Febbraio è stato un mese intenso. Infatti la puntata sui dischi di febbraio esce a marzo. Pronti, via!
► 1969
The Temptations - Cloud Nine (Gordy)
L'approdo dei Temptations alla psichedelia è più che un fatto circoscrivibile alla sola band (l'album sarà un successo, garantendo al gruppo da poco guidato dal frontman Dennis Edwards il primo Grammy Award). Da un lato, infatti, è tra i capolavori del produttore Norman Whitfield, nome imprescindibile per gli sviluppi della black music (e in particolare del suono Motown), che con "Cloud Nine" consolida la ricerca sonora intrapresa con la band a partire dal 1966 (sebbene il suo rapporto con il gruppo sia da far risalire al '64). Dall'altro è il segno di un fermento generale che, assieme agli episodi ben più radicali di Sly and The Family Stone e Funkadelic, farà fare un passo importantissimo all'R&B anni Settanta.
A partire dalla prima traccia omonima è tutto un gonfiarsi di riverberi, un colmare lo spettro sonoro con suoni densi, wah wah avvolgenti, percussioni incalzanti e bassi tondi e accigliati. Si prenda la lunga jam di "Runaway Child, Running Wild": quel suo fiorire di armonizzazioni vocali e svolazzi di organetto e chitarra, il lento e sinuoso consolidare il groove in una continua giustapposizione di elementi, di soluzioni cromatiche, di leganti timbrici e armonici. Il brano si slarga e deforma progressivamente, fossilizzandosi ora su un motivo doo-wop esteso, ora su solo di organetto cui si avviluppano gli accordi liquidi di una chitarra elettrica, ora su un tappeto percussivo lussureggiante, esaurendosi in diverse mancate esplosioni, sfumando infine nell'aria come una vampa di fumo.
E le ballate ("Love Is a Hurtin' Thing"), le glassature tradizionalmente Motown ("Why Did She Have to Leave Me"), i r&B decisi, colorati, funky ("Don't Let Him Take Your Love From Me", "Gonna Keep On Tryin' Till I Win Your Love"): il balzo non è ancora netto, si insinua nei dettagli, nel piglio scattante, nella posa sgargiante, nella canonizzazione di quanto acquisito. Un godibilissimo viatico per uno dei molti rinascimenti della musica black.
L'approdo dei Temptations alla psichedelia è più che un fatto circoscrivibile alla sola band (l'album sarà un successo, garantendo al gruppo da poco guidato dal frontman Dennis Edwards il primo Grammy Award). Da un lato, infatti, è tra i capolavori del produttore Norman Whitfield, nome imprescindibile per gli sviluppi della black music (e in particolare del suono Motown), che con "Cloud Nine" consolida la ricerca sonora intrapresa con la band a partire dal 1966 (sebbene il suo rapporto con il gruppo sia da far risalire al '64). Dall'altro è il segno di un fermento generale che, assieme agli episodi ben più radicali di Sly and The Family Stone e Funkadelic, farà fare un passo importantissimo all'R&B anni Settanta.
A partire dalla prima traccia omonima è tutto un gonfiarsi di riverberi, un colmare lo spettro sonoro con suoni densi, wah wah avvolgenti, percussioni incalzanti e bassi tondi e accigliati. Si prenda la lunga jam di "Runaway Child, Running Wild": quel suo fiorire di armonizzazioni vocali e svolazzi di organetto e chitarra, il lento e sinuoso consolidare il groove in una continua giustapposizione di elementi, di soluzioni cromatiche, di leganti timbrici e armonici. Il brano si slarga e deforma progressivamente, fossilizzandosi ora su un motivo doo-wop esteso, ora su solo di organetto cui si avviluppano gli accordi liquidi di una chitarra elettrica, ora su un tappeto percussivo lussureggiante, esaurendosi in diverse mancate esplosioni, sfumando infine nell'aria come una vampa di fumo.
E le ballate ("Love Is a Hurtin' Thing"), le glassature tradizionalmente Motown ("Why Did She Have to Leave Me"), i r&B decisi, colorati, funky ("Don't Let Him Take Your Love From Me", "Gonna Keep On Tryin' Till I Win Your Love"): il balzo non è ancora netto, si insinua nei dettagli, nel piglio scattante, nella posa sgargiante, nella canonizzazione di quanto acquisito. Un godibilissimo viatico per uno dei molti rinascimenti della musica black.
