[#03] Dischi di marzo (con il ➒)

Marzo è stato un mese denso, tanto che questa volta la difficoltà non è stata quella di trovare un disco di cui parlare, ma al contrario scegliere di quali cinque tra i molti album usciti in questo mese sarebbe stato bello celebrare il compleanno. Ecco la mia sofferta selezione. Buon ascolto!

► 1969

gal costa 1969 tropicalia album
Gal Costa - Gal Costa (Philips)

Torpori esotici, orchestrazioni sontuose, rock'n'roll e tradizione bossa nova. Tutto questo è il movimento Tropicália come declinato dallo splendido secondo lavoro di Gal Costa, che si unisce pienamente alla sfilza dei grandi nomi della nuova generazione di artisti brasiliani.

La rielaborazione e l'appropriazione dell'universo pop atlantico è condotta qui con grandissima capacità mimetica e, al contempo, intelligente e garbata rilettura iconoclasta. La aiutano i colleghi tropicalisti Veloso, , Carlos, oltre a grandi nomi della tradizione del tempo (Jorge Ben, che scrive la splendida "Que Pena" e l'ultima "Deos é o Amor"), per non parlare degli arrangiamenti a cura di Rogério Duprat, Gilberto Gil e Lanny Gordin.

Suadente e leggera, “Não Identificado” (scritta, come molte altre tracce in scaletta, da Caetano Veloso) è una bossa psichedelica che si perde progressivamente in strati di suono deformato contrapposto alle soavi arie di flauti e archi, per un mélange fantasioso e straniante. “Sebastiana”, dal canto suo, mette il turbo per una frenetica convulsione tropicale, tra impazzimento percussivo e interventi elettrici di chitarra rock, per andare ancora una volta a sfumare nel freak out nebuloso del finale (una sorta di versione brasileira dei Jefferson Airplane più dadaisti). Si continua con il miscuglio jazz e Samba-canção di “Lost in the Paradise” , la psichedelia fuzzosa di “Namorinho De Portão” e “Se Você Pensa”, dove i fiati coloratissimi si fondono con le chitarre sporche e sfrenate, il groove funky di “Vou Recomeçar”, lo splendido bozzetto psych-pop firmato Veloso-Gil di “Divino Maravilhoso”, per non dimenticare l'inno del movimento, quella "Baby" che si svolge sinuosa nelle gonfie aree orchestrali che glassano un indolente andamento bossa.

Impossibile resistere al fascino di un lavoro tanto creativo, completo e capace di rinnovare da cima a fondo un intero filone musicale.

► 1979

magazine secondhand daylight 1979 album
Magazine - Secondhand Daylight (Virgin)

Si poteva parlare del bellissimo "Breakfast in America" dei Supertramp per analizzare come il progressive rock riuscisse a trovare nuove forme di espressione anche in piena rivoluzione new wave. Invece no: il secondo lavoro dei Magazine mi pare più adeguato, forse perché frutto di un'operazione più sottile, per esplicitare lo stesso concetto.

La band di Howard Devoto sforna infatti un lavoro che, pur inserendosi pienamente nel movimento post-punk, riesce a far storcere il naso al purista dei due accordi e zero virtuosismi. A livello generale i brani sono coaguli fitti di intrecci sonori, di dilungamenti e giochi di spessori e stratificazioni. Il sound è freddo e distaccato. La prima "Feed the Enemy", con quel suo strisciare languida tra sbrilluccichii di chitarre, bassone flangerizzato e trame di organetto anni Sessanta, sfoggia infine un solo di sax e tastiera che sa più di Genesis che non di futurismo synthpop. Sebbene non manchino momenti di più decisa prestanza ("Rhythm of Cruelty"), il disco è un concentrato di sperimentazioni sulla consistenza dei suoni, sull'effetto applicato alla chitarra di John McGeogh e, soprattutto, sulle tastiere di Dave Formula. "Cut-out Shapes" è un brano alieno e fitto di manipolazioni, condotto con rigore in un percorso in continua evoluzione (la sezione centrale è qualcosa di davvero inaspettato), per non parlare di "I Wanted Your Heart", tra Bowie, Ultravox e Roxy Music, impastata in accordi di piano ad accompagnare le plurime incursioni di tastiera che spezzano il brano in tronconi, fino al bozzetto cabarettistico del finale.

Aggiungiamo al lotto la fascinosa pièce atmosferica di "Thin Air" (dominata dai lamenti di un sax che si insinua tra i tremolanti vagiti di chitarre e tastiere, il tutto sorretto dalla tonda dizione staccata del basso), la cavalcata di "Believe That I Understand" (chitarra trattatissima e crescendo di impennate muscolari), e l'ultima "Permafrost" (lento evolversi psichedelico consacrato alla chitarra di McGeogh) e il gioco è fatto. Uno dei lavori più fascinosi e contrastanti della prima fase post-punk. Assolutamente da non farsi scappare.

► 1989

close lobsters headache rhetoric 1989 album
Close Lobsters - Headache Rhetoric (Fire/Enigma)

Gli scozzesi Close Lobsters hanno fatto da collante tra la longeva scena jangle pop e le istanze spensierate e ciondolanti della generazione C86, unendo così Orange Juice e Rem, Pastels e Smiths, Felt e Aztec Camera.

