Ed eccoci al mese più bello dell'anno. Malinconico, colorato, profumato. Settembre è adatto per i dischi importanti, quelli che ti guidano per tutto il resto della fine dell'anno, per poi accompagnare l'inizio di quello nuovo. Dischi di confine, quindi, resi ancora più liminali dal loro essere del 1969, dunque aperti al salto verso l'ignoto, e quindi inclini a una carica o una malinconia ancora maggiore. Buon ascolto!
► 1969
Townes Van Zandt - Townes Van Zandt (Poppy)
Disco affascinante e delicato, quello del cantautore americano, qui al terzo lavoro. Sui solchi di quanto fatto da Bob Dylan, Jackson C. Frank, Eric Andersen e più in generale dalla nuova generazione di folkers americani, Van Zandt innesta un suo particolare approccio quieto e poetico impregnato di americana e country, riallacciandosi direttamente a gente come Hank Williams o Ernest Tubb, insomma a una tradizione profonda che sarebbe stata riadattata, tra la fine dei Sessanta e i primi Settanta, da Byrds, Flying Burrito Bros, Gram Parsons e Gene Clark. Il tutto condito con una fragilità che avrebbe più volte contraddistinto un percorso di vita tutt'altro che facile.
Disco affascinante e delicato, quello del cantautore americano, qui al terzo lavoro. Sui solchi di quanto fatto da Bob Dylan, Jackson C. Frank, Eric Andersen e più in generale dalla nuova generazione di folkers americani, Van Zandt innesta un suo particolare approccio quieto e poetico impregnato di americana e country, riallacciandosi direttamente a gente come Hank Williams o Ernest Tubb, insomma a una tradizione profonda che sarebbe stata riadattata, tra la fine dei Sessanta e i primi Settanta, da Byrds, Flying Burrito Bros, Gram Parsons e Gene Clark. Il tutto condito con una fragilità che avrebbe più volte contraddistinto un percorso di vita tutt'altro che facile.
"Waitin' Around to Die" è forse il brano più cupo che si potesse ascoltare negli anni Sessanta, con quell'armonica che aggiunge asprezza a un giro di accordi in finger picking che rimpasta le parole amare di Van Zandt: "Sometimes I don't know where / This dirty road is taking me / Sometimes I can't even see the reason why / I guess I keep a-gamblin' / Lots of booze and lots of ramblin' / It's easier than just waitin' around to die". Fa il paio la struggente "Don't Take it Too Bad" ("And we just can't have that, girl / 'Cause it's a sad, lonesome, cold world"), mentre brani come "Columbine" e "Colorado Girl" raddolciscono un poco l'atmosfera con la loro poetica intensa e malinconica, contrappuntata dal country corposo di "Lungs", dalla cowboy-ballad "I'll Be Here in the Morning" e dalle incredibili "Face Thee Well, Miss Carousel" e "(Quicksilver Dreaming of) Maria", capolavori di scrittura e resa sonora.
Un disco imponente, scuro come la pece e carico di una rassegnazione esistenziale che è però ribadita come una certezza, fatta diventare un fiero punto di forza. Da annoverare tra i grandi lavori autoriali del decennio.
► 1979
Gang of Four - Entertainment! (EMI)
Se dovessi scegliere un disco in rappresentanza del post-punk molto probabilmente sceglierei questo. Qui ci sono tutti gli elementi che contraddistinguono l'approccio, l'estetica, l'ideologia e il sound di chi voleva fare i conti con il rock dopo la deflagrazione punk. I Gang of Four, alfieri della scena di Leeds, erano teorici - tutti provenienti dall'Università di belle arti - e programmatici, politici e caustici, e la loro musica era una sorta di funk svuotato di ogni carnalità ed erotismo, un insieme spigoloso e austero di chitarre graffianti, ritmi netti e precisi, bassi sempre accigliati e borbottanti, per un complessivo sound tagliente e serrato (sebbene molto espressivo).
Capolavoro nel capolavoro, "Damaged Goods" rappresenta bene l'andazzo generale: la velocissima chitarra in palm mute di Andy Gill, il giro di basso da battaglia (come al solito unico elemento melodico) di Dave Allen, e la batteria di Hugo Burnham che spinge a testa bassa, compressa e decisa, mentre Jon King dipinge un concitato atto sessuale ricondotto, alla fine, a un rapporto commerciale, a un mero scambio di lussuria dominato dalla data di scadenza, dal costo con cui ripagare la delusione finale. Ovviamente il disco è pieno di brani strabilianti: gli stop-and-go convulsi della prima "Ether", il punk-funk a cassa dritta di "Return the Gift", i coacervi di rumore chitarristico di "Guns Before Butter", il pop-punk di "I Found That Essence Rare", le striature atonali dell'asfissiante "Contract", la sinistra "5.45" e la degna conclusione (ossessiva, destrutturata, cupa) di "Love Like Anthrax".
