Ciao ciao, estate! È sempre un piacere dire addio ai mesi estivi, soprattutto dopo agosto, mese affollato e assieme molle e frenetico. Aspettando le tenui consistenze di settembre, compilo la consueta lista degli album degli anni passati usciti durante questo mese così controverso.
Buon ascolto!
► 1969
The Stooges - The Stooges (Elektra)
Incendiari e senza freni, gli Stooges di Iggy Pop sono uno dei tanti motivi che rendono tanto affascinanti gli anni Sessanta. Assieme ai cugini MC5 la band forgia un rock'n'roll debosciato e svincolato dai toni prevalenti dell'epoca. Se c'è psichedelia è una psichedelia nera, deviata (come quella di "We Will Fall" e di "Ann"); se c'è blues è un blues ritorto su se stesso, uno scheletro che pesca dal garage più underground. Tutto il resto è minimalismo, distorsione, espressività nuda e cruda, annoiata, depressa, stonata e caciarona.
Prodotto da John Cale (che di sonorità simili se ne intendeva), l'esordio del quartetto di Michigan è una stilettata aperta dall'intenso wah wah di "1969", brano crudo e diretto che si perde nel rutilante drumming di Scott Asheton, nelle chitarre libere del fratello Ron e nel canto sguaiato di Iggy Pop. Seguono le splendide e iconiche "I Wanna Be Your Dog", "No Fun" e "Not Right", immerse nel fuzz e già proiettate verso la stagione punk.
Impossibile non rimanere folgorati dalla mezzora di durata di questo fulmine di fine decennio, precursore di tanta musica a venire (il punk, sì, ma anche la neo-psichedelia in sapor di shoegaze anni Ottanta, basti ascoltare la coda di "Little Doll"). E si farà anche meglio con il successivo Fun House.
► 1979
"Presenza scenica nervosa e aspergeriana". Così Byrne parla di sé nel suo "Come funziona la musica" (2014, Bompiani). Inutile dire che tale descrizione corrisponde alla grande con le sonorità dei Talking Heads, la cui peculiarità era però di mescolare frenesia ritmica e timbrica con una certa compostezza nella postura (il tentativo di apparire normale è più volte ribadito dallo stesso Byrne), un approccio piuttosto inusuale se si pensa al carnevalesco periodo punk durante il quale si forgiava la band. Il percorso però è di netto distacco con le stravaganze punk e con la mitologia rock, e se già con il precedente More Songs About Buildings and Food si percepiva la voglia di allargare gli orizzonti sonori, con questo Fear of Music, complice il solito Brian Eno, si compie il passo decisivo approdando a un vero capolavoro: sovra-incisioni, effetti su effetti, sintetizzatori, lavoro certosino su stratificazioni e tessiture, groove conturbante e corposo, una pasta funky colorata che va dalle suggestioni world della prima "I Zimbra", alle sperimentazioni elettroniche dell'ultima "Drugs".
Nel mezzo c'è tanta, tanta roba interessante: l'andamento sghembo di "Mind", tutta un saltellare di elementi ritmici, la rintronata ma energica "Paper", che procede tra strati e strati di chitarre elettriche, il funk schizzoide di "Cities" (con una delle performance di basso forse più belle di Tina Weymouth), passando per la storica "Life During Wartime", percussiva e dalle tinte soul, che fa da ponte per una seconda metà album dove domina la sperimentazione sonora (l'immersione negli eco e negli effetti in tape reverse di "Memories Can't Wait", i substrati elettronici della plastica "Air", col suo ritornello diffuso e espanso, il ripetersi ossessivo e kraut di "Animals", con i suoi tempi bizzarri tempi dispari, e la solenne, atmosferica e rarefatta "Electric Guitar").
Difficile scegliere tra questo e il successivo Remain in Light. Nel dubbio facciamo incetta di tutto quanto prodotto dalla band almeno fino al 1983 e non facciamoci troppi problemi.
► 1989
Angela Marias Conway è una delle molte presenze eteree che hanno lambito gli anni Ottanta senza lasciare troppo il segno: "conosciuta" perlopiù per le collaborazioni ai video dei Wire, la Conway è certamente meno nota per il suo esoterico lavoro del 1989 (dove non a caso è coinvolto come produttore e autore il chitarrista dei Wire Bruce Gilbert).