Rispetto al primo episodio, la band di Andrew Burnett si concentra maggiormente su un sound corposo, memore del post-punk di metà decennio (vengono in mente a più riprese i The Church) e incentrato sulle stratificazioni chitarristiche impastate della coppia Wilmington/Donnelly. Certo, la delicatezza jangle rimane l'elemento caratteristico, come nei ricami della prima "Lovely Little Swan", spezzata nel suo andamento sbarazzino dal riff in flanger di metà brano cui si mescolano i riverberi della chitarra solista, ritornando infine al tema principale ma più carico e possente.

Tra i brani degni di nota la successiva "Gunpowderkeg", indie rock di grande impatto melodico, tra chitarre molli e l'impennata del chorus dove le armonie si rapprendono in un ganglio rumoristico (approfondito nella seconda metà della seguente "Nature Thing", in aria shoegaze), la splendida "My Days Are Numbered", così divisa tra strofe scanzonate e le inflessioni malinconiche dei bridge che introducono la gravità del ritornello, l'andamento rilassato di "Words on Power", interessante ibrido tra indie pop e Paisley Underground, la brillante "Skyscrapers", che riassume tutto il fascino dell'universo indie britannico anni Ottanta, tra  melodie zuccherose, fitte trame di armoniose chitarre jangle, midtempo ariosi e ritornelli collosi come mai.

Tra i tanti esemplari da recuperare di quel periodo, il secondo album dei Close Lobsters è spesso messo in ombra da altri lavori. È giunto il tempo di rendergli merito.

► 1999

deus the ideal crash 1999 album
dEUS - The Ideal Crash (Island Records)

Il Millennium bug alle porte e l'ansia di dover dire qualcosa di originale per concludere in bellezza il millennio. Magari è una considerazione tutta mia e tutta postuma, magari i belgi dEUS non sentivano nessuna pressione, eppure non riesco a non connotare molti degli ascolti del 1999, in particolare quelli che riguardano un genere come l'alternative rock, di questa tensione al superamento e ansia da prestazione interiorizzata.

Sempre rimanendo sul piano delle impressioni personali "The Ideal Crash" si accosta bene a lavori di fine decennio come "Emergency & I" (The Dismemberment Plan), "13" (Blur), "Miłość w czasach popkultury" (Myslovitz), "Everything Picture" (Ultrasound), "How It Feels to Be Somenthing On" (Sunny Day Real Estate). Lavori diversi ma uniti nello sforzo di essere conclusivi, magniloquenti, enfatici, perfezionisti, esaustivi, di esaurire le potenzialità di un genere facendolo trasbordare oltre i suoi limiti.

Così il terzo lavoro della band di Antwerpen è un intenso coagulo di nervosismo elettrico (la prima, tesa e cupa, "Put the Freaks Up Front", o la cavalcata motorik fitta fitta di grana elettrica "The Ideal Crash"), di songwriting ruvido e melodioso (la bellissima, elegante, ballata "Sister Dew", un misto di Portishead, Smashing Pumpkins e Blur), ma anche di espansioni neo-psichedeliche ("One Advice, Space", tra strati melliflui di mellotron e bagliori corpuscolari di synth), di arrangiamenti cangianti che impiegano elementi chamber (si pensi alla coda di "The Magic Hour"), elettronici ("Everybody's Weird", impasto densissimo di dance-rock convulso), folk (il banjo nella deliziosa "Instant Street", capace però di regalare un'impennata finale da pelle d'oca).

Insomma, un album tanto vario, pieno, ragionato e curato al dettaglio (il disco impiegò otto mesi di lavoro) non può non essere pensato che come un omaggio a un decennio in chiusura. Bisognava fare il botto, dire tutto quello che c'era da dire. Ecco, questo è quello che regala "The Ideal Crash".

► 2009

jeremy jay slow dance 2009 album
Jeremy Jay - Slow Dance (K Records)

Un disco curioso, quello di Jeremy Jay, perché capace di condensare in una versione minimalista la tendenza al recupero new wave del decennio, tendenza destinata ad approfondirsi ulteriormente negli anni a venire.

Americano di nascita, francese d'adozione, in "Slow Dance" Jay suona come un outsider, come un trapiantato, instillando un tono decadente e "nouvelle vague" a tutto ciò che tocca, dalla prima, suadente, "We Were There" alla successiva cavalcata leggera "In This Lonely Town", mollemente adagiata su ritmi post-punk, pose glam e incardinata su un senso dell'armonia che ricorda il Tom Verlaine del 1977, con in più quella linea gelida di sintetizzatore che percorre il brano come una lama.

Ancora meglio, poi, la galoppata sbarazzina di "Gallop",o la stralunata "Winter Wonder": piccoli mondi di espressività gentile, sommessa, distratta. Non tutto è allo stesso livello ("Canter Canter", "Slow Dance", "Breaking The Ice", per quanto graziose, appaiono troppo irrigidite nelle loro pose minimali e dimesse, messe in ombra dai ben più riusciti brani sopracitati), ma quello di Jay rimane comunque un esemplare inedito nel pop indipendente degli ultimi anni. Ricordarlo è il minimo che si possa fare.
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