Incredibile quanto questo album abbia influenzato l'immaginario di generazioni di musicisti (dal post-core dei Novanta al revival wave del nuovo Millennio), forgiando un suono inconfondibile e spartiacque. Impossibile da non adorare, Entertainment! rimane ancora oggi un lavoro provocatorio e radicale.
Se dovessi scegliere un disco in rappresentanza del post-punk molto probabilmente sceglierei questo. Qui ci sono tutti gli elementi che contraddistinguono l'approccio, l'estetica, l'ideologia e il sound di chi voleva fare i conti con il rock dopo la deflagrazione punk. I Gang of Four, alfieri della scena di Leeds, erano teorici - tutti provenienti dall'Università di belle arti - e programmatici, politici e caustici, e la loro musica era una sorta di funk svuotato di ogni carnalità ed erotismo, un insieme spigoloso e austero di chitarre graffianti, ritmi netti e precisi, bassi sempre accigliati e borbottanti, per un complessivo sound tagliente e serrato (sebbene molto espressivo).
Capolavoro nel capolavoro, "Damaged Goods" rappresenta bene l'andazzo generale: la velocissima chitarra in palm mute di Andy Gill, il giro di basso da battaglia (come al solito unico elemento melodico) di Dave Allen, e la batteria di Hugo Burnham che spinge a testa bassa, compressa e decisa, mentre Jon King dipinge un concitato atto sessuale ricondotto, alla fine, a un rapporto commerciale, a un mero scambio di lussuria dominato dalla data di scadenza, dal costo con cui ripagare la delusione finale. Ovviamente il disco è pieno di brani strabilianti: gli stop-and-go convulsi della prima "Ether", il punk-funk a cassa dritta di "Return the Gift", i coacervi di rumore chitarristico di "Guns Before Butter", il pop-punk di "I Found That Essence Rare", le striature atonali dell'asfissiante "Contract", la sinistra "5.45" e la degna conclusione (ossessiva, destrutturata, cupa) di "Love Like Anthrax".
Incredibile quanto questo album abbia influenzato l'immaginario di generazioni di musicisti (dal post-core dei Novanta al revival wave del nuovo Millennio), forgiando un suono inconfondibile e spartiacque. Impossibile da non adorare, Entertainment! rimane ancora oggi un lavoro provocatorio e radicale.
Battiato - L'era del cinghiale bianco (EMI Italiana)
Una vera e propria istituzione degli Ottanta italiani, Franco Battiato, attivissimo nel forgiare un nuovo sound con cui approdare al nuovo decennio, messo a disposizione di alcuni dei nomi più importanti e affascinanti di quel periodo (Giuni Russo, Alice, Milva, Francesco Messina, tutti in stretta collaborazione con Giusto Pio). Un percorso, questo, inaugurato nel 1979 con l'album L'era del cinghiale bianco, vero fulmine a ciel sereno dopo una sfilza di lavori ostici e sperimentali: qui il discorso si fa finalmente pop, mantenendo però uno spirito di ricerca e di avanguardia. Pop cerebrale e austero, seppur energico, finemente arrangiato e dotato di un'elegante sensibilità barocca ed esoterica.
"L'era del cinghiale bianco" è quindi una dichiarazione di intenti vera e propria, con chitarre new wave (Alberto Radius) e tessiture di tastiere a fare da substrato al violino zigzagante di Pio e a quella batteria che sembra suonata da un automa (Tullio De Piscopo), per un linguaggio propulsivo e futuristico, apparentemente semplice ma complesso nei suoi continui cambi di tempo, rimpolpato per bene dallo splendido basso rotondo di Julius Farmer (Farmer, Radius e De Piscopo arrivavano, non a caso, dall'esperienza con un altro grande del rinnovamento musicale italiano: Faust'O). Il senso di modernità che si respira è grande, forse più grande che non nei tentativi di avanguardia di pochi anni prima.
A confermare la sensazione di profonda innovazione di suono e linguaggio troviamo brani come "Magic Shop", che riscrive la canzone italiana per l'era new wave, mantenendo però una componente colta ed enfatica, con quell'organo che spinge in alto, perfetto contraltare per lo svolgimento plastico del pezzo; "Strade dell'est", con quei fraseggi elegantissimi di tastiera su incalzanti tappeti percussivi; "Il re del mondo", memorabile nei suoi arrangiamenti placidi e psichedelici, "Pasqua etiope", ballata pianistica di infinità sensibilità compositiva (tra musica sacra e sperimentazione progressiva); e infine la perla "Stranizza d'amuri", ode neoclassica su cui però interviene lo xilofono coloratissimo ed esotico, per un'opera di ibridazione cultural-sonica da brividi.
Dischi così se ne sentono raramente. Per fortuna che abbiamo Franco Battiato.
► 1989
The Field Mice - Snowball (Sarah)
I Field Mice sono uno dei nomi più rappresentativi, stilisticamente parlando, del fenomeno twee pop: roba intima, da cameretta, senza alcuna pretesa commerciale, anzi pensata apposta per l'ascolto in cuffia di qualche adolescente timido e riservato. Melodie dalle tinte pastello, fischiettabili, voci flebili ed eteree, uptempo mai troppo spinti, atmosfere leggere e infantili.
