Cinque dischi al mese passati in rassegna per un anno. Un esercizio divertente, soprattutto, ma anche utilissimo per scoprire o riscoprire moltissimi lavori, alcuni rivalutati considerando nuove letture e altri punti di vista, altri riconfermati e approfonditi dopo anni di scarsa frequentazione. La conclusione è che ci vorrebbe una vita per i primi ascolti, e altrettante per i secondi, terzi, quarti. In mancanza di tale possibilità, si fa quel che si può.
Ecco qui l'elenco delle puntate precedenti:
The Pretty Things - S.F. Sorrow (Columbia)
Tra i nomi legati alla scena rhythm and blues londinese i Pretty Things non possono mancare. Eppure la band di Phil May, come testimonia Joe Boyd nel suo "White Bicycles", spiccava più per la sua squisita vena eccentrica che per le abilità interpretative della musica nera americana. Per questo il passaggio dai club blues all'UFO non dovette sembrare uno stacco così netto.
Allo stesso modo il passaggio dai primi dischi del 1965 al capolavoro psichedelico, intervallato dall'episodio freakbeat di "Emotions", dovette apparire come una transizione naturale, toccata a molti altri (si pensi ai Rolling Stones). Ennesimo manifesto di quanto il pop anni Sessanta potesse essere poliedrico e creativo, il magniloquente concept album "S.F. Sorrow", registrato da Norman Smith, è uno spettacolare esperimento di coraggiose tecniche di studio e di grande creatività compositiva.
A partire dalla prima traccia omonima parte un inesauribile corredo di fantasie sonore e compositive: tracce in reverse, giochi stereofonici, strati di mellotron, inserti di strumentazione esotica e armonie vocali espanse e vorticose. Tutto questo si dirama in una scaletta dove si rincorrono un brano più bello dell'altro: il trittico di "Bracelets of Fingers", "She Says Good Morning", "Private Sorrow" basterebbe da solo per urlare al capolavoro, però arrivano anche "Balloon Burning", "Baron Saturday" e "Old Man Going", tra garage, baroque pop, sperimentazione astratta, a completare un affresco raffinatissimo e multicolore.
Un must have per ogni appassionato di psichedelia, di anni sessanta, di musica.
► 1978
Un singolo come "Public Image" nella top ten inglese? Una cosa così non poteva che succedere nel 1978, in piena rivoluzione post-punk. E non poteva che succedere con l'adorato maudit nazionale, quel John Lydon (ex Rotten) che aveva appena detto addio ai "reazionari" ed eterodiretti Sex Pistols per abbracciare una musica irriducibilmente sperimentale, rumorosa, distorta, ma con un piglio arty che univa alla sfrontatezza rock un netto rifiuto dei cliché che avevano inzuppato la stessa scena punk.
Tutto, in "First Issue" è metamorfosi, transizione, superamento, dichiarazione d'intenti. Un album così concettuale (la stessa creatura Public Image era concepita come una vera e propria azienda) da rappresentare uno stacco ancora più netto dell'incendiaria esperienza precedente. A fare da ponte con il biennio punk le sonorità reggae e dub, uniche musiche da ballo tollerate (come racconta Dick Hebdige nel suo "Subculture: The Meaning of Style") dai punk inglesi (per quanto di lì a poco Lydon avrebbe sdoganato la disco). E allora ecco che a partire dalla prima "Theme" si viene catapultati in un acerbo impasto di chitarre distorte e taglienti (merito di un grande Keith Levene), nelle litanie allucinate di Lydon, nel martellare ripetitivo di Jim Walker, nel basso profondo e dub della colonna portante Jah Wobble.
Ecco allora che "Public Image", soprattutto paragonata ai brani precedenti, è dotata di un afflato melodico, di una prestanza pop davvero eccezionale. La chitarra di Levene ricama acida ma chiarissima il suo motivo solista, mentre la filastrocca di Lydon offre senza vergogna il fianco ad una forma canzone addirittura fischiettabile.
Se "Metal Box" e "The Flowers of Romance" porteranno ancora più in alto la vocazione sperimentale della band, accompagnandone specularmente le dovute paranoie, crisi d'astinenza e ossessioni, il primo passo rimane però fondamentale per cogliere la natura di una transizione epocale.
► 1988
Kult - Spokojnie (Polton)
Della scena new wave polacca si era parlato a proposito dei Róże Europy nella puntata di maggio. Inutile dire che i Kult appartengono degnamente a quel contesto, e che "Spokojnie" rappresenta il loro capolavoro anni Ottanta. Nonostante il titolo (che in italiano significa "con calma"), il terzo album della band procede rapido e urgente attraverso un blend di post-punk spigoloso e corposa neo-psichedelia, ornando il tutto con armonizzazioni di fiati e trame di organetto anni Sessanta. Il risultato è un incontro tra i Teardrop Explosions e la forza creativa inedita del rock d'oltrecortina ("Il mio corpo è diviso da un muro", canta Staszewski, esprimendo efficacemente il senso di spaesamento di una generazione intera: "Dieci dita a sinistra, le altre dieci a destra, la testa divisa per ogni lato")
Ogni brano irrompe con un personalissimo sforzo di ibridazione e appropriazione creativa di ska-punk ("Patrz"), psichedelia dark e ambientale ("Arahja", "Jeźdźcy"), post-punk convulso e contaminatissimo alla Gallon Drunk ("Axe"), proto-shoegaze intricato e solenne ("Niejeden"), alt-country già diretto verso gli anni Novanta ("Landy") e meravigliosi impasti world-wave ("Tan").
