Si riparte, è aprile. Questo sembrano voler dire, ognuno a suo modo, i dischi scelti per questa tornata. Frizzanti, colorati, ricchi, primaverili, creativi, esuberanti, oppure contemplativi e suadenti: album che hanno catturato la mia attenzione e sono entrati, nel tempo, nella mia personale lista dei preferiti. Come al solito, buon ascolto!
► 1969
Scott Walker – Scott 3 (Philips)
La morte di Scott Walker è passata sotto un silenzio impressionante. Fatta eccezione per i siti specialistici pochi hanno omaggiato uno dei più grandi artisti del secondo dopoguerra. A partire dai Walker Brothers, Noel Scott Engel ha traghettato nel moderno pop anni Sessanta una tradizione musicale davvero ampia e variegata: dalla chanson di Brel al crooning jazz di Frank Sinatra, dal Brill Building al soul, passando per il pop barocco e il rock alternativo (fino ai guizzi della maturità, che lo hanno portato a sfornare lavori di grande coraggio, dal celebratissimo “Tilt” al recente “Bish Bosch”).
Tutto inizia però con la quadrilogia solista degli anni Sessanta, di cui il terzo episodio, assieme al capolavoro successivo (“Scott 4”), è uno dei momenti più rappresentativi della prima fase. Atmosfera fitta di fluttuazioni orchestrali e lirismo drammatico, come nella prima “It’s Raining Today”, dove tra un drone nebbioso che screzia le corde pizzicate si staglia solenne la raffigurazione lirica di Engel, fino al vortice creato da quel singhiozzo d’orchestra, che impenna e subito dopo fa ripiegare il brano, fino al recupero del mesmerico tema iniziale.
L’album inanella brani colmi di espressività e cura, tanto nel songwriting quanto nella ricerca sonora (non si può non citare l’immenso contributo dell'arrangiatore Wally Stott): si prenda la tensione liberata nel refrain di “Rosemary”, oppure l’atmosfera madida e gonfia di “Big Louise”, o la marcia di “We Came Through”, per non parlare della leggerezza amabilmente figurativa di “Butterfly”, fino al folk corposo di “30 Century Man” e al trittico conclusivo, omaggio al mentore Jacques Brel.
Tutti temi ripresi e rifiniti nel superamento del capolavoro successivo. “Scott 3” rimane però uno dei traguardi di quella stagione: da conservare gelosamente.
► 1979
The Pop Group – Y (Radar)
Tra i dischi più iconici di sempre, “Y” del Pop Group di Bristol raccoglie tutta l’ansia e la paranoia della migliore stagione post-punk, unendo funk sfibrato e decostruito, culto della manipolazione sonora di ispirazione dub e reggae (per registrare il singolo “Beyond Good and Evil”, fitto di echi, risonanze e overdub, fu scelto proprio Dennis Bovell, esperto britannico del genere), rock incontrollato debitore del proto-punk più incazzato e free jazz anni Sessanta. Una sorta di versione aggiornata di Red Krayola o Captain Beefheart, dove i “pezzi” che costituiscono l’opera sono schegge autonome e al contempo componenti strutturali, per un manifesto d’avanguardia senza pari.
Fonte d’ispirazione per intere generazioni, “Y” è uno di quei lavori che non smette mai di dispensare nuovi volti (che lo si guardi dal punto di vista comunicativo o sonoro, di impasto tra generi o di radicalismo politico), capolavoro indiscusso di un Mark Stewart che univa iconoclasticamente musica bianca e nera nell’ottica del superamento dei confini di entrambi i campi. “Thief of Fire”, con il suo basso denso e accigliato e i barriti di sax, “Snowgirl”, con i suoi radicali cut and paste ritmico-timbrici, “We Are Time” e le sue chitarre sfibrate, “Words Disobey Me” e le sue contorsioni disco-punk: tutto è votato a una ricerca sfrontata eppure carica di pathos, di groove. Forma e contenuto diventano cosa sola, magma rovente in continuo rimestamento, per un manufatto corrosivo e avanguardista, dallo straordinario impatto creativo.
► 1989
Tom Petty - Fool Moon Fever (MCA)
Lasciamo un attimo da parte i celebratissimi Pixies e parliamo di Tom Petty, grande scrittore di canzoni che meriterebbe un briciolo di considerazione in più. La sua tarda carriera solista è interessante tanto quanto gli esordi con gli Heartbreakers: folk e americana, rock Aor e baluginii sintetici. Questo è il ricettario di “Fool Moon Fever”, primo lavoro solista di uno che solista non sarà mai, visti i contributi d’eccezione (tra gli altri Roy Orbison e George Harrison) che contribuiranno a dare ad ogni lavoro un afflato collettivo.