I Field Mice sono uno dei nomi più rappresentativi, stilisticamente parlando, del fenomeno twee pop: roba intima, da cameretta, senza alcuna pretesa commerciale, anzi pensata apposta per l'ascolto in cuffia di qualche adolescente timido e riservato. Melodie dalle tinte pastello, fischiettabili, voci flebili ed eteree, uptempo mai troppo spinti, atmosfere leggere e infantili.
Snowball, pubblicato da una delle etichette portavoce del genere (la Sarah Records), è un piccolo manifesto non voluto, che ha il merito di meglio sintetizzare le caratteristiche tipiche di quel sound. "Let's Kiss and Make Up" è un lento ondeggiare tra modulazioni elettroniche e arpeggi jangle sberluccicanti, dove la nenia sfumata di Robert Wratten prefigura la posa che avrebbero assunto, su basi sonore ben più fragorose, gli shoegazer di lì a poco. "You're Kidding Aren't You" smuove l'atmosfera con uno dei brani simbolo della scena, un jangle-pop guidato da un piano insistente e giocoso, rincalzato da una chitarrina dolciastra che segue a mo' di commento del verso, efficacissimo, "You're kidding, aren't you? / Please say you are", mentre "End of the Affair" mette in scena il lato più elegante e malinconico della band.
Le perle dell'album sono ancora molte, tra cui la graziosa "Couldn't Feel Safer" (inutile dire che i giri di basso di Michael Hiscock sono godibilissimi), la spigliata "This Love is Not Wrong", la psichedelica e noise (di fatto shoegaze) "White", l'ombrosa "Letting Go" (par di sentire i Felt).
Ottimo lavoro di pop alternativo per eterni ragazzini. Dunque senza età.
► 1999
Disco cinematico e terapeutico, questo realizzato da Roger Quigley e Mark Tranmer, adatto per far passare emicranie e per lanciare i pensieri in aria, slegati da ogni peso o preoccupazione. Direte: esagerato! Eppure l'ascolto di Seventeen Stars è un vero e proprio tonico, un lavoro fuori dal tempo che inanella brani dolciastri e sospesi, a partire dalla stupenda intro, malinconica e pensosa, tra field recordings e chitarre dolenti in riverbero.
Siamo a metà tra The Divine Comedy, post-britpop alla Black Box Recorder e una versione chamber dell'indie pop più romantico (Belle and Sebastian): "Even If My Mind Can't Tell You" metterebbe al tappeto anche un leghista reduce da Pontida, con le sue armonie soffici di tastiere e chitarre e una melodia ariosa sospinta dal motivo ostinato dello xilofono su cui si avvolgono il piano e la chitarra. E se non fosse abbastanza arriva la successiva "Pro-Celebrity Standing Around" ad assestare il colpo giusto per settare il giusto mood per un totale e incondizionato abbandono all'album (in questo caso arpeggi risonanti di chitarra su nenia indolente). Il resto è tutto un indugiare su distese strumentali da dormiveglia ("Four Days", "Low Tide"), brani notturni da autunno inoltrato ("Seventeen Stars"), sinistri affreschi gotici che avrebbero fatto la fortuna dei Piano Magic ("In Walks a Ghost"), spumosi bozzetti dreamy anni Ottanta che potrebbero essere usciti dalla penna di Mark Hollis ("Between Two Points").
Un'esperienza da non perdersi per nulla al mondo, fidatevi.
► 2009
Un lavoro da ascoltare rigorosamente in cuffia questo dei londinesi Mordant Music, duo elettronico dedito a un sound compresso e opprimente, tra techno e IDM, tra risonanze infinite (basti l'omonima "Symptoms", che ricorda i Disco Inferno di D.I. Go Pop) e sperimentazioni di armonie e timbre (gli arpeggi immersi nell'eco della prima "Where Can You Scream").
Un lavoro che sa tanto di anni Novanta ma che è allo stesso tempo intriso di contemporaneità, con il suo bagaglio di citazioni e manipolazioni libere (dai Kraftwerk al post-rock, passando per l'astrattismo kosmische - "Another Uncompleted Dome" -, la sperimentazione new wave - si prenda "In Truth Is Wine" - e tutta la scuola glitch), fusi ad una forma canzone che chiamarla tale è peccare di generosità. Sta di fatto che l'espressività di una "Pissing in Sinks", notturna e amabilmente disturbata da micro suoni e screziature ambientali, è davvero conturbante, le rarefazioni di "Hey, Volte-Face" sono un appagante ibrido tra i Depeche Mode e i Current 93, la ritmica grassa di "You Are a Door" è splendidamente disciolta in un mood onirico e dark, con quei bassi dubstep imponenti, e l'acid house di "Keep Out".
Da conservare per bene: un piccolo gioiellino elettronico capace di rivaleggiare con i pezzi grossi del genere.
Da conservare per bene: un piccolo gioiellino elettronico capace di rivaleggiare con i pezzi grossi del genere.
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