Tre paesi, tre band, lo stesso nome, lo stesso spirito. I Kaleidoscope, richiamandosi al giocattolo simbolo dell'iconografia psichedelica (il caleidoscopio, capace di mutare la percezione visiva grazie a un congegno tanto rudimentale quando affascinante), sono l'esempio di come la fine degli anni Sessanta sia stata segnata da una comune predisposizione ricettiva, quella di una generazione pronta a marcare il proprio specifico passaggio esistenziale con linguaggi nuovi, avventurosi, caparbi, simbolicamente appariscenti e sfrontati. In un gioco di imitazione e differenziazione la controcultura psichedelica riusciva a imporsi tanto negli Stati Uniti che in Europa, tanto in America Latina che in Giappone, trovando un terreno straordinariamente fertile, preparato da una scena pop capace di una pervasività globale.
Regno Unito, Stati Uniti, Ibero-America: in questi paesi, seppur con differenti gradi di intensità e differenti caratterizzazioni, tra il '66 e il '69 esplosero band che macchiavano il garage e il beat di cromatismi esagerati, di divagazioni strumentali freeform, di fascinazioni orientali e di una seducente componente mistica che dava vita a composizioni sgargianti, sfrenate e stordenti.
La prima delle band che scelse Kaleidoscope come moniker fu quella del losangelino David Lindley, che assieme a Solomon Feldthouse, Chris Darrow, Chester Crill e John Vidican formò il gruppo nel 1966, anno cruciale per il rock psichedelico americano (in particolare per quello di Los Angeles: si pensi agli esordi di Love, Seeds, Music Machine, West Coast Pop Art, o alle prime esibizioni dei Doors).
Il primo album, "Side Trips", mette in luce la passione dei musicisti per un linguaggio folk che, nonostante solide basi puriste (la strumentazione, tra violini, banjo, bouzouki, armonica e molto altro passa in rassegna tutta la vena profonda del folk americano) tiene alta la bandiera del superamento modernista dei linguaggi old-time. In questo senso è come avere a che fare non solo con una versione rock degli Holy Modal Rounders, ma anche con una loro ibridazione mondialista (la prima "Egyptian Garden", ad esempio, è intrisa di umori mediorientali).
È col successivo "A Beacon From Mars", però, che i Kaleidoscope danno alle stampe il loro vero capolavoro. È qui, infatti, che le varie componenti del sound vengono legate da un robusto collante: che siano le influenze irlandesi e scozzesi ("Greenwood Sidee") o le jam mediorientali (la stupenda "Taxim"), il secondo disco della band suona coeso, potente, ricco tanto nell'arrangiamento quanto negli andamenti melodici dei brani. L'intro "I Found Out" parla chiaro: sostenuto da un solidissimo reticolo ritmico e agghindato dagli intarsi della dobro di Pete Madlem, il brano non rinuncia alle matrici folk e string band, ma le inserisce in una spazialità aumentata sia dalle gonfie parti di organetto che da una gestione del suono dilatata e vaporosa. Tra un jangle (con tanto di mandolino) alla Byrds ("Life Will Pass You By"), un Cajun ("Louisiana Man") e un blues elettrico ("You Don't Love Me"), si passa attraverso l'estasi di "Taxim", lungo rincorrersi delle corde di Baglama e Oud ispirato alla tradizione ottomana, e si finisce nelle spire e nelle distorsioni jazz-rock psichedeliche di "Beacon From Mars".
Un canovaccio notevole, capace di passare in rassegna, unificandoli sotto una medesima impostazione modernista e rock, le varie anime della tradizione folk americana, rappresentando uno degli album più in bilico tra interesse etnomusicologico e sperimentazione pop giovanile dell'epoca.
Più barocca e arty, la band inglese aderisce perfettamente allo spirito della Swinging London e dei club psichedelici come l'UFO, dove la musica diventava esperienza totale, offrendo la possibilità agli artisti "post-beat" di sperimentare nuove forme espressive, tutte votate alla maggiore definizione del sound, tra giochi di amplificazione e distorsione, e a un comune impegno a colorare il più possibile brani corali, connotati da arrangiamenti stranianti, da un fluire imprevedibile e giocoso, da un mood influenzato da ideologie comunitarie e edonistiche, dalle droghe e da vaghe fascinazioni orientali.
