Che caldo, luglio. Però immaginatevi di essere in uno qualsiasi degli anni seguenti e di ascoltare per la prima volta uno a caso dei dischi proposti. Ci si dimentica del caldo per un attimo, vero?
Buon ascolto!
Buon ascolto!
► 1969
Fairport Convention - Unhalfbricking (Island)
Gemma del british folk rock, Unhalfbricking è un po' il Blonde on Blonde inglese. A rendere più sensato il paragone (oltre ai vari pezzi scritti da Dylan), il fatto che la produzione sia stata curata da Joe Boyd, transfugo americano innamorato perso della Gran Bretagna di quegli anni, e in particolare intrigato dalla scena folk di Londra (proprio nel '64 conosce Dave Swarbrick, futuro membro dei Fairport). I legami americani non finiscono qui: Sandy Denny, entrata nel gruppo nel 1968, era l'ex fiamma del folker Jackson C. Frank, di cui era solita interpretare i brani nelle sue prime esibizioni, mentre il nucleo fondante dei Fairport era patito di gente come Eric Andersen e in generale della scena blues e folk a stelle e strisce. "An english version of myself", racconta Boyd nel suo White Bicycles. Ecco: per quanto i Fairport Convention del 1969 fossero ancora stilisticamente in bilico (se così si può dire, vista la compiutezza del risultato) tra la rilettura modernista della tradizione britannica e l'appropriazione di un folk rock di ispirazione dylaniana, è qui che la band ingrana davvero al meglio. Di certo quello che traspare è un'impronta unica, peculiare, che porterà la creatura dei Fairport a fare da alfiere della riscoperta e modernizzazione della musica tradizionale inglese (la cui rilettura negli anni Sessanta si era attenuta a un fedele classicismo: penso a Shirley Collins, Ian Campbell, Martin Carthy, The Watersons). In sintesi: con Unhalfbricking matura il moderno folk rock britannico.
Il disco è una raccolta di composizioni mature e brillanti, frutto della collaborazione affiatata tra Sandy Denny e Richard Thompson, spalleggiati da una band eccelsa (Swarbrick al violino, Simon Nicol alla chitarra, Ashley Hutchings al basso e Martin Lamble alle percussioni). Tra le gemme dell'album la bellissima "Who Knows Where the Time Goes" e "Genesis Hall", dove Denny e Thompson sfoderano la loro stazza compositiva e interpretativa, mentre in composizioni come "Si Tu Dois Partir" (riadattata da un pezzo di Dylan) ci si abbandona a una fantasiosa avventura in territori cajun, continuando poi a ricamare eleganti orditi chitarristico-ritmici con "Autopsy" e a rileggere magistralmente la tradizione british grazie a meraviglie del calibro di "A Sailor's Life", lunga cavalcata progressiva di stratificazioni vaporose (le nebbie aleggianti della prima parte), che si addensano in una sempre più fitta stretta di chitarre elettriche e violino, destinate a dominare la scena in un sinuoso e intricato sviluppo.
Un disco importantissimo e rivitalizzante, segnato però da un'ombra oscura: pochi mesi prima dell'uscita dell'album, il chitarrista Lamble e la fidanzata di Thompson muoiono a causa di un incidente stradale di ritorno da un concerto. Thompson e Nicol finiscono in ospedale. Nonostante la crudeltà del destino, pochi mesi dopo uscirà il capolavoro Liege & Lief, vero schiaffo in faccia alla sorte avversa e segno di estrema maturità artistica.
Il disco è una raccolta di composizioni mature e brillanti, frutto della collaborazione affiatata tra Sandy Denny e Richard Thompson, spalleggiati da una band eccelsa (Swarbrick al violino, Simon Nicol alla chitarra, Ashley Hutchings al basso e Martin Lamble alle percussioni). Tra le gemme dell'album la bellissima "Who Knows Where the Time Goes" e "Genesis Hall", dove Denny e Thompson sfoderano la loro stazza compositiva e interpretativa, mentre in composizioni come "Si Tu Dois Partir" (riadattata da un pezzo di Dylan) ci si abbandona a una fantasiosa avventura in territori cajun, continuando poi a ricamare eleganti orditi chitarristico-ritmici con "Autopsy" e a rileggere magistralmente la tradizione british grazie a meraviglie del calibro di "A Sailor's Life", lunga cavalcata progressiva di stratificazioni vaporose (le nebbie aleggianti della prima parte), che si addensano in una sempre più fitta stretta di chitarre elettriche e violino, destinate a dominare la scena in un sinuoso e intricato sviluppo.