Ambient pop che aleggia riverberandosi in distese aeree ed espanse, ripetitive e oniriche, tra new wave diafana e sperimentazione a base di drum machine e rumori sintetici, tra ripetizione devoluta e meccanica ("Just Talk", in odor di Young Marble Giants, ma più aulica, "Give Me", funky massiccio e squadrato, "One of Our Girls Has Gone Missing", dream pop angolare che, in confronto con gli altri brani, sembra un pezzo dance, "Time Was", garbatissimo indie pop dominato da una linea caramellosa di chitarra distorta), e spianate atmosferiche dai colori soffusi ("There's a Scent of Rain in the Air", profumata di vapori fluttuanti, "Our Dust", cupa ma docile, con quelle piegature di synth a squagliare la rigidità, "To Sleep", ode pastorale che sa di Cocteau Twins, "Sometime", gelida wave sintetica sinistramente ricamata dagli interventi di chitarra effettata).
Un disco interessante e fuori dagli schemi (da accostare a sperimentatori pop al varco tra 80's e 90's come A.R. Kane e Disco Inferno). Da riscoprire.
Ambient pop che aleggia riverberandosi in distese aeree ed espanse, ripetitive e oniriche, tra new wave diafana e sperimentazione a base di drum machine e rumori sintetici, tra ripetizione devoluta e meccanica ("Just Talk", in odor di Young Marble Giants, ma più aulica, "Give Me", funky massiccio e squadrato, "One of Our Girls Has Gone Missing", dream pop angolare che, in confronto con gli altri brani, sembra un pezzo dance, "Time Was", garbatissimo indie pop dominato da una linea caramellosa di chitarra distorta), e spianate atmosferiche dai colori soffusi ("There's a Scent of Rain in the Air", profumata di vapori fluttuanti, "Our Dust", cupa ma docile, con quelle piegature di synth a squagliare la rigidità, "To Sleep", ode pastorale che sa di Cocteau Twins, "Sometime", gelida wave sintetica sinistramente ricamata dagli interventi di chitarra effettata).
Un disco interessante e fuori dagli schemi (da accostare a sperimentatori pop al varco tra 80's e 90's come A.R. Kane e Disco Inferno). Da riscoprire.
► 1999
Innocence Mission - Birds of My Neighborhood (RCA)
La lenta mutazione degli Innocence Mission raggiunge qui la sua forma definitiva, quella che caratterizzerà il suono dei Peris negli anni a venire. Folk pop cristallino e melodico, arioso e zuccherino, ormai quasi del tutto privo degli elementi "alt" che ancora erano parte del magnifico Glow del 1995. Il quarto album del gruppo di Lancaster rimane uno dei capitoli fondamentali prima dell'approdo ad un nuovo decennio affrontato con risultati sempre garbati ma mai eccezionali (fatta forse eccezione per Befriended e My Room in The Trees).
Le sonorità sono semplici ma rigogliose, per armonie dolci e persistenti: la prima "Where Does the Time Go?" fa filtrare tra gli arpeggi di acustica i ricami elettrificati di Don Peris che colmano sapientemente gli spazi tra le tessiture, così nella cover di John Denver, "Follow Me", dal sapore piacevolmente anni Sessanta che si riverbera in molte delle composizioni (penso a "You Are the Light" e "I Was in the Air"), mentre la tipica malinconia sognante che da sempre ha impreziosito le composizioni di Karen Peris e soci la ritroviamo nella bellissima e delicata trama di armonie "I Haven't Seen This Day Before". Fiore all'occhiello dell'album la splendida "Lakes of Canada", tra i pezzi più belli degli Innocence Mission (omaggiata da un degno estimatore quale Sufjan Stevens).
Un disco da conservare gelosamente in compagnia degli altri lavori del decennio.
La lenta mutazione degli Innocence Mission raggiunge qui la sua forma definitiva, quella che caratterizzerà il suono dei Peris negli anni a venire. Folk pop cristallino e melodico, arioso e zuccherino, ormai quasi del tutto privo degli elementi "alt" che ancora erano parte del magnifico Glow del 1995. Il quarto album del gruppo di Lancaster rimane uno dei capitoli fondamentali prima dell'approdo ad un nuovo decennio affrontato con risultati sempre garbati ma mai eccezionali (fatta forse eccezione per Befriended e My Room in The Trees).
Le sonorità sono semplici ma rigogliose, per armonie dolci e persistenti: la prima "Where Does the Time Go?" fa filtrare tra gli arpeggi di acustica i ricami elettrificati di Don Peris che colmano sapientemente gli spazi tra le tessiture, così nella cover di John Denver, "Follow Me", dal sapore piacevolmente anni Sessanta che si riverbera in molte delle composizioni (penso a "You Are the Light" e "I Was in the Air"), mentre la tipica malinconia sognante che da sempre ha impreziosito le composizioni di Karen Peris e soci la ritroviamo nella bellissima e delicata trama di armonie "I Haven't Seen This Day Before". Fiore all'occhiello dell'album la splendida "Lakes of Canada", tra i pezzi più belli degli Innocence Mission (omaggiata da un degno estimatore quale Sufjan Stevens).