Tra armonizzazioni vocali e accordi riverberati di chitarra, il gruppo di Peter Daltrey mette in scena, nel suo primo "Tangerine Dream", un baroque pop raffinato e sognante, che alterna ballate folk tenui e favolistiche ("Please Excuse My Face") a brani in technicolor spinto, dalla splendida "Dive Into Yesterday", con gli accordi di chitarra che si perdono in rarefazioni cosmiche (in un fitto coacervo di effetti stereofonici), alla bombastica "Flight From Ashiya", passando per dolciastre filastrocche psichedeliche ("Mr Small, The Watch Repairer Man") e grezzi brani garage-beach ("Holiday Maker").
Vicini ai primi Pink Floyd, i londinesi Kaleidoscope condividono con la celebre band la stessa creatività sonora: grazie al lavoro del produttore Dick Leahy, i brani diventano piccoli universi sonori di espansioni, riverberi, giochi tra canali stereo, mentre le composizioni conservano una giocosità e un dinamismo senza freni, nell'unione tra melodie accattivanti e sperimentazioni hip. In breve, quanto di meglio il 1967 britannico possa offrire.
Il fatto che la scena psichedelica si sia diffusa in tutto il mondo è segno di quanto forte sia stata la pervasività del linguaggio sviluppato dalle band britanniche e americane. L'America Latina non fa eccezione alla diffusione del nuovo stile giovanile: dal tropicalismo brasiliano al movimento messicano dei jipitecas e La Onda, il rock è destinato a coinvolgere le più disparate comunità nazionali, ibridandosi con i vari stili locali, incamerando rivendicazioni e un generale bisogno di emancipazione, facendosi catalizzatore di interessantissime forme di appropriazione culturale.
Il primo album dei Kaleidoscope è da considerarsi una delle gemme nascoste della controcultura ibero-americana di fine anni Sessanta: di origini portoricane, la band registra l'album nella Repubblica Dominicana, finendo col pubblicarlo per l'etichetta messicana Orfeon, che stampa il disco in appena 500 copie.
Il risultato è un garage rock fortemente influenzato dai colleghi americani (Seeds, Chocolate Watchband, Remains, Blues Magoos, 13th Floor Elevators, Count Five), caratterizzato dalla voce sguaiata di Francisco Tirado, dalla ritmica battente di Rafi Cruz e da un organetto (Julio Arturo Fernández) che tinge l'ordito armonico di dense nuances psichedeliche. Il viaggio è gustoso: ci sono le chitarre fuzzose (Orly Vázquez, Pedrín García) di "P.S. Come Back" e "Colours", c'è il blues saltellante di "A Hole in My Life", il pathos oscuro di "Let Me Try", le espansioni strumentali in aria di progressive di "Once Upon a Time There Was a World" e il tiro garage della coloratissima "A New Man".
I Kaleidoscope, in fondo, non fanno altro che interpretare le sonorità prese in prestito da oltre confine, ma l'appropriazione è totale: i suoni vivono di un'energia unica, di un'irresistibile frenesia, come se non si stesse aspettando altro che lo spunto iniziale per far partire una libera e fantasiosa interpretazione.
Regno Unito, Stati Uniti, Ibero-America: in questi paesi, seppur con differenti gradi di intensità e differenti caratterizzazioni, tra il '66 e il '69 esplosero band che macchiavano il garage e il beat di cromatismi esagerati, di divagazioni strumentali freeform, di fascinazioni orientali e di una seducente componente mistica che dava vita a composizioni sgargianti, sfrenate e stordenti.
I. Kaleidoscope
La prima delle band che scelse Kaleidoscope come moniker fu quella del losangelino David Lindley, che assieme a Solomon Feldthouse, Chris Darrow, Chester Crill e John Vidican formò il gruppo nel 1966, anno cruciale per il rock psichedelico americano (in particolare per quello di Los Angeles: si pensi agli esordi di Love, Seeds, Music Machine, West Coast Pop Art, o alle prime esibizioni dei Doors).
Il primo album, "Side Trips", mette in luce la passione dei musicisti per un linguaggio folk che, nonostante solide basi puriste (la strumentazione, tra violini, banjo, bouzouki, armonica e molto altro passa in rassegna tutta la vena profonda del folk americano) tiene alta la bandiera del superamento modernista dei linguaggi old-time. In questo senso è come avere a che fare non solo con una versione rock degli Holy Modal Rounders, ma anche con una loro ibridazione mondialista (la prima "Egyptian Garden", ad esempio, è intrisa di umori mediorientali).
