrangiamenti ricchi e gonfi di "Sweetest Perfection", i sontuosi addensamenti atmosferici di "Clean"), cerca di imboccare nuove strade ("Personal Jesus", uno stomp elettronico dall'immediatezza un po' cafona ma incredibilmente efficace) o raffinare una formula synthpop portandola a livelli di massima espressività ("Policy of Truth"), regalando capolavori assoluti come "Enjoy the Silence" (dance-pop moderno che spicca per arrangiamenti traslucidi ma sontuosi) e in generale sposando un sound  altamente rifinito (grazie a produttori come Flood) che accomunerà i Depeche Mode ai grandi nomi del nuovo decennio (dagli U2 agli Smashing Pumpkinks, passando per Nine Inch Nails e per la scena indie di James e Curve). Per quanto si possa ritenere più interessante e innovativa la produzione anni Ottanta, non si può ignorare questo vero e proprio monolite.



► 2000

16 horsepower secret south country alternative
16 Horsepower - Secret South (Glitterhouse)

Il country è stato sempre un genere versatile, facile all'ibridazione (si pensi al ruolo esotico della steel guitar hawaiana nella storia del genere). E se Neil Young gettò i ponti per la sua definitiva "modernizzazione", portando il genere dritto dritto alle correnti alternative degli anni Novanta, i 16 Horspower sono stati tra gli esponenti più passionali e fragorosi delle nuove commistioni indie, qui al lavoro per un'interpretazione gotica e debitamente in equilibrio tra classicismo ("Praying Arm Lane") e ibridazione rock ("Clogger"). "Cinder Alley" è forse l'esempio più lampante di questa via inedita: nebbiosa e sinistra, esplode poi in un climax imponente e magmatico, con David Eugene Edwards a dominare l'andamento del brano col suo timbro drammatico e austero (una via di mezzo tra Layne Staley e Mark Lanegan). È però con "Burning Bush" che si raggiunge l'apice dell'espressività della band: il piano acquoso e dolente sprigiona i suoi riverberi in un'atmosfera madida e dark che ricorda i Black Heart Procession, per non parlare degli scambi tra chitarre acustiche e elettriche di "Poor Mouth", altro gioiello di rock nero come la pece. Un lavoro da assaporare con calma, come un buon whiskey.



► 2010

laura marling folk british 2010
Laura Marling - I Speak Because I Can (Virgin)

Laura Marling è la più autorevole interprete del folk contemporaneo britannico, riuscendo fin dagli esordi a lavorare sul genere con una maturità (vocale, di scrittura, di interpretazione) impressionante. Quello della Marling è stato un percorso di maturazione costante: dalla gavetta con i Noah and the Whale alla collaborazione con i Mistery Jets, fino al primo lavoro registrato a soli diciotto anni, le sensazioni erano quelle di un talento eccezionale. Con il secondo lavoro si dispiega a pieno la sensibilità di una musicista capace di spaziare agilmente attraverso le varie diramazioni e sfumature di un sound sempre più distante dalle riduttive connotazioni indie. Si parla il linguaggio colto di Joni Mitchell e Leonard Cohen ("Made by Maid", "Hope in the Air"), si alternano atmosfere appalachiane a suadenti rimandi alla tradizione british (e quindi il banjo di "Rambling Man" e di "Devil's Spoke" accanto a brani come "Goodbye England" e "I Speak Because I Can", dove si respirano gli influssi tanto di Bert Jansch quanto di Jimmy Page), per non parlare delle suggestioni mediterranee di "Alpha Shallows" e del movimentato bozzetto pop di "Darkness Descends". Un ottimo antipasto per godere appieno della produzione (ottima, tutta) del decennio.


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