Cosa vuol dire avere ragione se, come molti pensano, tante persone possono avere ragione sullo stesso tema dicendo cose diverse, magari contemporaneamente?
Se, quindi, non sembra esistere una ragione capace di prevalere sulla base di qualche qualità intrinsecamente migliore, più affidabile, più solida. Più vera.
Se, quindi, non sembra esistere una ragione capace di prevalere sulla base di qualche qualità intrinsecamente migliore, più affidabile, più solida. Più vera.
È possibile fondare le proprie ragioni su elementi oggettivi senza che si possa liquidare la questione come un'insanabile divergenza di opinioni?
È possibile parlare di verità come metro per fondare la bontà di una ragione?
Quindi, cosa vuol dire avere ragione?
È possibile parlare di verità come metro per fondare la bontà di una ragione?
Quindi, cosa vuol dire avere ragione?
Se affermo "Il treno passa alle otto" avrò ragione se e solo se il treno passa effettivamente alle otto. Dunque avrò ragione se sarà vero che il treno passa alle otto. Quindi avere ragione significa dire il vero. Ma cosa significa dire il vero? E cosa rende vera la mia ragione?
Secondo Franca D'Agostini (2011) una proposizione "p" (con p = "il treno passa alle otto", o qualsiasi altro assunto) è vera se le cose stanno così come "p" dice. Il concetto di "truthbearer" è il primo mattone da cui partire per indagare questa posizione.
Un truthbearer (portatore di verità) è quel qualcosa di cui si può dire "è vero" o "è falso". Cosa diciamo essere vera e falsa se non una credenza o un'opinione? E come, solitamente, esprimiamo tale credenza o opinione se non attraverso il linguaggio, attraverso enunciati? Ecco, la particolare forma di linguaggio per mezzo della quale esprimiamo un giudizio di verità, ci dice la D'Agostini citando Aristotele, è l'enunciato dichiarativo ("fuori piove", "il treno passa alle otto"), avente due proprietà: (1) essere significativo; (2) poter essere vero o falso. Attenzione però: non è tanto l'enunciato dichiarativo ad essere vero o falso, ma è il suo riferirsi alla realtà, al come stanno le cose, ad assegnargli la proprietà di verità o falsità. Per intenderci: non basta che io possa dire che qualcosa sia vero perché quel qualcosa lo sia effettivamente (se dico "è vero che fuori piove" quando fuori c'è il sole l'enunciato sarà, infatti, falso). Come spiega Paul Boghossian (2006), se valesse il contrario, cioè se bastasse dire che qualcosa è vero per renderlo tale, allora non ci potrebbero essere asserzioni false. Essere vero o falso non è una questione linguistica. Serve il concorso della realtà e il suo "accordo" con l'enunciato perché questo possa essere vero o falso, perché questo possa essere "portatore di verità".
Bisogna però capire che cosa si intenda con realtà, e per questo la D'Agostini introduce il concetto di "truthmaker", cioè quel qualcosa che rende vero l'enunciato (o la credenza) "p". Ed è la realtà quel qualcosa "al di fuori delle nostre parole" che rende vero "p", partendo dall'assunto preliminare secondo cui "la verità è ontologicamente fondata: impossibile parlare di verità senza ammettere l'esistenza di qualche realtà che renda vero quel che si dice essere vero".
Il realismo aletico è allora l'idea secondo cui dire di qualcosa che è vero è assumere l'esistenza di un modo in cui stanno le cose. Se "p" è vero, le cose stanno come dice p, e la non circolarità dell'assunto è data proprio dalla distinzione tra l'elemento linguistico (l'enunciato) e la realtà alla quale l'enunciato si riferisce. E, si badi bene, è la realtà a rendere vero l'enunciato, e non il contrario.
Riassumendo nelle parole della D'Agostini: "V (essere vero) è un predicato di enunciati dichiarativi, o proposizioni (o credenze), dunque non di fatti, né di oggetti o entità di vario tipo. [...] Assegniamo V a una proposizione o credenza quando le cose stanno così come la proposizione o credenza dice".
Secondo Franca D'Agostini (2011) una proposizione "p" (con p = "il treno passa alle otto", o qualsiasi altro assunto) è vera se le cose stanno così come "p" dice. Il concetto di "truthbearer" è il primo mattone da cui partire per indagare questa posizione.
