A novembre occorre scaldarsi, e questi dischi sono tutti straordinariamente caldi, avvolgenti e capaci, a seconda delle esigenze, di dare la carica o offrire un comodo ristoro. E allora via, all'ascolto!
► 1969
Ho sempre nutrito un particolare devozione per i Rolling Stones di fine anni Sessanta: dopo la splendida finestra psichedelica, Jagger e soci tornano a un recupero più o meno oltranzista delle sonorità rhythm and blues degli esordi, sebbene sporcate a dovere di una bella patina polverosa e dark (l'intento è quello di suonare più blues e americani degli americani stessi) e impreziosite da un'autorialità frutto di un percorso consolidato e maturo. Let It Bleed, assieme al precedente Beggars Banquet, rappresenta un gioiellino di rock maledetto, insalubre, capace di inscenare un mood conturbante e sessualmente carico.
L'attacco di "Gimme Shelter", iconica e prorompente, è ovviamente da urlo, così come è pazzesca la carica elettrica di "Live With Me". Ma il country folk di "Love in Vain" è ancora meglio, con il suo molle adagio da veranda assolata e polverosa, mentre la old time music aggiornata di "Country Honk" è quanto di meglio scritto nel genere fin dai brani degli Holy Modal Rounders. Insomma, ciò che rende tanto bello questo disco è l'affascinante alchimia di una scrittura tradizionale, a grana grossa, che viene però ricontestualizzata in una favella universale, archetipa e senza tempo, eseguita con una foga inesauribile, capace di trasudare umori morbosi e languidi, vivissimi a cinquant'anni di distanza. "Let It Bleed" e la sua combinazione eccelsa di piano ragtime e steel guitar, lo swamp rock fumigante e scuro di "Midnight Rambler", il country profumato e dinoccolato di "You Got the Silver": tutto riverbera grazia e turbamento, tradizione e rinnovamento, autentico e posticcio. Un disco di contraddizioni che combaciano perfettamente, fino a esplodere con la solenne e anthemica "You Can't Always Get What You Want", su cui non serve spendere alcuna parola.
Un disco iconico che non smette mai di sorprendere.
Un disco iconico che non smette mai di sorprendere.
► 1979
The Jam - Setting Sons (Polydor)
La vita britannica e la sua rappresentazione. Un approccio quasi sociologico che vive nella musica dei Jam e di cui si era parlato anche nel caso dei Kinks: commentatori sardonici capaci di usare la musica come un coltello analitico che disseziona stili di vita e mode, clima politico e realtà sociale, serrando tutto nella favella svelta e diretta (oltre che potenzialmente acerba, visti i 21 di Paul Weller all'uscita del disco) del pop. La cultura mod viene in questo caso riaggiornata sia per la funzione che per la veste sonora: il punk libera l'espressività e la connette a una nuova sensibilità oppositiva, mentre i suoni si fanno ancora più serrati e aggressivi, per cavalcate anfetaminiche nel passo ma lucide nella visione.
La vita britannica e la sua rappresentazione. Un approccio quasi sociologico che vive nella musica dei Jam e di cui si era parlato anche nel caso dei Kinks: commentatori sardonici capaci di usare la musica come un coltello analitico che disseziona stili di vita e mode, clima politico e realtà sociale, serrando tutto nella favella svelta e diretta (oltre che potenzialmente acerba, visti i 21 di Paul Weller all'uscita del disco) del pop. La cultura mod viene in questo caso riaggiornata sia per la funzione che per la veste sonora: il punk libera l'espressività e la connette a una nuova sensibilità oppositiva, mentre i suoni si fanno ancora più serrati e aggressivi, per cavalcate anfetaminiche nel passo ma lucide nella visione.
