Anche questo mese sono riuscito a stare dietro alle uscite che hanno caratterizzato nel migliore dei modi i decenni passati. Questa volta ci sono alcuni temi trasversali (del tutto casuali) tra i vari album proposti: la tecnologia come mezzo per esprimere al meglio le sensazioni umane (oppure per fare di uomo e macchina una cosa sola), la malinconia come chiave di lettura del suono moderno, l'uso del passato e la rievocazione dell'infanzia/adolescenza come mezzi per conquistare i sentimenti contemporanei.
Uno, due, tre: premete play.
Uno, due, tre: premete play.
► 1968
The Zombies - Odessey and Oracle (CBS)
Dal 1965 al 1968 il cambiamento fu epocale. Gli Zombies, da esponenti della scena rhythm and blues britannica (assieme a Yardbirds, Them, Kinks, Rolling Stones, Pretty Things) abbracciarono con grande naturalezza i rapidi cambiamenti che anno dopo anno rivoltavano come un calzino la multiforme scena pop, dando vita così ad un terzo album che apriva le braccia a un suono psichedelico gentile, barocco, progressivo (di cui pur si trovava traccia nella fase precedente). E ancora una volta lo scambio di idee da un lato all'altro dell'Atlantico si rivelava nella sua trasversalità: prima le sonorità blues adottate dagli inglesi (interessante la testimonianza di Joe Boyd nel suo "White Bicycles" sui primi anni sessanta inglesi: "they knew who John Lee Hooker was! No white person in America in 1964 knew who John Lee Hooker was"), poi gli stessi inglesi con le loro band rhythm and blues capaci di catturare il consenso degli americani, poi gli americani intenti a ingentilire di sonorità europee il beat (si prendano i Left Banke), e infine il suono alternativo statunitense far breccia nei cuori del vecchio continente.
Nel 1968 un disco come "Odessey and Oracle" era, dunque, pienamente contemporaneo. Peccato che l'album uscì fuori tempo massimo per la band, che al momento della pubblicazione si era già sciolta a causa degli scarsi risultati commerciali. Primo lavoro non EMI ad essere registrato presso gli studi di Abbey Road dove da poco erano passati i Beatles per il loro "Sgt. Pepper", il lavoro degli Zombies è ben descritto dalle parole del tastierista Rod Argent "We were kids in a sweetshop". Una raccolta di brani delicatamente sperimentali, gonfi di preziosismi barocchi e delicatezze vocali, tra strati e strati di mellotron. Tutto dolcissimo.
Ai Beach Boys di "Pet Sounds", così presenti nelle armonizzazioni vocali di "Care of Cell 44", saltellante tra rintocchi di piano, bassi tondi e gommosi, continui crescendo corali, si alternano i Beatles in "Maybe After He's Gone", ma l'approccio della band di Colin Blunstone è del tutto personale, non riducibile ai grandi nomi della scena di allora. Ogni composizione sprizza solarità e fascino, dalla suadente "Beechwood Park", lentamente sviluppata in spire di organo e chitarra liquida, alla psichedelia leggera di "Time of The Season", scandita da un basso circolare e macchiata da spruzzate di organetto (lanciato poi in un iconico solo), con quel coretto inconclusivo che si perde nello spazio, trovando in ballate del calibro di "A Rose for Emily" e raffinatissime gemme melodiche come "Brief Candles" e "Hung Up On a Dream" validi contrafforti per una struttura sonora rigogliosa e ricca, tra le piccole meraviglie del '68 britannico.
Ai Beach Boys di "Pet Sounds", così presenti nelle armonizzazioni vocali di "Care of Cell 44", saltellante tra rintocchi di piano, bassi tondi e gommosi, continui crescendo corali, si alternano i Beatles in "Maybe After He's Gone", ma l'approccio della band di Colin Blunstone è del tutto personale, non riducibile ai grandi nomi della scena di allora. Ogni composizione sprizza solarità e fascino, dalla suadente "Beechwood Park", lentamente sviluppata in spire di organo e chitarra liquida, alla psichedelia leggera di "Time of The Season", scandita da un basso circolare e macchiata da spruzzate di organetto (lanciato poi in un iconico solo), con quel coretto inconclusivo che si perde nello spazio, trovando in ballate del calibro di "A Rose for Emily" e raffinatissime gemme melodiche come "Brief Candles" e "Hung Up On a Dream" validi contrafforti per una struttura sonora rigogliosa e ricca, tra le piccole meraviglie del '68 britannico.