Un truthbearer (portatore di verità) è quel qualcosa di cui si può dire "è vero" o "è falso". Cosa diciamo essere vera e falsa se non una credenza o un'opinione? E come, solitamente, esprimiamo tale credenza o opinione se non attraverso il linguaggio, attraverso enunciati? Ecco, la particolare forma di linguaggio per mezzo della quale esprimiamo un giudizio di verità, ci dice la D'Agostini citando Aristotele, è l'enunciato dichiarativo ("fuori piove", "il treno passa alle otto"), avente due proprietà: (1) essere significativo; (2) poter essere vero o falso. Attenzione però: non è tanto l'enunciato dichiarativo ad essere vero o falso, ma è il suo riferirsi alla realtà, al come stanno le cose, ad assegnargli la proprietà di verità o falsità. Per intenderci: non basta che io possa dire che qualcosa sia vero perché quel qualcosa lo sia effettivamente (se dico "è vero che fuori piove" quando fuori c'è il sole l'enunciato sarà, infatti, falso). Come spiega Paul Boghossian (2006), se valesse il contrario, cioè se bastasse dire che qualcosa è vero per renderlo tale, allora non ci potrebbero essere asserzioni false. Essere vero o falso non è una questione linguistica. Serve il concorso della realtà e il suo "accordo" con l'enunciato perché questo possa essere vero o falso, perché questo possa essere "portatore di verità".
Bisogna però capire che cosa si intenda con realtà, e per questo la D'Agostini introduce il concetto di "truthmaker", cioè quel qualcosa che rende vero l'enunciato (o la credenza) "p". Ed è la realtà quel qualcosa "al di fuori delle nostre parole" che rende vero "p", partendo dall'assunto preliminare secondo cui "la verità è ontologicamente fondata: impossibile parlare di verità senza ammettere l'esistenza di qualche realtà che renda vero quel che si dice essere vero".
Il realismo aletico è allora l'idea secondo cui dire di qualcosa che è vero è assumere l'esistenza di un modo in cui stanno le cose. Se "p" è vero, le cose stanno come dice p, e la non circolarità dell'assunto è data proprio dalla distinzione tra l'elemento linguistico (l'enunciato) e la realtà alla quale l'enunciato si riferisce. E, si badi bene, è la realtà a rendere vero l'enunciato, e non il contrario.
Riassumendo nelle parole della D'Agostini: "V (essere vero) è un predicato di enunciati dichiarativi, o proposizioni (o credenze), dunque non di fatti, né di oggetti o entità di vario tipo. [...] Assegniamo V a una proposizione o credenza quando le cose stanno così come la proposizione o credenza dice".
Esulando dalla questione di come sia fatto il mondo e di quali fatti si stia parlando, la posizione realista assume a livello preliminare che debba esistere un mondo fuori di noi come condizione per rendere vere le nostre proposizioni. Senza essere-realtà, ci dice la D'Agostini, non c'è verità. La realtà è quindi esterna e indipendente al soggetto che crede qualcosa su di essa: se non ci fossimo, la realtà continuerebbe a esserci. La verità riferita a una realtà indipendente, esterna, che c'è a prescindere dal fatto che noi la conosciamo, determina l'oggettività della verità. La verità è oggettiva proprio perché si riferisce a qualcosa che non dipende dalla nostra soggettiva conoscenza, dalle nostre credenze. Noi possiamo credere che qualcosa sia vero pur essendo in verità falso, come fa notare Boghossian. La possibilità appena menzionata traccia un solco tra credenza e conoscenza: posso credere che qualcosa sia vero, ma perché questa credenza sia conoscenza, non deve soltanto essere giustificata, ma anche vera.
Il punto, però, è che siccome non possiamo conoscere tutto quello che c'è, possiamo sbagliarci. Possiamo credere di avere ragione, credere di essere nel vero (pensare, cioè, le nostre credenze corrispondano a come le cose stanno), pur essendo nel torto. Possiamo scoprire, dunque, di non conoscere davvero le cose. Questo implica forse l'impossibilità di considerare degne le nostre conoscenze? No: per quanto sia data la possibilità di non arrivare mai a conoscere il dato oggettivo su cui si fonda la nostra conoscenza, questo non implica la rinuncia alla ricerca della verità, come suggerisce Boghossian, tramite la grande varietà di tecniche e metodi razionali di indagine. Questa ricerca comporta, poi, la possibilità che anche le conoscenze più fondate possano rivelarsi sbagliate, false, in virtù di nuove evidenze (per quanto non definitive) circa lo stato delle cose, che a loro volta potrebbero portarci a una migliore conoscenza. La possibilità di sbagliare è anche la condizione di un affinamento delle nostre conoscenze.
La possibilità di poterci sbagliare è inoltre, parallelamente, la possibilità che l'altro possa essere nel giusto, e dunque presuppone un atteggiamento non di chiusura nei confronti delle ragioni altrui, ma la disponibilità a un confronto critico sulla base di giustificazioni razionali, oggettivamente fondate, riguardanti le nostre credenze. Se così non fosse, se cioè le nostre credenze fossero soggettivamente fondate, nessuno avrebbe davvero ragione e nessuno torto: un confronto sarebbe impossibile, mancando una base oggettiva comune sulla quale verificare o falsificare le nostre credenze. È proprio il disaccordo, come dice Michael Lynch (2007), la base su cui si fonda la differenza tra avere ragione e avere torto: gli strumenti di verità e di falsità sono importanti proprio perché forniscono un discrimine per separare le credenze corrette da quelle scorrette sulla base delle evidenze disponibili.