Un disco importantissimo e rivitalizzante, segnato però da un'ombra oscura: pochi mesi prima dell'uscita dell'album, il chitarrista Lamble e la fidanzata di Thompson muoiono a causa di un incidente stradale di ritorno da un concerto. Thompson e Nicol finiscono in ospedale. Nonostante la crudeltà del destino, pochi mesi dopo uscirà il capolavoro Liege & Lief, vero schiaffo in faccia alla sorte avversa e segno di estrema maturità artistica.
► 1979
Swell Maps - A Trip to Marineville (Rough Trade)
L'indie inteso come metodo produttivo e politico in posizione di totale autonomia nei confronti delle major nasce nell'Inghilterra punk di fine anni Settanta, e gli Swell Maps sono, assieme a band come Buzzcocks, Desperate Bicycles, Television Personalities, Gang of Four, Stiff Little Fingers e etichette come Factory, Fast Product, Cherry Red e Rough Trade, tra i primi eponimi della "rivolta" contro il business della musica pop. Una rivolta curiosa, perché impostata attraverso i confini del mercato, compiuta attraverso i suoi strumenti, deviati però in una sorta di negativo situazionista e collettivista, dove l'impresa economica diventava una forma di sperimentazione di linguaggi, stili, strategie commerciali (si pensi al packaging), di finanziamento e finanche di retribuzione (rigorosamente egualitaria). In poche parole i gruppi punk e post-punk, grazie all'intervento di alcuni manager illuminati e spudorati, iniziarono a rendersi conto di poter padroneggiare tutto il processo produttivo, dalla registrazione alla distribuzione, con gli stessi mezzi spartani di cui era composta la loro musica.
Risultato del sodalizio con la Rough Trade, A Trip to Marineville è tutto quello che serve sapere sulle origini del post-punk: anti-rock, debosciato, volutamente rudimentale e dilettantistico ma ricco di spirito dissacrante e artistico (sono molti gli strumenti "non convenzionali" usati impropriamente dalla band). Le canzoni dei fratelli Godfrey si susseguono come un'unica scarica di rumore scomposto, imbarcandosi in cacofonie alla Captain Beefheart e sperimentazioni avant ("Bridge Head Pt.9", "Gunboats", "Adventuring Into Basketry") e in sfrenate schegge punk ("H.S. Art", "Vertical Slum", "Spitfire Parade", "Blam!!").
Un lavoro sfrontato, sconclusionato, estremo. Eppure genuino come pochi, ricco di una smania di strafare, di stra-dire, di prendersi poco sul serio mettendoci però l'impegno e il tempo dovuto. Simon Reynolds racconta che la band si sciolse per non correre il rischio di diventare troppo famosa. Ecco, questo è lo spirito post-punk incarnato al meglio dai Swell Maps.
L'indie inteso come metodo produttivo e politico in posizione di totale autonomia nei confronti delle major nasce nell'Inghilterra punk di fine anni Settanta, e gli Swell Maps sono, assieme a band come Buzzcocks, Desperate Bicycles, Television Personalities, Gang of Four, Stiff Little Fingers e etichette come Factory, Fast Product, Cherry Red e Rough Trade, tra i primi eponimi della "rivolta" contro il business della musica pop. Una rivolta curiosa, perché impostata attraverso i confini del mercato, compiuta attraverso i suoi strumenti, deviati però in una sorta di negativo situazionista e collettivista, dove l'impresa economica diventava una forma di sperimentazione di linguaggi, stili, strategie commerciali (si pensi al packaging), di finanziamento e finanche di retribuzione (rigorosamente egualitaria). In poche parole i gruppi punk e post-punk, grazie all'intervento di alcuni manager illuminati e spudorati, iniziarono a rendersi conto di poter padroneggiare tutto il processo produttivo, dalla registrazione alla distribuzione, con gli stessi mezzi spartani di cui era composta la loro musica.