► 1978
Se "Autobahn" conservava ancora, liminalmente, un'anima (derivata dalle correnti cosmiche della musica tedesca anni Settanta), "Die Mensch-Maschine" è pura messa in moto di congegni sintetici, di cerebralità robotica, di automatismo futurista, di vocalità radicalmente neutralizzata dal vocoder. I quattro musicisti si pongono al servizio delle macchine, sono automi, si vestono come cloni, rispecchiando esteticamente il modello dell'impiegato-massa (ma anche di un certo costruttivismo sovietico), impegnato alla ripetizione di gesti tecnici, funzionali. Che da quella sperimentazione potessero germinare i più passionali esperimenti pop dell'immediato futuro (dal synthpop alla techno) non so quanti ci avrebbero scommesso (anche se a dire il vero uno come David Bowie colse subito la palla al balzo).
Rispetto al precedente "Trans-Europe Express", il lavoro del 1978 si spoglia quasi del tutto di ogni componente romantico-ambientale per ridurre il discorso al succo, ad un minimalismo pulsante e austero. La voce innanzitutto: quando non filtrata attraverso un pesante vocoder, il tono e la dizione sono monosillabici, privi di qualsivoglia modulazione, come nella prima "Die Roboter", ode alla meccanizzazione di ogni funzione vitale ("Jetzt wollen wir tanzen mechanik / Now we want to dance mechanics" recitano Hütter e Schneider, trasformando, nella versione inglese, quel residuale intento volontaristico in un più performativo "we are dancing mechanic"), mentre la strumentazione elettronica è perlopiù a vocazione ritmico/timbrica (l'arpeggio del synth accoppiato alla drum machine di "Spacelab", sottilmente irraggiati da note ascendenti e da un generale mood oscuramente futuristico).
E così tra le vedute utopiche di "Metropolis", la gelida "Das Modell" (che ben esprime quel romantico realismo di cui parla Bob Stanley riferendosi alla band di Düsseldorf) e l'irraggiante minimalismo di "Neonlicht", abbiamo tutti gli ingredienti per una delle grandi rivoluzioni della musica pop contemporanea: molti avrebbero accolto la via elettronica dei Kraftwerk, dando vita a un rimescolamento profondissimo delle correnti musicali che il punk era riuscito solo a scuotere superficialmente.
Danke, danke, danke!
► 1988
La scena indipendente anni Ottanta inglese era così: scanzonata, rumorosa, infantile e canzonatoria, domestica e intimista. Pop dinoccolato che riscopriva una forma canzone semplificata, filastroccosa, dove le chitarre ondeggiavano tra rievocazioni sixties (un jangle alla Byrds) e rumorismo moderno (i Jesus and Mary Chain), mentre le liriche erano a metà tra girl group, Ramones e filastrocche infantili. Uno stile che la rivista NME contribuì a formalizzare con la storica cassetta C86, che riuniva le nuove band indie della scena britannica (tra le etichette più importanti la Creation, la Sarah, la Cherry Red).
La prima "Crash", singolone capace di raggiungere ottime posizioni nelle classifiche britanniche e statunitensi, ha già le proprietà di un manifesto: surf rock spigliato e luccicante, semplice e orecchiabile, eppure disturbato da uno strato rumoroso di chitarre distorte. Si continua con "Spacehead", che interpreta i Ramones in salsa Jesus and Mary Chain, "Shadow", psichedelica e orientaleggiante, con quella traccia di sitar e gli effetti sonori in reverse alla Beatles, "Thru The Flowers", filastrocca di chitarre iper fuzzose, il dream pop etereo di "Ocean Blue", più una sfilza di melodie zuccherine e orecchiabili ("I'll Stick With You", "Out of Reach", "Don't Want Anything to Change").
Trentasei minuti di durata, il disco non sarà un capolavoro ma scorre liscio come l'olio, ben rappresentando le qualità tipiche del pop indipendente di allora. Sicuramente da conoscere.