Il canzoniere di Petty, anche grazie alla collaborazione con Jeff Lynne, è uno scioltissimo miscuglio di savoir faire, scrigno di singoli di successo, (cinque, quelli selezionati dall’album) vicino tanto alla scena alternativa (penso ai Feelies in “Depending on You”), quanto a una formula mainstream che pesca da riletture heartland rock (viene in mente Bruce Springsteen, ascoltando “I Won’t Back Down”) e revivalismo anni Sessanta (da Dylan al jangle dei Byrds, omaggiati nella bellissima cover di “Feel A Whole Lot Better”).
“Free Fallin’” inaugura uno standard che si ripeterà negli anni a venire (basti ascoltare la successiva, bellissima “Yer So Bad”, per non parlare di brani futuri quali “Learning to Fly” o “Into the Great Wide Open”), asciugando la formula degli esordi per far risaltare un songwriting folk-rock pulito e limpido, tra vocazione acustica e dosati inserti elettrici. Rimangono brani energici come “Love Is a Long Road”, capace di inaugurare la cavalcata rock con un bellissimo attacco alla Who, il rockabilly scattante di “The Apartment Song”, i raffinati arpeggi acustici di “Alright for Now”.
Riscoperto grazie ai suggerimenti trasversali provenienti dai lavori di Ryan Adams e The War On Drugs (non a caso due realtà diversissime), Tom Petty è entrato tra i miei must di sempre.
► 1999
Lilys - The 3 Way (Sire)
Il cambio di passo operato dagli americani Lilys, iniziato con il precedente LP del 1996, è foriero di significati per un decennio che sarebbe stato raccontato sotto il topos del revival. Dallo shoegaze dei primi lavori al recupero fedele e certosino di sonorità mod, garage e psichedeliche anni Sessanta: “The 3 Way” rappresenta un pregevole sforzo rievocativo e una appassionata rielaborazione di sonorità vintage.
Ad influenzare Kurt Heasley, oltre all’amore per le band britanniche di metà anni Sessanta, le frequentazioni con gli Apples in Stereo e con il giro Elephant 6, che lo spinsero a virare verso una formula di successo che porterà il gruppo a firmare per una major (la Sire) e poter disporre di un corposo budget per la produzione del disco (qui trovate un’approfondita ricostruzione del processo che portò alla realizzazione dell’album).
Una dopo l’altra, le canzoni in scaletta sono tanti meccanismi onirici di ottima fattura, tra rhythm & blues sordido e grasso (“Dimes Make Dollars”), sgargiante pop psichedelico (“Socs Hip”, “Leo Ryan”), baroque pop arioso e dolciastro (“And One (On One)”), eleganti e orchestrati blue eyed soul (“The Spirits Merchant”) e sfacciati bozzetti alla Kinks (“The Lost Victory”). Assieme a band come The Ladybug Transistor, Apples in Stereo, The Aluminum Group, of Montreal e Flaming Lips, i Lilys hanno aperto la strada alla stagione revivalista del nuovo millennio, spiccando tra gli interpreti più talentuosi dell’epoca.
► 2009
TwinSisterMoon - The Hollow Mountain (Dull Knife)
Mehdi Ameziane, membro dei Natural Snow Buildings, rappresenta una delle diverse incarnazioni europee del folk sperimentale che fiorì durante il decennio dei Duemila (dai Jackie-O Motherfucker ai Charalambides, passando per Lau Nau, Pocahaunted, Six Organs of Admittance, Larkin Grimm e Fursaxa, per citare alcuni dei nomi più "in vista").
Cosa sia rimasto di quella combriccola fricchettona e (spesso) inconcludente è facile dirlo: poco nulla. Tuttavia quella radicale mistura di estremismo sonoro, droni a pioggia, atmosfere oriental-pastorali, psichedelia espansa e incorporea, seppe anche generare ottimi lavori (penso a “Fig. 5” dei Jackie-O o ai lavori di Six Organs of Admittance), oltre a fare da incubatore di nomi capaci di farsi notare passando a sonorità più digeribili (Honey Owens dei Valet e Weyes Blood).
“The Hollow Mountain” è allora un garbato insieme di drone music psichedelica a base di shruti box e tambura (“Druids” e la medievaleggiante “To the Green Pastures”, che alterna baccanale hippie a ombrose raffigurazioni alla Dead Can Dance), pastorali field recordings (“Grrand” e “Walhalla”), bozzetti folk minimali alla Vashti Bunyan immersi in fitti riverberi (“The Hollow Mountain”, “Bride of the Spirits”).
Non un capolavoro, ma certo un interessante testimone di una scena che caratterizzò un decennio fitto di tentativi di aggiornare una lunga tradizione pop.
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