► 1979
Vada per la spettacolare intro di "Suspect Device", ma potremmo anche limitarci a parlare del riff che introduce l'antemica "Alternative Ulster" per accertare una volta per tutte il valore di uno dei migliori album della stagione punk. Da Belfast, gli Stiff Little Fingers di Jake Burns innestavano l'approccio punk-rock nelle vicende del conflitto nordirlandese, per una sorta di posizionamento alla "né con l'IRA né con la RUC" che puntava tutto sulla veduta di una generazione incastrata nel mezzo degli eventi, senza prospettive né possibilità di riscatto: "We were all guys who had grown up through the madness that was Belfast in the 70s and we were sick of it", racconta Jake Burns in un'intervista.
Tra le gemme indiscusse dell'album il pop-punk infarcito di melodismi brill building e doo-wop di "Barbed Wire Love", la scheggia melodica "Here We Are Nowhere", l'inno di "Wasted Life", l'epica "State of Emergency" col suo chitarrismo sfrenato e caparbio, capace di superare i confini del genere inglobando tradizione hard-rock e vagiti heavy metal.
Tematiche a parte, l'album scorre che è un piacere, mostrando un grande afflato pop che imbeve anche i pezzi più ruvidi. Diversi epigoni del revival punk anni Novanta si sono studiati dischi come questo a memoria.
► 1989
Spacemen 3 - Playing With Fire (Fire)
Giocare con il fuoco è sempre stata la specialità degli Spacemen 3 di Jason Pierce e Peter Kember, che dopo un album il cui tema portante era l'eroina ("The Perfect Prescription"), nel 1989 escono con un disco ancora più allucinato e drogato.
Fin dalle prime ondulazioni di organetto di "Honey" è evidente che l'intenzione sia quella di rimanere ben ancorati alle proprie ossessioni sonore, tra immersioni radicali in strati di riverberi e tremolo stordenti. La psichedelia degli Spacemen 3 è tutta incentrata sullo squagliamento della struttura canzone in impasti indolenti e anestetizzati ("Come Down Softly to My Soul", con quella chitarra celestiale che ricorda i Popol Vuh di "Hosianna Mantra"), tessiture sfibrate (il loop di chitarra in iper-tremolo -il Vox Repeat Percussion - di "How Does It Feel"), odi estatiche a base di organetto (i due accordi in loop di "I Believe It"), infuocate tempeste shoegaze ("Revolution" e il suo ammiccare agli Stooges) e manipolazioni soniche estreme ("Suicide").
Sebbene non si raggiunga la radicale catarsi dell'episodio precedente, "Playing With Fire" rimane un lavoro eccellente, a cui abbandonarsi senza remore.
Giocare con il fuoco è sempre stata la specialità degli Spacemen 3 di Jason Pierce e Peter Kember, che dopo un album il cui tema portante era l'eroina ("The Perfect Prescription"), nel 1989 escono con un disco ancora più allucinato e drogato.
Fin dalle prime ondulazioni di organetto di "Honey" è evidente che l'intenzione sia quella di rimanere ben ancorati alle proprie ossessioni sonore, tra immersioni radicali in strati di riverberi e tremolo stordenti. La psichedelia degli Spacemen 3 è tutta incentrata sullo squagliamento della struttura canzone in impasti indolenti e anestetizzati ("Come Down Softly to My Soul", con quella chitarra celestiale che ricorda i Popol Vuh di "Hosianna Mantra"), tessiture sfibrate (il loop di chitarra in iper-tremolo -il Vox Repeat Percussion - di "How Does It Feel"), odi estatiche a base di organetto (i due accordi in loop di "I Believe It"), infuocate tempeste shoegaze ("Revolution" e il suo ammiccare agli Stooges) e manipolazioni soniche estreme ("Suicide").
Sebbene non si raggiunga la radicale catarsi dell'episodio precedente, "Playing With Fire" rimane un lavoro eccellente, a cui abbandonarsi senza remore.