► 1998
Ascoltandolo oggi, e ascoltandolo dopo aver letto il parere di Simon Reynolds, non riesco a non trovare una certa affinità tra questo "Music Has the Right to Children" e uno dei capolavori della scena glo-fi, il bellissimo "Seek Magic" di Memory Tapes, uscito a undici anni di distanza. Synth fluttuanti, nostalgia evocata in ogni dove ("I think a lot of it is trying to capture a nostalgic feeling buried somewhere in our minds. We are nostalgic people trying to get back moments from our pasts" diceva Marcus Eoin a Jockey Slut), suoni filtrati come se provenissero da un passato che ognuno conserva in qualche angolo recondito della coscienza, pronto a far capolino alla prima adeguata madeleine, sprazzi di memoria trasposta in forma di suoni.
Tra i capolavori della musica elettronica anno Novanta, il celebre lavoro della coppia scozzese è un viaggio nel passato anzitutto per gli stessi Sandison e Eoin, che ripropongono in scaletta produzioni risalenti agli anni precedenti. Ma non solo: si respira aria di nostalgia un po' ovunque, dai frammenti estetici che spaziano dall'hip-hop (presentissimo tanto nelle ritmiche quanto in una sampledelia di genere, si pensi allo scratch nella prima "An Eagle in Your Mind", oppure al campione degli Earth,Wind & Fire in "Sixtyten", immersi in una drum and bass ambientale, rarefatta) alla musica industriale (i patterns sibilanti di "Telephasic Workshop", caleidoscopizzata in un fitto collage di sillabare spezzettato, l'intelaiatura ritmica regolare della melodiosa "Roygbiv", i generali rimandi agli Autechre), ai rimandi all'età infantile (la voce distorta di un bambino nella breve ed estatica "The Color of The Fire", con quei tocchi di synth a riecheggiare un carillon, i campionamenti dal programma per bambini "Sesame Street" in "Aquarius"), per non parlare dell'aspetto hippie notato da molti commentatori dell'epoca.
L'intento è chiaro e autodichiarato: stimolare emozioni, giocare con il potere evocativo della musica. La melodia, l'armonia, l'abbandono, "strong emotional memories": c'è tutto questo in brani ad alto potenziale evocativo come "Turquoise Hexagon Sun", mollemente adagiato su risonanti accordi di synth che fanno trapelare voci, frammenti di dialoghi apparentemente usciti da videoregistrazioni private, gridolini, risa, (elementi poi ripresi da un altro grande cultore della rievocazione malinconica quale il Baths di "Cerulean"), o nel loop psichedelico di "Rue the Whirl", sorta di Dj Shadow in versione pastoral-ambientale.
Si parlava dei Memory Tapes, poco fa. Ecco, Dayve Hawke non ha fatto che formalizzare (in chiave contemporanea) quanto professato -in forma più che compiuta- dieci anni prima dai Boards of Canada.
Lunga vita alla malinconia.
►2008
M83 - Saturdays = Youth (Mute)
A proposito di malinconia, gli M83 non potevano mancare all'appello. "Saturdays = Youth", dopo le bizzarrie sperimentali precedenti, è una totale consacrazione a un pop lucido, epico e evocativo, copia estetizzante di una certa idea di musica anni Ottanta, idea che finisce col sostituirsi ai ricordi autentici (originali o derivati) del sound chiamato in causa. È questo, forse, l'effetto più interessante dell'operazione retromaniaca di Anthony Gonzalez, cioè quello di plasmare i ricordi passati sulla base di modelli in tutto e per tutto contemporanei. "I think for me there are two tributes in this album: one tribute to ‘80s music and one tribute to being a teenager. I was a teenager in the ‘90s, but I also loved the pop music and movies from the ‘80s, so I just tried to mix these things on the album", racconta Anthony Gonzalez, rivelando - forse senza troppa consapevolezza - come il suo tributo agli anni Ottanta non sia che un tributo alla sua esperienza adolescenziale, quindi colma di derivazioni e idealizzazioni.
La maggiore vocazione pop si nota già nella splendida intro di "You, Appearing", che recupera le atmosfere espanse e nebulizzate degli episodi precedenti (impegnate in un crescendo mozzafiato) ma mette in primo piano un limpido accordo di pianoforte, un vero e proprio manifesto d'intenti (assieme alla successiva, mesmerizzante, "Too Late"). E infatti la successiva "Kim & Jessie", forte di un'apertura infuocata, erige un monumento synthpop agghindato di droni shoegaze al servizio di continue elevazioni verticali, di roboanti espansioni emozionali, tanto da far pensare alla perfetta colonna sonora per qualsiasi film ipotetico sugli Eighties.