Una visione mossa dalla turbolenta contemporaneità britannica, tra conservatorismo imperante, crisi economica e aria di sommossa. Aria di cambiamento, dunque, che arriva a influire sulla quotidianità, sulle relazioni ("But something came along that changed our minds / I don't know what and I don't know why / But we seemed to grow up in a flash of time / While we watched our ideals helplessly unwind", canta Weller in "Thick as Thieves"), ma anche denuncia del trasformismo della generazione dei genitori ("Ideals are fine when you are young / And I must admit we had a laugh / But that's all it was and ever will be", in "Burning Sky")
Il racconto inglese dei Jam è, tuttavia, meno colto, meno esplicitamente narrativo e enciclopedico, ma vive di quadretti familiari (nella parodia barocca di "Smithers-Jones" o nella scarica di elettricità di "Private Hell": "Think of Emma - wonder what she's doing - / Her husband Terry - and your grandchildren / Think of Edward - still at college / You send him letters which he doesn't acknowledge / 'Cause he don't care / They don't care / 'Cause they're all going through their own Private Hell"), in parodistiche raffigurazioni (la presa di distanza dalla politica e dai valori dell'Impero di "Little Boy Soldiers"), di raffigurazioni di decadentismo urbano ("Wasteland"), fino all'anthem working class di "Eton Rifles", dove esplode tutta la carica politica della band (per una composizione affilata e corposa, che riscrive la musica anni Sessanta aggiornandola alle nuove esigenze).
Setting Sons è certamente una tappa importante del percorso dei Jam (culminato nel bellissimo Sound Affects), e offre un'intelligente raffigurazione di quel mondo e di quel periodo storico, fornendo un ottimo ibrido tra l'espressività sganciata del punk e l'estetica affilata e composta del revival mod.
Il racconto inglese dei Jam è, tuttavia, meno colto, meno esplicitamente narrativo e enciclopedico, ma vive di quadretti familiari (nella parodia barocca di "Smithers-Jones" o nella scarica di elettricità di "Private Hell": "Think of Emma - wonder what she's doing - / Her husband Terry - and your grandchildren / Think of Edward - still at college / You send him letters which he doesn't acknowledge / 'Cause he don't care / They don't care / 'Cause they're all going through their own Private Hell"), in parodistiche raffigurazioni (la presa di distanza dalla politica e dai valori dell'Impero di "Little Boy Soldiers"), di raffigurazioni di decadentismo urbano ("Wasteland"), fino all'anthem working class di "Eton Rifles", dove esplode tutta la carica politica della band (per una composizione affilata e corposa, che riscrive la musica anni Sessanta aggiornandola alle nuove esigenze).
Setting Sons è certamente una tappa importante del percorso dei Jam (culminato nel bellissimo Sound Affects), e offre un'intelligente raffigurazione di quel mondo e di quel periodo storico, fornendo un ottimo ibrido tra l'espressività sganciata del punk e l'estetica affilata e composta del revival mod.
► 1989
NoMeansNo - Wrong (Alternative Tentacles)
Una volta partiti non si torna indietro. L'attacco di "It's Catching Up", con quel suo basso stordente e deliberato, trascina l'ascoltatore in un continuo sussulto ritmico di punk rutilante e scosso, una mistura di funk bombastico, hardcore incendiario e un incessante lavorio, a tratti progressivo, di variazioni ritmiche, ponendosi all'incrocio tra Shellac, Primus e Minutemen.
Tutto - compreso il passare da un brano all'altro senza soluzione di continuità - è portato all'eccesso: le chitarre sfibrate della marziale e lancinante "The Tower" (sui cui saliscendi mozzafiato sarebbe da dedicare un minuto di silenzio) e della turbinante "Two Lips, Two Lungs and One Tongue" (vicinissima ai suoni degli Husker Du), le squadrature jazzate di "Tired of Waiting", la sfibrante destrutturazione di "Stocktacking", il funky cazzaro di "Big Dick", l'appassionante monolite di "Rags and Bones", la cupa e massiccia - sebbene esplosiva - "I Am Wrong".
Una scheggia godibilissima e più complessa di quanto potrebbe sembrare a un primo approccio.
Una volta partiti non si torna indietro. L'attacco di "It's Catching Up", con quel suo basso stordente e deliberato, trascina l'ascoltatore in un continuo sussulto ritmico di punk rutilante e scosso, una mistura di funk bombastico, hardcore incendiario e un incessante lavorio, a tratti progressivo, di variazioni ritmiche, ponendosi all'incrocio tra Shellac, Primus e Minutemen.
