A luglio probabilmente ero al mare. Sta di fatto che l'episodio di questo mese dei miei eights è monco del 2008: diversi dischi piacevoli, ma nulla degno di essere celebrato. Poco male, spendo comunque tante (troppe) parole per lavori meravigliosi che meritano la loro menzione d'onore.
► 1968
The Millennium - Begin (Columbia)
La storia del pop è da sempre una storia di produttori geniali: Phil Spector e Joe Meek, con il loro approccio futurista, Sam Phillips e il rock'n'roll, Don Kirshner e la sua scuderia Brill Building, Berry Gordy e la Motown, per non parlare del George Martin "quinto membro" dei Beatles. Il produttore definisce la visione, guida l'artista in maniera più o meno dittatoriale (oppure ne asseconda maieuticamente la personalità), definisce e struttura l'impostazione del suono, mette a fuoco un timbro, un marchio di fabbrica (si pensi a Steve Albini).
Curt Boettcher va annoverato tra le più importanti figure del suo tempo (si parla di fine anni Sessanta): tra i padri putativi del sunshine pop, Boettcher mise la sua peculiare visione al servizio di band di culto come The Association e Eternity's Children, partecipando al processo creativo anche come musicista e autore, formando assieme al produttore Keith Olsen due band fondamentali per la scena, i Sagittarius e i Millennium, i cui due album furono pubblicati entrambi nel luglio del 1968.
"Begin", primo e unico lavoro dei Millennium, è un incredibile capolavoro, perfetto sotto ogni aspetto, punto di arrivi e di partenza per la psichedelia, il pop barocco, il rock progressivo, elementi cristallizzati in una manifestazione artistica senza tempo. Non solo: in "Begin", come racconta David Howard in "Sonic Alchemy", si sperimenta alla grande, utilizzando un registratore a sedici tracce, manipolando i nastri, giocando con l'effetto reverse sugli eco, mescolando musica elettrica e strumenti tradizionali, arrangiamenti da camera e armonie vocali intricate, risonanze e timbri inusuali.
Si parte con "Prelude", sorta di trip-hop ante tempore (con tanto di loop di batteria) in salsa fieristica, tra arrangiamenti di clavicembalo e ottoni che imbastiscono il tema della successiva "To Claudia On Thursday", delicatissima e sognante, scritta da Michael Fennelly e Joey Stec, perfetto esempio di sunshine/bossa-nova corale impreziosita da un basso tondo e dall'intervento esotico della cuíca brasiliana.
Si parte con "Prelude", sorta di trip-hop ante tempore (con tanto di loop di batteria) in salsa fieristica, tra arrangiamenti di clavicembalo e ottoni che imbastiscono il tema della successiva "To Claudia On Thursday", delicatissima e sognante, scritta da Michael Fennelly e Joey Stec, perfetto esempio di sunshine/bossa-nova corale impreziosita da un basso tondo e dall'intervento esotico della cuíca brasiliana.
Si continua con gemme del calibro del soft-rock di "I Just Want to Be Your Friend" e "I'm With You", colme di preziosismi in sede di arrangiamento, tra psichedelia tenue e elementi da camera, il blue-eyed soul di "Sing to Me", il country alla Byrds di "Some Sunny Day", l'hard rock gonfio e spazioso di "The Kow It All", la psichedelia barocca di "Karmic Dream Sequence #1".
Gemme tra le gemme la splendida "5 A.M.", scritta da Sandy Salisbury, variopinto bozzetto sunshine condotto da un basso giocoso su una ritmica a base di bongos e su vaporose correnti di armonie vocali; "The Island", scritta da Curt Boettcher, sonnacchioso folk-pop di sonorità molli e narcotizzanti; "There Is Nothing More to Say", favoloso inno psych-pop striato dalle chitarre in tape reverse e da colorate armonizzazioni corali.
Costato un'immensità e non seguito dal dovuto riscontro commerciale, "Begin" è ancora più bello nel suo essere "fallimentare". Troppo avanti allora, oggi è uno scrigno delle meraviglie capace di dispensare tutto il suo potere. Di cinquantenni così, in giro, se ne vedono pochi.
Recensione tratta da storiadellamusica.it
Gemme tra le gemme la splendida "5 A.M.", scritta da Sandy Salisbury, variopinto bozzetto sunshine condotto da un basso giocoso su una ritmica a base di bongos e su vaporose correnti di armonie vocali; "The Island", scritta da Curt Boettcher, sonnacchioso folk-pop di sonorità molli e narcotizzanti; "There Is Nothing More to Say", favoloso inno psych-pop striato dalle chitarre in tape reverse e da colorate armonizzazioni corali.