Ogni brano è intriso di un'emotività pensata per non fare prigionieri: "Skin of the Night" procede tra gli intarsi traslucidi di una chitarra elettrica, per un dream pop dalle tessiture ricchissime, stordenti (i synth che si inseriscono trasversali per poi gonfiarsi, tremoli, i vocalizzi soffusi, le chitarre che dilatano gli spazi, la struttura ritmica funzionale a un continuo sussulto, quella coda strumentale fenomenale, addensata all'infinito), "Graveyard Girl" tinge i New Order di una squisita spigliatezza indie-pop, "Up!" eguaglia, grazie ai vocalizzi di Morgan Kibby, la grazia dei migliori Cocteau Twins, o di una Kate Bush, mentre "Dark Moves of Love" riscrive un'epica pop tesa a un incessante crescendo.
Assieme a epopee electro come "Couleurs" e elegie soffuse come l'ultima "Midnight Souls Still Remain", "Saturday = Youth" è uno dei punti più alti raggiunti dal tentativo di ibridazione tra musica anni Ottanta (filtrata, ripensata, ridigerita) e tutto ciò che è venuto dopo (dal rock alternativo allo shoegaze, dall'acid house al post-rock).
A proposito di malinconia, gli M83 non potevano mancare all'appello. "Saturdays = Youth", dopo le bizzarrie sperimentali precedenti, è una totale consacrazione a un pop lucido, epico e evocativo, copia estetizzante di una certa idea di musica anni Ottanta, idea che finisce col sostituirsi ai ricordi autentici (originali o derivati) del sound chiamato in causa. È questo, forse, l'effetto più interessante dell'operazione retromaniaca di Anthony Gonzalez, cioè quello di plasmare i ricordi passati sulla base di modelli in tutto e per tutto contemporanei. "I think for me there are two tributes in this album: one tribute to ‘80s music and one tribute to being a teenager. I was a teenager in the ‘90s, but I also loved the pop music and movies from the ‘80s, so I just tried to mix these things on the album", racconta Anthony Gonzalez, rivelando - forse senza troppa consapevolezza - come il suo tributo agli anni Ottanta non sia che un tributo alla sua esperienza adolescenziale, quindi colma di derivazioni e idealizzazioni.
La maggiore vocazione pop si nota già nella splendida intro di "You, Appearing", che recupera le atmosfere espanse e nebulizzate degli episodi precedenti (impegnate in un crescendo mozzafiato) ma mette in primo piano un limpido accordo di pianoforte, un vero e proprio manifesto d'intenti (assieme alla successiva, mesmerizzante, "Too Late"). E infatti la successiva "Kim & Jessie", forte di un'apertura infuocata, erige un monumento synthpop agghindato di droni shoegaze al servizio di continue elevazioni verticali, di roboanti espansioni emozionali, tanto da far pensare alla perfetta colonna sonora per qualsiasi film ipotetico sugli Eighties.
Ogni brano è intriso di un'emotività pensata per non fare prigionieri: "Skin of the Night" procede tra gli intarsi traslucidi di una chitarra elettrica, per un dream pop dalle tessiture ricchissime, stordenti (i synth che si inseriscono trasversali per poi gonfiarsi, tremoli, i vocalizzi soffusi, le chitarre che dilatano gli spazi, la struttura ritmica funzionale a un continuo sussulto, quella coda strumentale fenomenale, addensata all'infinito), "Graveyard Girl" tinge i New Order di una squisita spigliatezza indie-pop, "Up!" eguaglia, grazie ai vocalizzi di Morgan Kibby, la grazia dei migliori Cocteau Twins, o di una Kate Bush, mentre "Dark Moves of Love" riscrive un'epica pop tesa a un incessante crescendo.
Assieme a epopee electro come "Couleurs" e elegie soffuse come l'ultima "Midnight Souls Still Remain", "Saturday = Youth" è uno dei punti più alti raggiunti dal tentativo di ibridazione tra musica anni Ottanta (filtrata, ripensata, ridigerita) e tutto ciò che è venuto dopo (dal rock alternativo allo shoegaze, dall'acid house al post-rock).
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