Risultato del sodalizio con la Rough Trade, A Trip to Marineville è tutto quello che serve sapere sulle origini del post-punk: anti-rock, debosciato, volutamente rudimentale e dilettantistico ma ricco di spirito dissacrante e artistico (sono molti gli strumenti "non convenzionali" usati impropriamente dalla band). Le canzoni dei fratelli Godfrey si susseguono come un'unica scarica di rumore scomposto, imbarcandosi in cacofonie alla Captain Beefheart e sperimentazioni avant ("Bridge Head Pt.9", "Gunboats", "Adventuring Into Basketry") e in sfrenate schegge punk ("H.S. Art", "Vertical Slum", "Spitfire Parade", "Blam!!").
Un lavoro sfrontato, sconclusionato, estremo. Eppure genuino come pochi, ricco di una smania di strafare, di stra-dire, di prendersi poco sul serio mettendoci però l'impegno e il tempo dovuto. Simon Reynolds racconta che la band si sciolse per non correre il rischio di diventare troppo famosa. Ecco, questo è lo spirito post-punk incarnato al meglio dai Swell Maps.
► 1989
Slint - Tweez (Jennifer Hatman)
È difficile essere il fratello bruttino di qualcuno: nessuno ti considera, e se lo fa ti costringe al paragone con il fratello maggiore, quello venuto dopo e meglio. Non sei un ente autonomo, sei un relativo. Così succede con Tweez, primo esperimento di uno dei pilastri del post-rock di Louisville, considerato da sempre il brutto anatroccolo prima del capolavoro Spiderland. Inutile dire che il paragone è effettivamente impietoso, ma proviamo a fare il tentativo di prendere questo esordio come campione isolato nel suo contesto, in quel 1989 incerto, dove la fine del decennio imponeva la sua ansia rinnovatrice e innovativa, e in quella Louisville che altro non era se non l'ennesima provinciona americana.
In quella provinciona (500mila abitanti) sorse, sul finire degli Ottanta, un nucleo di musicisti impegnato a sovvertire le sonorità hardcore alterandole in nome di una versione cervellotica e nevrotica, priva però dell'immediatezza e della dirompenza del genere originale. Gli Slint nascono da una costola degli Squirrel Bait di David Grubbs (il chitarrista Brian McMahan e il batterista Britt Walford), cui si aggiunge il chitarrista David Pajo e il bassista Ethan Buckler. A completare il quadretto non si può non citare il produttore Steve Albini, capace di imprimere al lavoro il suo classico marchio di fabbrica.
Il sound risultante è dominato dalle chitarre arrugginite e acide di Pajo e McMahan, oltre che dalle ritmiche math e jazz che nervosamente scandiscono tempi scomposti e rutilanti. Brani come la prima "Ron", "Carol", "Charlotte" sono funestati da rumori e feedback, suoni di fondo su cui imperversano i saliscendi strumentali e vocali, come in una versione scomposta dei Bitch Magnet, mentre altri ("Nan Ding", "Kent", "Darlene") si concentrano su un suono più riflessivo e disteso, dove domina un approccio atmosferico e texturale.
È difficile essere il fratello bruttino di qualcuno: nessuno ti considera, e se lo fa ti costringe al paragone con il fratello maggiore, quello venuto dopo e meglio. Non sei un ente autonomo, sei un relativo. Così succede con Tweez, primo esperimento di uno dei pilastri del post-rock di Louisville, considerato da sempre il brutto anatroccolo prima del capolavoro Spiderland. Inutile dire che il paragone è effettivamente impietoso, ma proviamo a fare il tentativo di prendere questo esordio come campione isolato nel suo contesto, in quel 1989 incerto, dove la fine del decennio imponeva la sua ansia rinnovatrice e innovativa, e in quella Louisville che altro non era se non l'ennesima provinciona americana.