Costato un'immensità e non seguito dal dovuto riscontro commerciale, "Begin" è ancora più bello nel suo essere "fallimentare". Troppo avanti allora, oggi è uno scrigno delle meraviglie capace di dispensare tutto il suo potere. Di cinquantenni così, in giro, se ne vedono pochi.
Recensione tratta da storiadellamusica.it
► 1978
Si parlava di produttori, qui sopra. Ecco: per il secondo album dei Talking Heads il direttore dei lavori è niente meno che Brian Eno. Il rapporto avventuroso di Eno col suono lo conosciamo, e il connubio tra l'estro di Byrne e soci non poteva che generare frutti superbi. Il secondo album della band newyorkese è il loro primo vero capolavoro, grazie a un maggiore focus sugli elementi che avrebbero reso così peculiare il loro sound: chitarre nervose e taglienti, sessione ritmica imperiosa e destrutturata, vocalizzi schizzati e psicotici. Al tutto Eno aggiunge l'inedita compattezza di una visione, per un soundscape incentrato, oltre che sul ritmo, su legamenti atmosferici pregnanti, capaci di conferire al sound un particolarissimo groove da disco-funky austera e affettata: musica "fredda" (rispetto ai suoni black) e concettuale, ma anche ansiosa e accigliata, dotata di forti elementi propulsivi, di decise screziature cromatiche. New wave, in poche parole.
Quale brano migliore per comprendere il fortunatissimo connubio tra la produzione unica di Eno e la scrittura innovativa della band se non "Warning Sign", con gli interventi sul rullante filtrato attraverso una combinazione di riverbero e phaser, una sorta di negativo dub, mentre il fraseggio di chitarra e basso è come un reticolato sfasato, dove il basso della Waymouth borbotta sghembo e la chitarra lascia strisciate polverizzate dal flanger, il tutto sullo spoken dinoccolato di Byrne. In tutti i brani, però, si respira aria di grande creatività: "With Our Love" e il chitarrismo epilettico tipico della band; "Found a Job" con i suoi secchi accordi funky in palm muting, privi di ogni carnalità, ritmicamente settati su una ripetizione psicotica; "The Girls Want to Be With the Girls" e le sue chitarre sintetizzate; "Artists Only" e il suo continuo mutare, tra solide partiture di basso e organetto e improvvisi intermezzi a base di timbri psichedelici pinkfloydiani; "The Big Country", con tanto di slide guitar e rivisitazioni glam alla Roxy Music.
Un lavoro da aggiungere assolutamente alla lista della spesa, degno traghettatore del sound dei Talking Heads verso le meraviglie di "Fear of Music" e "Remain in Light".
► 1988
Tra le tante opere celebrative della grandissima, seppur breve, storia dei Joy Division, "Substance" va annoverata almeno per un motivo: essere la prima, contribuendo a forgiare un mito inossidabile cui seguiranno chicche dissepolte come il live "Les Bains Douches 18 December 1979". Certo, direte, voi, che ci serve una compilation di un gruppo che ha fatto solo due album? Be': a capire. A documentare eloquentemente il percorso che ha portato Ian Curtis a raggelare progressivamente il suo sound, a passare dal post-punk rabbioso degli esordi (si parla dell'EP "An Ideal for Living") alle nebbie depressive di "Closer".
"Substance" raccoglie il materiale più esoterico mai prodotto dalla band, ordinando il tutto cronologicamente (fatta eccezione per la versione in CD, che aggiunge un'appendice finale contenente brani esclusi per ragioni di eccessivo minutaggio), accompagnandoci passo dopo passo lungo il drammatico ciclo vitale della creatura Joy Division. Dalla grezza scoria punk di "Warsaw" e il ruvido post-punk (in stile Wire) di "Leaders of Men", eccoci al vocione inquieto e gotico del Curtis che tutti conosciamo nella bella "Digital", dotata ancora di una carica vitale che sopravviveva, residualmente, in "Unknown Pleasures" e alle atmosfere gelide e rarefatte di "Autosuggestion", che sfoggia il rigidissimo metodo produttivo impiegato da Martin Hannett per il primo album della band. Ci sono, poi, i singoli mai pubblicati e divenuti celebri ("Transmission", "Atmosphere", "Love Will Tear Us Apart"), versioni demo di pezzi ufficiali ("She's Lost Control") e diverse chicche (la b-side "Dead Souls", dal singolo del 1980 "Licht und Blindheit", oltre all'approfondito insight dell'appendice sulle origini punk della band).