La credenza vera, quindi, non è determinata dalla forza del parlante, non è dogmatica, non dipende dalla posizione sociale privilegiata di chi la asserisce. Non dipende dai nostri interessi e dai nostri desideri, parafrasando Michael Lynch. La credenza vera dipende invece da una realtà oggettiva che va indagata e che indebolisce le nostre pretese di sapere assoluto e gli irrigidimenti dogmatici. La verità non si impone con la forza, ma con le buone ragioni (che sono sempre fallibili, perché si possono pur sempre avere buone ragioni di credere qualcosa che è falso).
Rimane il fatto che a livello teorico avere ragione, essendo una proprietà legata alla verità dei nostri asserti a sua volta dipendente dall'accordo con il come stanno le cose (e valutando che c'è un modo solo, oggettivo e universale, in cui le cose stanno), implica che, se si sta parlando dei fatti stessi e non di altro, non ci possono essere contemporaneamente più ragioni reciprocamente escludenti (non possono darsi contemporaneamente "p" e "non-p"). In breve, due verità mutualmente esclusive su fatti fondamentali non possono coesistere, vista la validità del principio di non-contraddizione.
È interessante a questo punto accennare che molti disaccordi, come fa notare Annalisa Coliva (2009), sono solo disaccordi apparenti che dipendono da vari fattori (ad esempio l'uso di diversi sistemi concettuali, o punti di osservazione diversi, o ancora da standard di valutazione differenti). Due persone che dicono rispettivamente, e nello stesso momento, "ho freddo" e "ho caldo", non sono davvero in contraddizione, perché quello di cui stanno parlando non è tanto una proprietà fisica dell'ambiente, non è il mondo come è, quanto come questo appare dai loro rispettivi contesti di valutazione. In questo senso sì, ognuno ha ragione, ma non perché esistano due modi diversi in cui è fatto il mondo, quanto perché si pongono due standard valutativi diversi ("secondo me 1" e "secondo me 2"). Il mondo cioè, sembra differente a seconda dal punto di osservazione da cui lo si guarda, ma ciò non significa che la proprietà di una salita di essere una discesa se guardata dalla cima implichi una contraddizione.
L'avere ragione, nel caso pratico, è però una costante ricerca: la ricerca della verità, della fondatezza delle proprie credenze. Come dice la D'Agostini la verità, in questo senso, è "un'arma scettica", perché nasce dalla facoltà di dubitare di presunte verità date per sicure, fisse (la religione, l'ideologia, la verità del potente). Cercare di avere ragione, cercare la verità, è un processo problematizzante, e diventa rilevante, ci dice la D'Agostini, proprio quando c'è un dubbio, quando c'è incertezza. Si pensi, quindi, all'importanza della verità in un contesto democratico (in una dittatura, in un certo senso, la verità non serve: è vero quello che dice il dittatore): la ricerca della ragione sulla base di un confronto razionale, aperto, pubblico, è la precondizione perché la verità non si cristallizzi in una versione istituzionale, ma sia invece continuamente ispezionata, indagata. La verità presuppone la critica, proprio perché non c'è nessuna verità assoluta, definitiva, e proprio perché la verità non è soggettiva ma oggettiva (se così non fosse, come criticare le presunte verità dei gruppi di potere?). Riportare gli imperativi del potere al un qualche principio di realtà, o almeno tentare di farlo, indebolisce i dogmatismi e garantisce, in linea di massima, una maggiore giustizia sociale.
Avere ragione non è dunque un irrigidimento, ma un continuo tentativo di fondare le proprie credenze su giustificazioni razionali, togliendo terreno sotto i piedi a chi rivendica il monopolio della verità su basi soggettive, di potere, arbitrarie, o a chi concepisce il mondo come un insieme di mondi (o culture) non comunicanti. Avere ragione, parafrasando la D'Agostini, è sottoporre al giudizio critico dell'evidenza le pretese di verità (o le menzogne) del Potere, ponendo le basi per un confronto universale tra gli esseri umani, rifiutando un mondo a compartimenti stagni dove l'unica ragione capace di imporsi possa essere quella del più forte.
Bibliografia:
Franca D'Agostini - Introduzione alla Verità
Annalisa Coliva - I modi del relativismo
Michael P. Lynch - La verità e i suoi nemici
Paul A. Boghossian - Paura di conoscere. Contro il relativismo e il costruttivismo
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