Un disco da conservare gelosamente in compagnia degli altri lavori del decennio.
► 2009
Mew - No More Stories / Are Told Today / I'm Sorry / They Washed Away // No More Stories / The World Is Grey / I'm Tired / Let's Wash Away (Columbia)
Uno dei dischi migliori degli ultimi 20 anni esce nel 2009 in Danimarca, da una band dedita da fine anni Novanta a un pop-rock sghembo e sperimentale, creativo e sopra le righe. Dopo almeno due lavori degni di nota (Frengers e And the Glass Handed Kites), la band fa il botto con il quinto album No More Stories (...), vero e proprio caleidoscopio di pop progressivo.
Al di là però delle peripezie compositive (che costituiscono elemento sufficiente per innamorarsi del disco in questione, vista la carica esplosiva della costruzione dei brani, veri e propri organismi cangianti costituiti da chitarre arzigogolate e complesse alla Yes, trame sintetiche traslucide, ritmi spezzettati e frantici, armonie in continua evoluzione), a suggellare definitivamente il valore dell'album sono i ripiegamenti melodici dotati di una espressività pop fuori dagli schemi, ma pur sempre inclini tanto a una dolciastra e familaire malinconia ("New Terrain", grave e solenne, "Repeterbeater", incisiva e trascinante, con quel ritornello in fragorosa espansione, "Cartoon and Macramé Wounds", synth pop onirico immerso glassato da sovrapposizioni vocali e chitarrine luccicanti e madide, "Tricks of the Trade", sempre adagiato su stratificazioni sintetiche pulsanti e ombrose), quanto a una trasognata leggerezza (la successiva "Introducing Palace Players", la mansueta "Silas the Magic Car", il crescendo atmosferico e dreamy di "Reprise"). Insomma, per dirla in fretta e furia, la tecnica qui è al servizio di brani fruibili e densi di sostanza melodica, mai il contrario. Fanno da graditissimo compendio i torpori tropicali di "Hawaii", il math pop gonfio e graffiante di "Vaccine", la girandola impazzita di psichedelia baloccosa di "Sometimes Life Isn't Easy".
Il risultato è un lavoro che appaga su più fronti, sia dal lato di una produzione che non lascia nulla al caso, sia dal punto di vista dell'ascolto razionale e attento al dettaglio, sia dal punto di vista di un godimento spensierato, di pancia. Unite tutti e tre gli approcci ed ecco uno dei più belli ascolti della musica contemporanea.
Uno dei dischi migliori degli ultimi 20 anni esce nel 2009 in Danimarca, da una band dedita da fine anni Novanta a un pop-rock sghembo e sperimentale, creativo e sopra le righe. Dopo almeno due lavori degni di nota (Frengers e And the Glass Handed Kites), la band fa il botto con il quinto album No More Stories (...), vero e proprio caleidoscopio di pop progressivo.
Al di là però delle peripezie compositive (che costituiscono elemento sufficiente per innamorarsi del disco in questione, vista la carica esplosiva della costruzione dei brani, veri e propri organismi cangianti costituiti da chitarre arzigogolate e complesse alla Yes, trame sintetiche traslucide, ritmi spezzettati e frantici, armonie in continua evoluzione), a suggellare definitivamente il valore dell'album sono i ripiegamenti melodici dotati di una espressività pop fuori dagli schemi, ma pur sempre inclini tanto a una dolciastra e familaire malinconia ("New Terrain", grave e solenne, "Repeterbeater", incisiva e trascinante, con quel ritornello in fragorosa espansione, "Cartoon and Macramé Wounds", synth pop onirico immerso glassato da sovrapposizioni vocali e chitarrine luccicanti e madide, "Tricks of the Trade", sempre adagiato su stratificazioni sintetiche pulsanti e ombrose), quanto a una trasognata leggerezza (la successiva "Introducing Palace Players", la mansueta "Silas the Magic Car", il crescendo atmosferico e dreamy di "Reprise"). Insomma, per dirla in fretta e furia, la tecnica qui è al servizio di brani fruibili e densi di sostanza melodica, mai il contrario. Fanno da graditissimo compendio i torpori tropicali di "Hawaii", il math pop gonfio e graffiante di "Vaccine", la girandola impazzita di psichedelia baloccosa di "Sometimes Life Isn't Easy".
Il risultato è un lavoro che appaga su più fronti, sia dal lato di una produzione che non lascia nulla al caso, sia dal punto di vista dell'ascolto razionale e attento al dettaglio, sia dal punto di vista di un godimento spensierato, di pancia. Unite tutti e tre gli approcci ed ecco uno dei più belli ascolti della musica contemporanea.
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