Uscito un anno dopo la compilation omonima dei "sopravvissuti" New Order, "Substance" è un doveroso omaggio, oltre che un'operazione "biografica" completa ed esaustiva, capace di connettere forma e sostanza di una delle più appassionanti realtà del pop contemporaneo.
► 1998
Black Box Recorder - England Made Me (Chrysalis)
Con la copertina sbadigliante dei Pet Shop Boys, questo "England Made Me" condivide un senso di noia che permea ogni brano, condotto dalla voce sospirante della Nixey e dalle trame melliflue e sonnolente delle chitarre. Lo sguardo è rivolto a quell'Inghilterra decadente che è tema ricorrente nei brani dell'album: i Black Box Recorder sono alfieri rassegnati di un ripiegamento inerte dall'ottimismo Cool Britannia, dai fasti Britpop. "They were like Saint Etienne reversed into a dark, oily negative, commemorating, rather than celebrating, Britain", come scrive Jude Rodgers su The Quietus.
Fondati da Luke Haines un paio di anni prima della fine dell'esperienza The Auteurs, i Black Box Recorder sono inglesissimi, di un'inglesità alla Kinks, consapevoli dell'ironica vuotezza della quotidianità british. Completano il trio la voce sensuale della giovane Sarah Nixey (che di indie e britpop dichiarava di non sapere quasi nulla, così presa dai suoni più moderni di Portishead e Massive Attack), e la chitarra/batteria di John Moore (brevemente nei Jesus and Mary Chains, poi nei suoi Revolution 9).
Con la copertina sbadigliante dei Pet Shop Boys, questo "England Made Me" condivide un senso di noia che permea ogni brano, condotto dalla voce sospirante della Nixey e dalle trame melliflue e sonnolente delle chitarre. Lo sguardo è rivolto a quell'Inghilterra decadente che è tema ricorrente nei brani dell'album: i Black Box Recorder sono alfieri rassegnati di un ripiegamento inerte dall'ottimismo Cool Britannia, dai fasti Britpop. "They were like Saint Etienne reversed into a dark, oily negative, commemorating, rather than celebrating, Britain", come scrive Jude Rodgers su The Quietus.
Fondati da Luke Haines un paio di anni prima della fine dell'esperienza The Auteurs, i Black Box Recorder sono inglesissimi, di un'inglesità alla Kinks, consapevoli dell'ironica vuotezza della quotidianità british. Completano il trio la voce sensuale della giovane Sarah Nixey (che di indie e britpop dichiarava di non sapere quasi nulla, così presa dai suoni più moderni di Portishead e Massive Attack), e la chitarra/batteria di John Moore (brevemente nei Jesus and Mary Chains, poi nei suoi Revolution 9).
"My 18th birthday I'll die of boredom / My private world is smashed wide open", recita il terzo verso dell'opening "Girl Singing in the Wreckage", molle intrecciarsi di accordi di chitarra e basso su ritmica secca e sottili layers di suoni che ricordano sirene su strade notturne. Si comincia: "England Made Me" è tenue indie rock d'atmosfera, con gli accordi minimali di chitarra di Haines accostati ai leggeri arrangiamenti di tastiere, capace di dispensare versi grandiosi, per una pop song solo apparentemente innocua ("I trapped a spider underneath the glass / I kept it for a week to see how long he'd last / He stared right back at me / He thought that he could win / We played the waiting game / He thought that I'd give in / England made me"). Poi ci sono la suadente "It's Onky the End of the World", scheletrica negli arrangiamenti che lasciano spazio alla voce carezzevole della Nixey, in grado di tingere di sensualità un brano decadente e disperato; la stupenda "Child Psychology", addirittura censurata dalla BCC ("Life is unfair / Kill yourself or get over it", cantano Nixey e Haines); le flebili movenze di "Swinging", con le sue fugaci aperture melodiche; le deliziose partiture di chitarra di "Kidnapping an Heiress", rievocazione del massacro di Jonestown.
Arrangiamenti semplici ma eleganti, sonorità pulite e spaziose, pensate per risonanze da cameretta, mood raccolto e ambiguamente ammiccante, melodie raffinate, gestalt da fine della storia (anche la cover trip-hop di "Up Town Top Ranking" suona come un relitto, una sorta hauntologia): un album da rivalutare, di grande impatto emotivo.
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