Impossibile resistere al fascino di un album che coglie in tutte le sue contraddizioni e il suo fermento un periodo di profondi cambiamenti.
Della scena new wave polacca si era parlato a proposito dei Róże Europy nella puntata di maggio. Inutile dire che i Kult appartengono degnamente a quel contesto, e che "Spokojnie" rappresenta il loro capolavoro anni Ottanta. Nonostante il titolo (che in italiano significa "con calma"), il terzo album della band procede rapido e urgente attraverso un blend di post-punk spigoloso e corposa neo-psichedelia, ornando il tutto con armonizzazioni di fiati e trame di organetto anni Sessanta. Il risultato è un incontro tra i Teardrop Explosions e la forza creativa inedita del rock d'oltrecortina ("Il mio corpo è diviso da un muro", canta Staszewski, esprimendo efficacemente il senso di spaesamento di una generazione intera: "Dieci dita a sinistra, le altre dieci a destra, la testa divisa per ogni lato")
Ogni brano irrompe con un personalissimo sforzo di ibridazione e appropriazione creativa di ska-punk ("Patrz"), psichedelia dark e ambientale ("Arahja", "Jeźdźcy"), post-punk convulso e contaminatissimo alla Gallon Drunk ("Axe"), proto-shoegaze intricato e solenne ("Niejeden"), alt-country già diretto verso gli anni Novanta ("Landy") e meravigliosi impasti world-wave ("Tan").
Impossibile resistere al fascino di un album che coglie in tutte le sue contraddizioni e il suo fermento un periodo di profondi cambiamenti.
► 1998
Il canto del cigno dei Republika corrisponde con l'ultimo lavoro licenziato dalla storica band polacca: il leader Grzegorz Ciechowski sarebbe morto infatti nel dicembre del 2001, chiudendo definitivamente uno dei capitoli più appassionanti del rock est-europeo. Inserendosi più che degnamente nel clima sonoro di fine anni Novanta, "Masakra" rappresenta un gioiellino di rock alternativo e venature trip-hop, ribadendo ancora una volta la validità delle voci polacche nel contesto musicale europeo.
Splendide, allora, le tessiture elettroniche di "Odchodząc", melodicamente raffinatissima, di "Przeczekajmy noc", lenta ballata notturna, di "Raz na milon rat", sinuoso dispiegarsi downtempo (che non manca di fugaci ed efficaci impennate), senza parlare del fascino dei brani che mischiano maggiormente sonorità rock e elettronica (la prima "Masakra", convulso battere elettro-funk, "Mamona", vicinissima alle atmosfere dei primi album, o "Strażnik snu" e il suo groove reggae).
Una band di quarantenni perfettamente al passo con gli sviluppi musicali dell'epoca, con in più il tocco magico di un pezzo di storia del post-punk europeo. Niente male davvero.
Splendide, allora, le tessiture elettroniche di "Odchodząc", melodicamente raffinatissima, di "Przeczekajmy noc", lenta ballata notturna, di "Raz na milon rat", sinuoso dispiegarsi downtempo (che non manca di fugaci ed efficaci impennate), senza parlare del fascino dei brani che mischiano maggiormente sonorità rock e elettronica (la prima "Masakra", convulso battere elettro-funk, "Mamona", vicinissima alle atmosfere dei primi album, o "Strażnik snu" e il suo groove reggae).
Una band di quarantenni perfettamente al passo con gli sviluppi musicali dell'epoca, con in più il tocco magico di un pezzo di storia del post-punk europeo. Niente male davvero.
► 2008
Mark Olson & Gary Louris - Ready for the Flood (New West)
Gary Louris e Mark Olson, storiche voci&chitarre dei Jayhawks, tornano a riunire le energie nel 2008 con un album tradizionalissimo, un piccolo gioiellino di scrittura folk a due voci e quattro mani.
Niente di fuori dall'ordinario, per carità. Chitarra acustica, voce e poco altro. Però ogni brano segue imperturbato un suo flusso, crea armonie squisite, padroneggia la scrittura rilassata e distesa tipica dei maestri. Basti una "The Rose Society" e il suo blend americana profumatissimo, o "Saturday Morning on Sunday Street", graziosa ballata in fingerpicking, o ancora "Kick the Wood", con i suoi rimandi alla Band, e per finire la ballatona acustica di "Doves and Stones", le aperture alt-country di "Bloody Hands" e il blues dylaniano di "Cotton Dress".
Un disco di genere, indubbiamente; con la capacità, però, di parlare anche e soprattutto a una platea più vasta, contaminando l'opera di un'espressività senza barriere.
Gary Louris e Mark Olson, storiche voci&chitarre dei Jayhawks, tornano a riunire le energie nel 2008 con un album tradizionalissimo, un piccolo gioiellino di scrittura folk a due voci e quattro mani.
Niente di fuori dall'ordinario, per carità. Chitarra acustica, voce e poco altro. Però ogni brano segue imperturbato un suo flusso, crea armonie squisite, padroneggia la scrittura rilassata e distesa tipica dei maestri. Basti una "The Rose Society" e il suo blend americana profumatissimo, o "Saturday Morning on Sunday Street", graziosa ballata in fingerpicking, o ancora "Kick the Wood", con i suoi rimandi alla Band, e per finire la ballatona acustica di "Doves and Stones", le aperture alt-country di "Bloody Hands" e il blues dylaniano di "Cotton Dress".
Un disco di genere, indubbiamente; con la capacità, però, di parlare anche e soprattutto a una platea più vasta, contaminando l'opera di un'espressività senza barriere.
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