#5 Dischi di maggio (con l'➑) ∞

Anche maggio non scappa dalla lista sui migliori dischi dei decenni passati. Questa volta si raggiungono il Brasile e la Polonia, accennando a due importanti scene musicali del secolo scorso. Come al solito, buon ascolto.

► 1968

gilberto gil 1968 album review tropicalia
Gilberto Gil - Gilberto Gil (Philips)

La coloratissima e ricchissima stagione tropicalista brasiliana di fine anni Sessanta vanta nomi da capogiro: Caetano Veloso, Gal Costa, Tom Zé, Os Mutantes e Gilberto Gil sono i protagonisti di uno dei più entusiasmanti movimenti culturali del Novecento. Libertà espressiva estrema, destinata a scontrarsi, per la sua irriducibilità a schemi ideologici precostituiti, sia con i giovani di sinistra (che vedevano nelle sonorità americane care agli artisti della scena un segno di corruzione morale e di inaccettabile frivolezza), sia con il regime di Da Costa e Silva, che vedeva nel gruppo di artisti tropicalisti una minaccia destabilizzante dell'ordine costituito, finendo col perseguitare alcuni degli esponenti più noti del movimento (Veloso e Gil  furono arrestati nel dicembre del '68, l'anno dopo volarono a Londra).

Caratteristica dello stile tropicàlia era l'ibridazione tra musica brasiliana (bossa nova) e nuovi suoni rock, dal beat alla psichedelia. Un vero e proprio processo di cannibalizzazione (secondo quanto prescritto dal Manifesto Antropofago di Oswald de Andrade e abbracciato da artisti come Hélio Oiticica) dei simboli culturali stranieri per una loro appropriazione "rimasticata" e ridigerita. In mezzo passava una creatività compositiva senza freni, capace di dar vita a brani contorti e riccamente arrangiati, anarchici e sperimentali, per un modernismo pop sgargiante e irriverente.

Gilberto Gil, dopo l'esordio "Louvação" del 1967 e la partecipazione nell'album-manifesto del collettivo ("Tropicàlia ou panis et circensis"), sforna uno dei più bei lavori di quella stagione. L'album omonimo del '68, musicato dagli Os Mutantes e arrangiato dall'istrionico Rogério Duprat, è uno sfarzoso manufatto pop di orchestrazioni barocche e bandistiche, come la prima "Frevo Rasgado", brioso susseguirsi su ritmica jazz di svolazzi di flauto e magniloquenti sezioni di fiati in stile big band, o le incontenibili "Marginália II" , continuo affastellarsi di motivi orchestrali enfatici, trionfali, e "Pega Voga Cabeludo", con quegli stranianti effetti vocali in eco memori del doo-wop, il guizzante solo rock di elettrica e un hand-clapping che sa tanto di tribalismo quanto di soul americano. Accanto al beat-bossa nova di "Domingou" troviamo la psichedelia di "Coragem Pra Suportar", la leggerezza beatlesiana di "Èle Falava Nisso Todo Dia", la sperimentazione collagistica di "Luzia Luluza" e la definitiva celebrazione di melting-pot tra stili brasiliani e occidentali di "Domingo No Parque".

Una delizia dai mille sapori, da conoscere assolutamente.

► 1978

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Cheap Trick - Heaven Tonight (Epic)

"Mommy's alright, daddy's alright, they just seem a little weird". Quale innocente atto d'accettazione della superiorità dei genitori, che in fondo sono più fighi dei figli, in una stagione di profondissimo conflitto generazionale. Mamma e papà sono dei tipi a posto, in fondo, sono solo strani.
"Surrender, surrender, but don't give yourself away". E allora ecco che l'accettazione si trasforma in rassegnazione: bisogna arrendersi, ma - unica possibilità di salvezza - non darlo a vedere, non ammettere la sconfitta. Il rock dei Cheap Trick è quindi un modo per mantenere le apparenze, un travestimento da ribelli che, in verità, hanno perso le speranze. Un modo per dimostrare ai propri genitori di avere le palle, di saper fare i giovani come si deve.

E l'album è una perfetta dimostrazione di questa appassionante dissimulazione, a tratti formalista a tratti viscerale, di ribellismo da giovane rocker gentile infarcito di hard rock muscolare e melodismi in bilico tra Beatles e Who. A un primo lato colmo di schegge rock'n'roll come "On The Top of The World", "California Man" e "Auf Wiedersehen", fa da contraltare una seconda metà che mischia le carte, passando in rassegna Aor ("Takin' Me Back"), armonie anni Sessanta ("On the Radio"), tributi beatlesiani ("Heaven Tonight" e la saltellante "How Are You?"), punk ammorbidito da pose glam alla Alice Cooper ("Stiff Competition").

Un album capace di essere camaleontico, di infiltrarsi tra i pori delle più disparate sensibilità pop, di mettere in campo significati culturali molteplici. Epocale, a suo modo.