Tutto - compreso il passare da un brano all'altro senza soluzione di continuità - è portato all'eccesso: le chitarre sfibrate della marziale e lancinante "The Tower" (sui cui saliscendi mozzafiato sarebbe da dedicare un minuto di silenzio) e della turbinante "Two Lips, Two Lungs and One Tongue" (vicinissima ai suoni degli Husker Du), le squadrature jazzate di "Tired of Waiting", la sfibrante destrutturazione di "Stocktacking", il funky cazzaro di "Big Dick", l'appassionante monolite di "Rags and Bones", la cupa e massiccia - sebbene esplosiva - "I Am Wrong".
Una scheggia godibilissima e più complessa di quanto potrebbe sembrare a un primo approccio.
► 1999
Beck - Midnite Vultures (DGC)
Beck: poliedrico, plastico, sfrenato, coloratissimo, sperimentale e nonostante tutto perfezionista. Midnite Vultures vede l'artista americano uscire dalla "comfort zone" alternativa e lo-fi per mettere le vesti di una funk-star iperattiva, postmoderna e sperimentale, intenta a maneggiare in modo estremamente libero elementi hip hop, disco, soul ed elettronici, per 11 godibilissimi pastiche sonori.
"Sexx Laws" è un attacco che unisce Prince e James Brown in un morbido abbraccio di groove conturbante e propulsivo, mentre la successiva "Nicotine & Gravy" è molle e liquefatta, un andazzo narcotizzato con quel groove che borbotta sullo sfondo e che funge da base per un progressivo infittirsi delle tessiture, infiltratissime e manipolate (scratch, sibili di sintetizzatore, cut and paste vocali, sample plurimi), fino alla coda astratta e psichedelica. Impossibile fermarsi, tanto il turbinio di intuizioni e ganci sia corposo: "Mixed Bizness" è coloratissimo funky anni Settanta che vive di lessico retrofuturista e spiazzanti interpolazioni, "Get Real Paid" è una fantasia robotica e acida, ultra-pop e colma di giustapposizioni e citazioni (non ultima quella di una versione aggiornata dei Talking Heads di Remain in Light ai tempi della dance alternativa), "Hollywood Freaks" è hip hop astratto e mutante, "Broken Train" si impantana in un trip-hop fumoso, e "Milk & Honey" anticipa un senso dell'indie elettronico che avrebbe spopolato dieci anni più tardi.
Citazionista ("Beautiful Way" è un incontro morbido tra Rolling Stones e James) e camaleontico ("Debra" è pura rievocazione Seventies), Midnite Vultures è un vero e proprio party d'addio per gli anni Novanta, qui metabolizzati e digeriti in vista di un superamento totale, di un'apertura a una nuova era che avrebbe fatto di questo approccio collagistico e manipolativo del pop, visto come una tavolozza dei colori da mischiare a piacimento, uno standard. Un piacere ancora oggi vivido e sfrontato.
Beck: poliedrico, plastico, sfrenato, coloratissimo, sperimentale e nonostante tutto perfezionista. Midnite Vultures vede l'artista americano uscire dalla "comfort zone" alternativa e lo-fi per mettere le vesti di una funk-star iperattiva, postmoderna e sperimentale, intenta a maneggiare in modo estremamente libero elementi hip hop, disco, soul ed elettronici, per 11 godibilissimi pastiche sonori.
"Sexx Laws" è un attacco che unisce Prince e James Brown in un morbido abbraccio di groove conturbante e propulsivo, mentre la successiva "Nicotine & Gravy" è molle e liquefatta, un andazzo narcotizzato con quel groove che borbotta sullo sfondo e che funge da base per un progressivo infittirsi delle tessiture, infiltratissime e manipolate (scratch, sibili di sintetizzatore, cut and paste vocali, sample plurimi), fino alla coda astratta e psichedelica. Impossibile fermarsi, tanto il turbinio di intuizioni e ganci sia corposo: "Mixed Bizness" è coloratissimo funky anni Settanta che vive di lessico retrofuturista e spiazzanti interpolazioni, "Get Real Paid" è una fantasia robotica e acida, ultra-pop e colma di giustapposizioni e citazioni (non ultima quella di una versione aggiornata dei Talking Heads di Remain in Light ai tempi della dance alternativa), "Hollywood Freaks" è hip hop astratto e mutante, "Broken Train" si impantana in un trip-hop fumoso, e "Milk & Honey" anticipa un senso dell'indie elettronico che avrebbe spopolato dieci anni più tardi.