► 1999
Jim O'Rourke - Eureka (Drag City)
Che fuoriclasse Jim O'Rourke, capace di passare dal post-rock più concettuale (con i Gastr del Sol) all'american primitivism sperimentale ("Bad Timing"), fino all'elettronica minimalista e glitch ("I'm Happy, and I'm Singing, and a 1, 2, 3, 4 "). Da annoverare tra i suoi capolavori assoluti troviamo, però, un lavoro di grazia pop sopraffina che, portandosi appresso molti compagni di strada, raggiunge un vero stato di grazia: "Eureka" è un incredibile lavoro di riflessività chamber, di dilungamenti ariosi e ambientali, di sonorità assieme pastorali e contemporanee, di folk sposato all'elettronica, di armonie vocali e grazie soft-pop.
"Women of the World take over / 'cause if you don´t / the world will come to an end / and it won't take long", ripete O'Rourke contrappuntato e sostenuto dal coro, in una personalissima interpretazione del brano di Ivor Cutler, una elegante e profumata nebulosa che pian piano si gonfia tra accordi di chitarra in fingerpicking e banjo, strascichi di modulazioni elettroniche, arie dialoganti di violoncello e violino, oltre a quei tocchi di vibrafono che qui e là punteggiano il tema portante. Ripetizione e variazione, un mantra, un convergere di elementi che ora si richiamano ora prendono strade tutte loro, rimanendo però sempre nell'orbita di una struttura in lento levare, in costante rinforzo.
Scrigno delle meraviglie, questo "Eureka", dove ogni brano è un piccolo universo di eccentrico buon gusto ed equilibrio: "Ghost Ship in a Storm" è un'aggraziata piano ballad che sa di Bacharach, "Movie on the Way Down" e il suo lentissimo agglutinare gli elementi in un'armonia volta a incanalare finalmente il motivo vocale, "Through The Night Softly" e la sua grandeur da gala, capace di unire Pink Floyd e, ancora, Burt Bacharach (di cui si omaggia qui la frizzante "Something Big"), fino all'interludio jazzy di "Please Patronize Our Sponsors" e all'incantevole distesa glitch-acustica di "Eureka".
Avanguardia e sperimentazione sono messe al servizio di una musica di ampio respiro, di una varietà cromatica e stilistica inesauribile, il tutto saldato da una presa pop irresistibile. Un'esperienza irripetibile, ogni volta folgorante, catartica.
Che fuoriclasse Jim O'Rourke, capace di passare dal post-rock più concettuale (con i Gastr del Sol) all'american primitivism sperimentale ("Bad Timing"), fino all'elettronica minimalista e glitch ("I'm Happy, and I'm Singing, and a 1, 2, 3, 4 "). Da annoverare tra i suoi capolavori assoluti troviamo, però, un lavoro di grazia pop sopraffina che, portandosi appresso molti compagni di strada, raggiunge un vero stato di grazia: "Eureka" è un incredibile lavoro di riflessività chamber, di dilungamenti ariosi e ambientali, di sonorità assieme pastorali e contemporanee, di folk sposato all'elettronica, di armonie vocali e grazie soft-pop.
"Women of the World take over / 'cause if you don´t / the world will come to an end / and it won't take long", ripete O'Rourke contrappuntato e sostenuto dal coro, in una personalissima interpretazione del brano di Ivor Cutler, una elegante e profumata nebulosa che pian piano si gonfia tra accordi di chitarra in fingerpicking e banjo, strascichi di modulazioni elettroniche, arie dialoganti di violoncello e violino, oltre a quei tocchi di vibrafono che qui e là punteggiano il tema portante. Ripetizione e variazione, un mantra, un convergere di elementi che ora si richiamano ora prendono strade tutte loro, rimanendo però sempre nell'orbita di una struttura in lento levare, in costante rinforzo.
Scrigno delle meraviglie, questo "Eureka", dove ogni brano è un piccolo universo di eccentrico buon gusto ed equilibrio: "Ghost Ship in a Storm" è un'aggraziata piano ballad che sa di Bacharach, "Movie on the Way Down" e il suo lentissimo agglutinare gli elementi in un'armonia volta a incanalare finalmente il motivo vocale, "Through The Night Softly" e la sua grandeur da gala, capace di unire Pink Floyd e, ancora, Burt Bacharach (di cui si omaggia qui la frizzante "Something Big"), fino all'interludio jazzy di "Please Patronize Our Sponsors" e all'incantevole distesa glitch-acustica di "Eureka".