► 1988

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Róże Europy - Stańcie przed lustrami (Polton)

Non facilissimo (tra il 1981 e il 1983 entrava in vigore la legge marziale) suonare musica alternativa nella Polonia degli anni Ottanta. Eppure, tra emittenti radio (in particolare Radio Trójka) e festival giovanili (celebre quello di Jarocin) le band locali potevano esprimersi e colmare le lacune derivanti dagli sparuti contatti con la scena internazionale, sviluppando un approccio creativo (sia a livello sonoro che per sfuggire alla censura di regime) che contraddistingueva una nutrita schiera di giovani musicisti polacchi. Band come Kryzys (poi Brygada Kryzys), Manaam, Republika, Klaus Mitffoch, Lady Pank, reinventavano così i suoni punk e new wave (nowa fala), sfoderando album che nulla avevano da invidiare rispetto ai prodotti occidentali, fatta eccezione per un eroismo che i musicisti alternativi dei regimi capitalisti mantenevano solo a livello simbolico. Formatisi nel 1983, i Róże Europy di Piotr Klatt possono essere fatti rientrare nella seconda fase del rock polacco ottantiano (assieme a Aya RL, Kult, Tilt, Siekiera, Papa Dance), e rappresentano quanto di meglio sfornato nel decennio.

"Mamy dla was kamienie" mette subito in chiaro il sound del gruppo: post-punk serrato ma spazioso, espanso, sonoramente ricco, capace di soluzioni armoniche interessantissime (qui, ad esempio, tra bassone accigliato e parti di chitarra frenetiche, fanno breccia i fiati sontuosi del finale, per una tavolozza alla Julian Cope/Teardrop Explodes). Vocazione new pop, rock alternativo, jangle: la successiva "Moda na scyzoryki" è un perfetto mélange di assertività post-punk e raffinatezza compositiva, mentre "Dzikie biustonosze" è un ottimo ibrido ska-wave. Sono molti gli elementi degni di nota: le sensazionali parti di chitarra della poderosa "Podróże z Europy do Europy", l'ambientazione ombrosa e noir di "List do Gertrudy Burgund" (colma di raffinatezze melodiche e compositive), le tessiture fittissime di chitarre, fiati, organetto in "Aleje Jerozolimskie '88".

Un album da scoprire assolutamente, assieme alla validissima scena polacca di quel decennio.
 
► 1998

Six By Seven - The Things We Make (Mantra Recordings)

Troppo classico (sentite un brano come "88-92-96" e ditemi che non ci sentite i Pink Floyd), seppure a suo modo, per dare nell'occhio in un 1998 saturo di elettronica, sperimentazione pop, nuove ipotesi di cantautorato rock (è l'anno di Air, Cat Power, Massive Attack, Boards of Canada, Elliott Smith, Neutral Milk Hotel, ma anche del nu metal come via privilegiata al rock duro). Eppure i Six By Seven aprono la strada per un rinnovamento della tradizione art rock (o progressive, se preferite) sfruttando la scia dello shoegaze e del post-rock, allargando gli spazi, applicando alla musica per chitarre lo stesso concetto della "texturology" elettronica: si lavora sulla grana, sullo spazio, sulla densità sonora.

Brani costruiti per accumulo, come la prima "A Beautiful Shape", rappresentano la prima faccia della medaglia, quella più atmosferica: flussi di droni, arrangiamenti ripetitivi ma continuamente modulati in inesorabili crescendo, per una psichedelia impattante ed estatica, capace di tingersi di tonalità garage e kraut, finanche Canterbury ("Spy Song", tra ritmica motorik, inserti di sax alla Gong, feedback fluttuanti e chitarre ripetitive), mentre "Something Wild" ripropone il suono infuocato dei migliori Loop.

L'altra faccia è rappresentata da pezzi come "European Me", ma soprattutto "Candlelight" e "For You", che abbracciano modi più propriamente pop agganciandosi alla tradizione baggy, indie e post-punk, andando così a creare modelli che in futuro saranno scandagliati e riproposti (penso ai British Sea Power e a tutto il revival shoegaze di fine anni zero).

Un lavoro da riscoprire per capire una bella fetta di rock contemporaneo.

► 2008

the black angels 2008 album review
The Black Angels - Directions to See a Ghost (Light in The Attic)

Revivalisti puri, i texani Black Angels: il loro è un suono che guarda al passato, agli anni Sessanta dei 13th Floor Elevators, attualizzati nel migliore dei casi al Paisley anni Ottanta. Eppure le spire soniche del loro secondo album riescono a dare credibilità all'operazione: un lavoro vibrante, aggressivo, conturbante, immerso in continui effetti vibrato, in chitarre fuzzose e espanse, o impegnate in sinuosi arabeschi, mentre la ritmica è quasi sempre un ossessivo groove dal sapore tribale.

Trame serrate e dark, fitte di distorsioni, sonagli, voci filtrate e febbrili ("You On the Run", "Science Killer", "You In Color"), esperimenti sonici a metà tra la neo-psichedelia degli Spacemen 3 e il garage più estremo ("Mission District", "Never/Ever"), incursioni di sitar ("Deer-Ree-Shee") e shoegaze alla Brian Jonestown Massacre rendono l'ascolto avventuroso e vario.

Non un capolavoro ma una piccola gemma ben rappresentativa del revival psichedelico di fine anni zero.
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