Citazionista ("Beautiful Way" è un incontro morbido tra Rolling Stones e James) e camaleontico ("Debra" è pura rievocazione Seventies), Midnite Vultures è un vero e proprio party d'addio per gli anni Novanta, qui metabolizzati e digeriti in vista di un superamento totale, di un'apertura a una nuova era che avrebbe fatto di questo approccio collagistico e manipolativo del pop, visto come una tavolozza dei colori da mischiare a piacimento, uno standard. Un piacere ancora oggi vivido e sfrontato.
► 2009
Real Estate - Real Estate (Woodsist)
Un disco, questo, che non rende per niente l'idea di quali sarebbero stati gli sviluppi di una band che, a partire dal successivo, meraviglioso Days, avrebbe forgiato almeno un paio di gioiellini jangle pop di pregiata fattura, cristallini e melodiosi. L'esordio del 2009 conserva però un fascino tutto suo, un pop ipnagogico e sfumato che ben si sposa con quanto fatto, tra fine Duemila e inizio anni Dieci, da una piccola compagine dedita a una rivisitazione da cameretta di un indie pop da spiaggia, sgangherato e soft-psichedelico (penso ai Desolation Wilderness, ai Floating Action, ai Beach Fossils e ai Drums), da ascoltare su spiagge autunnali con il ricordo nebulizzato di un'estate passata.
Ecco, i Real Estate, con le loro chitarrine dolciastre e le loro armonie vocali anni Sessanta, realizzano un acerbo ma affascinate diamante grezzo. "Let's Rock the Beach" (un titolo un programma, insieme al jangle pop della prima "Beach Comber") serva da esempio: placida e ondosa, riverberante spuma e goccioline nebulizzate, psichedelica e sognante. Una piccola delicatezza. Lo stesso clima sospeso si trova nell'ultimo bozzetto folk corale "Snow Days", nell'adagio chiaroscurale "Suburban Dogs", nello sviluppo armonico aperto e languido di "Black Lake", nella sbarazzina e vibrante nenia di "Fake Blues".
Melodie accennate ma avvolgenti, gran senso dell'atmosfera (molti pezzi sembrano suonati sott'acqua, tanto sono tremoli e ovattati), sensibilità fine e screziata per un songwriting dolce e posato. Niente, lo ripeto, che lasciasse prefigurare una mutazione così inaspettata, ma pensandoci oggi le radici sono tutte qui.
Un disco, questo, che non rende per niente l'idea di quali sarebbero stati gli sviluppi di una band che, a partire dal successivo, meraviglioso Days, avrebbe forgiato almeno un paio di gioiellini jangle pop di pregiata fattura, cristallini e melodiosi. L'esordio del 2009 conserva però un fascino tutto suo, un pop ipnagogico e sfumato che ben si sposa con quanto fatto, tra fine Duemila e inizio anni Dieci, da una piccola compagine dedita a una rivisitazione da cameretta di un indie pop da spiaggia, sgangherato e soft-psichedelico (penso ai Desolation Wilderness, ai Floating Action, ai Beach Fossils e ai Drums), da ascoltare su spiagge autunnali con il ricordo nebulizzato di un'estate passata.
Ecco, i Real Estate, con le loro chitarrine dolciastre e le loro armonie vocali anni Sessanta, realizzano un acerbo ma affascinate diamante grezzo. "Let's Rock the Beach" (un titolo un programma, insieme al jangle pop della prima "Beach Comber") serva da esempio: placida e ondosa, riverberante spuma e goccioline nebulizzate, psichedelica e sognante. Una piccola delicatezza. Lo stesso clima sospeso si trova nell'ultimo bozzetto folk corale "Snow Days", nell'adagio chiaroscurale "Suburban Dogs", nello sviluppo armonico aperto e languido di "Black Lake", nella sbarazzina e vibrante nenia di "Fake Blues".
Melodie accennate ma avvolgenti, gran senso dell'atmosfera (molti pezzi sembrano suonati sott'acqua, tanto sono tremoli e ovattati), sensibilità fine e screziata per un songwriting dolce e posato. Niente, lo ripeto, che lasciasse prefigurare una mutazione così inaspettata, ma pensandoci oggi le radici sono tutte qui.
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