In quella provinciona (500mila abitanti) sorse, sul finire degli Ottanta, un nucleo di musicisti impegnato a sovvertire le sonorità hardcore alterandole in nome di una versione cervellotica e nevrotica, priva però dell'immediatezza e della dirompenza del genere originale. Gli Slint nascono da una costola degli Squirrel Bait di David Grubbs (il chitarrista Brian McMahan e il batterista Britt Walford), cui si aggiunge il chitarrista David Pajo e il bassista Ethan Buckler. A completare il quadretto non si può non citare il produttore Steve Albini, capace di imprimere al lavoro il suo classico marchio di fabbrica.
Il sound risultante è dominato dalle chitarre arrugginite e acide di Pajo e McMahan, oltre che dalle ritmiche math e jazz che nervosamente scandiscono tempi scomposti e rutilanti. Brani come la prima "Ron", "Carol", "Charlotte" sono funestati da rumori e feedback, suoni di fondo su cui imperversano i saliscendi strumentali e vocali, come in una versione scomposta dei Bitch Magnet, mentre altri ("Nan Ding", "Kent", "Darlene") si concentrano su un suono più riflessivo e disteso, dove domina un approccio atmosferico e texturale.
Una generazione fruttuosa, quella di Louisville: Grubbs si farà un nome con i Gastr del Sol, oltre che da solista, e Pajo suonerà per qualche anno con i Tortoise (per non parlare dei progetti Aerial M e Papa M), mentre band come Rodan e June of 44 sono direttamente debitrici del sound degli Slint. E il fratello bello? Quello è Spiderland, e per lui lo spazio abbonda altrove. Qui si parla di Tweez che, preso da solo, fa la sua porca figura.
► 1999
Cafè Tacvba - Revés / Yosoy (WEA)
Difficile sfornare qualcosa di meglio dello splendido Re, gemma del rock alternativo messicano di metà anni Novanta. Eppure i Café Tacvba tentano il colpaccio con un lavoro ambizioso e strabordante, doppio disco che un'altra volta incorpora le mille influenze del gruppo, sebbene bipartendole in un doppio album, dove il primo disco è votato alla sperimentazione elettronica, mentre il secondo è focalizzato su sonorità più tradizionali.
Se il primo disco è un curioso - ma tutto sommato sconclusionato - flusso sperimentale di folktronica settata su un registro post-rock (bello il motorik di "2" e le coloriture latine di "9", mentre gli altri brani passano da registri classicheggianti, rumorismi post-punk e divagazioni ambientali senza colpo ferire), la seconda parte riesce a convincere maggiormente grazie all'elegante rilettura "alternativa" di brani come "El padre", "El rìo", "La muerte chiquita", tutti sapientemente collocati in una tradizione acustica appena rimaneggiata per superare la prova della contemporaneità (in compagnia di pezzi più moderni e corposi come "Dos niños" e "El ave").
Certo, non si tratta di un capolavoro, ma di un lavoro utile per capire il fermento di quegli anni e monitorare una delle tante correnti globali dell'espressività pop.
Certo, non si tratta di un capolavoro, ma di un lavoro utile per capire il fermento di quegli anni e monitorare una delle tante correnti globali dell'espressività pop.
► 2009
Florence + the Machine - Lungs (Island)
Una delle cose difficili riguardo al decennio 2000-2009 è identificare uno spirito distintivo, un modo di suonare tipico. Come suonavano i Duemila? Se ci si pensa, per ogni decennio precedente l'operazione è facile, e uno dei motivi è sicuramente l'ampia metabolizzazione pubblica del pop degli anni passati. Il problema con il nuovo millennio è che la categorizzazione delle scene da parte della stampa musicale (e dell'industria?) ha smesso di rappresentare un utile servizio rivolto alle esigenze giovanili, non più così dipendenti dalla musica come mezzo favorito di identificazione generazionale; come seconda ipotesi mi sembra invece doveroso notare la straordinaria differenziazione e ibridizzazione stilistica della musica contemporanea.