Avanguardia e sperimentazione sono messe al servizio di una musica di ampio respiro, di una varietà cromatica e stilistica inesauribile, il tutto saldato da una presa pop irresistibile. Un'esperienza irripetibile, ogni volta folgorante, catartica.
► 2009
Fanfarlo - Reservoir (Rough Trade)
L'esordio dei Fanfarlo aveva fatto breccia principalmente per il riferimento agli Arcade Fire. Meno pomposi dei cugini canadesi, i Fanfarlo mettevano in pratica in forme più asciutte e dirette le soluzioni chamber-folk e l'epica pop della band di Win Butler, inserendosi in un contesto di revival wave maggiormente esplicito e lineare.
Ora, a dieci anni di distanza, il confronto sembra perdere di consistenza: da un lato perché gli Arcade Fire stessi hanno provveduto a conformare (o banalizzare, decidete voi) la loro proposta, dall'altro perché è più facile, a distanza di anni, concepire "Reservoir" entro una prospettiva più ampia.
I canoni di lettura sono quindi necessariamente più generali: recupero di un'enfasi e di un pathos che avrebbe caratterizzato il rinascimento rock-pop inglese, "appesantimento" delle strutture pop grazie a rinforzi cameristici, alternativa cerebrale (dunque british) all'indie-folk più fanfarone (penso agli statunitensi Beirut), piglio deciso tipicamente post-punk.
Detto questo, pur appartenendo alla categoria degli "esemplari minori" di quell'epoca (chissà se sarà ancora così tra dieci anni), ancora oggi il disco suona fresco e piacevole: si prenda la prima "Pilot" e il suo incedere tra volute chamber, "Luna", guidata da quel basso imperioso entro un bel muro di risonanze, "Fire Escape", deliziosa caramella indie pop, "Drowning Men", garbata riproposizione delle sonorità arcadeiane, "If It Is Growing", elegantissima ed intensa ballata costruita su un dialogo tra pianoforte e fiati.
Undici belle canzoni che rispecchiano a perfezione lo spirito di un'epoca. Questo può (ampiamente) bastare per celebrare i dieci anni di un disco.
L'esordio dei Fanfarlo aveva fatto breccia principalmente per il riferimento agli Arcade Fire. Meno pomposi dei cugini canadesi, i Fanfarlo mettevano in pratica in forme più asciutte e dirette le soluzioni chamber-folk e l'epica pop della band di Win Butler, inserendosi in un contesto di revival wave maggiormente esplicito e lineare.
Ora, a dieci anni di distanza, il confronto sembra perdere di consistenza: da un lato perché gli Arcade Fire stessi hanno provveduto a conformare (o banalizzare, decidete voi) la loro proposta, dall'altro perché è più facile, a distanza di anni, concepire "Reservoir" entro una prospettiva più ampia.
I canoni di lettura sono quindi necessariamente più generali: recupero di un'enfasi e di un pathos che avrebbe caratterizzato il rinascimento rock-pop inglese, "appesantimento" delle strutture pop grazie a rinforzi cameristici, alternativa cerebrale (dunque british) all'indie-folk più fanfarone (penso agli statunitensi Beirut), piglio deciso tipicamente post-punk.
Detto questo, pur appartenendo alla categoria degli "esemplari minori" di quell'epoca (chissà se sarà ancora così tra dieci anni), ancora oggi il disco suona fresco e piacevole: si prenda la prima "Pilot" e il suo incedere tra volute chamber, "Luna", guidata da quel basso imperioso entro un bel muro di risonanze, "Fire Escape", deliziosa caramella indie pop, "Drowning Men", garbata riproposizione delle sonorità arcadeiane, "If It Is Growing", elegantissima ed intensa ballata costruita su un dialogo tra pianoforte e fiati.
Undici belle canzoni che rispecchiano a perfezione lo spirito di un'epoca. Questo può (ampiamente) bastare per celebrare i dieci anni di un disco.
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