Eppure oggi, guardandoci alle spalle, iniziamo a riconoscere dei tratti caratteristici. Uno di questi è l'indie come categoria ampia (di fatto in grado di influenzare anche il mainstream) ma esteticamente definita, come propensione alla coralità pastorale, alla melodia sfavillante, agli anthem da stadio, all'energia strabordante e alla carica soul. Un genere prima sperimentato da qualche artista minoritario, poi giunto al successo grazie a capofila come Arcade Fire e seguaci come Edward Sharpe & the Magnetic Zeros (sul lato folk) e Florence + the Machine (sul versante art e pop).
Ecco, l'esordio di Florence Welch, rimasto al secondo posto delle classifiche britanniche per cinque settimane e capace di vendere oltre tre milioni di copie in tutto il mondo, riassume alcune delle caratteristiche che oggi potremmo definire non solo archetipe del decennio in questione, ma capaci di infiltrarsi nel gusto pop degli anni successivi. Prodotto dal gotha della scena pop-rock (Paul Epworth, James Ford, Steve Mackey), l'album è un ricco compendio di indie folk ("Dogs Day Are Over", "Between Two Lungs") chamber e art pop ("Rabbit Heart (Raise It Up)", "Howl", "Drumming Song", "Cosmic Love") oltre che rock ("Kiss With a Fist", "Girl With One Eye"), il tutto pompato secondo i canoni stomp rock che faranno la fortuna di gente come Imagine Dragon, Bastille e AwolNation.
Un disco importante, a suo modo, che finiremo per ricordare come paradigmatico. Nel bene e nel male.
Una delle cose difficili riguardo al decennio 2000-2009 è identificare uno spirito distintivo, un modo di suonare tipico. Come suonavano i Duemila? Se ci si pensa, per ogni decennio precedente l'operazione è facile, e uno dei motivi è sicuramente l'ampia metabolizzazione pubblica del pop degli anni passati. Il problema con il nuovo millennio è che la categorizzazione delle scene da parte della stampa musicale (e dell'industria?) ha smesso di rappresentare un utile servizio rivolto alle esigenze giovanili, non più così dipendenti dalla musica come mezzo favorito di identificazione generazionale; come seconda ipotesi mi sembra invece doveroso notare la straordinaria differenziazione e ibridizzazione stilistica della musica contemporanea.
Eppure oggi, guardandoci alle spalle, iniziamo a riconoscere dei tratti caratteristici. Uno di questi è l'indie come categoria ampia (di fatto in grado di influenzare anche il mainstream) ma esteticamente definita, come propensione alla coralità pastorale, alla melodia sfavillante, agli anthem da stadio, all'energia strabordante e alla carica soul. Un genere prima sperimentato da qualche artista minoritario, poi giunto al successo grazie a capofila come Arcade Fire e seguaci come Edward Sharpe & the Magnetic Zeros (sul lato folk) e Florence + the Machine (sul versante art e pop).
Ecco, l'esordio di Florence Welch, rimasto al secondo posto delle classifiche britanniche per cinque settimane e capace di vendere oltre tre milioni di copie in tutto il mondo, riassume alcune delle caratteristiche che oggi potremmo definire non solo archetipe del decennio in questione, ma capaci di infiltrarsi nel gusto pop degli anni successivi. Prodotto dal gotha della scena pop-rock (Paul Epworth, James Ford, Steve Mackey), l'album è un ricco compendio di indie folk ("Dogs Day Are Over", "Between Two Lungs") chamber e art pop ("Rabbit Heart (Raise It Up)", "Howl", "Drumming Song", "Cosmic Love") oltre che rock ("Kiss With a Fist", "Girl With One Eye"), il tutto pompato secondo i canoni stomp rock che faranno la fortuna di gente come Imagine Dragon, Bastille e AwolNation.
Un disco importante, a suo modo, che finiremo per ricordare come paradigmatico. Nel bene e nel male.
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