È col successivo "A Beacon From Mars", però, che i Kaleidoscope danno alle stampe il loro vero capolavoro. È qui, infatti, che le varie componenti del sound vengono legate da un robusto collante: che siano le influenze irlandesi e scozzesi ("Greenwood Sidee") o le jam mediorientali (la stupenda "Taxim"), il secondo disco della band suona coeso, potente, ricco tanto nell'arrangiamento quanto negli andamenti melodici dei brani. L'intro "I Found Out" parla chiaro: sostenuto da un solidissimo reticolo ritmico e agghindato dagli intarsi della dobro di Pete Madlem, il brano non rinuncia alle matrici folk e string band, ma le inserisce in una spazialità aumentata sia dalle gonfie parti di organetto che da una gestione del suono dilatata e vaporosa. Tra un jangle (con tanto di mandolino) alla Byrds ("Life Will Pass You By"), un Cajun ("Louisiana Man") e un blues elettrico ("You Don't Love Me"), si passa attraverso l'estasi di "Taxim", lungo rincorrersi delle corde di Baglama e Oud ispirato alla tradizione ottomana, e si finisce nelle spire e nelle distorsioni jazz-rock psichedeliche di "Beacon From Mars".
Un canovaccio notevole, capace di passare in rassegna, unificandoli sotto una medesima impostazione modernista e rock, le varie anime della tradizione folk americana, rappresentando uno degli album più in bilico tra interesse etnomusicologico e sperimentazione pop giovanile dell'epoca.
II. Kaleidoscope
Più barocca e arty, la band inglese aderisce perfettamente allo spirito della Swinging London e dei club psichedelici come l'UFO, dove la musica diventava esperienza totale, offrendo la possibilità agli artisti "post-beat" di sperimentare nuove forme espressive, tutte votate alla maggiore definizione del sound, tra giochi di amplificazione e distorsione, e a un comune impegno a colorare il più possibile brani corali, connotati da arrangiamenti stranianti, da un fluire imprevedibile e giocoso, da un mood influenzato da ideologie comunitarie e edonistiche, dalle droghe e da vaghe fascinazioni orientali.
Tra armonizzazioni vocali e accordi riverberati di chitarra, il gruppo di Peter Daltrey mette in scena, nel suo primo "Tangerine Dream", un baroque pop raffinato e sognante, che alterna ballate folk tenui e favolistiche ("Please Excuse My Face") a brani in technicolor spinto, dalla splendida "Dive Into Yesterday", con gli accordi di chitarra che si perdono in rarefazioni cosmiche (in un fitto coacervo di effetti stereofonici), alla bombastica "Flight From Ashiya", passando per dolciastre filastrocche psichedeliche ("Mr Small, The Watch Repairer Man") e grezzi brani garage-beach ("Holiday Maker").
Vicini ai primi Pink Floyd, i londinesi Kaleidoscope condividono con la celebre band la stessa creatività sonora: grazie al lavoro del produttore Dick Leahy, i brani diventano piccoli universi sonori di espansioni, riverberi, giochi tra canali stereo, mentre le composizioni conservano una giocosità e un dinamismo senza freni, nell'unione tra melodie accattivanti e sperimentazioni hip. In breve, quanto di meglio il 1967 britannico possa offrire.
III. Kaleidoscope
Il fatto che la scena psichedelica si sia diffusa in tutto il mondo è segno di quanto forte sia stata la pervasività del linguaggio sviluppato dalle band britanniche e americane. L'America Latina non fa eccezione alla diffusione del nuovo stile giovanile: dal tropicalismo brasiliano al movimento messicano dei jipitecas e La Onda, il rock è destinato a coinvolgere le più disparate comunità nazionali, ibridandosi con i vari stili locali, incamerando rivendicazioni e un generale bisogno di emancipazione, facendosi catalizzatore di interessantissime forme di appropriazione culturale.
Il primo album dei Kaleidoscope è da considerarsi una delle gemme nascoste della controcultura ibero-americana di fine anni Sessanta: di origini portoricane, la band registra l'album nella Repubblica Dominicana, finendo col pubblicarlo per l'etichetta messicana Orfeon, che stampa il disco in appena 500 copie.
Il risultato è un garage rock fortemente influenzato dai colleghi americani (Seeds, Chocolate Watchband, Remains, Blues Magoos, 13th Floor Elevators, Count Five), caratterizzato dalla voce sguaiata di Francisco Tirado, dalla ritmica battente di Rafi Cruz e da un organetto (Julio Arturo Fernández) che tinge l'ordito armonico di dense nuances psichedeliche. Il viaggio è gustoso: ci sono le chitarre fuzzose (Orly Vázquez, Pedrín García) di "P.S. Come Back" e "Colours", c'è il blues saltellante di "A Hole in My Life", il pathos oscuro di "Let Me Try", le espansioni strumentali in aria di progressive di "Once Upon a Time There Was a World" e il tiro garage della coloratissima "A New Man".
I Kaleidoscope, in fondo, non fanno altro che interpretare le sonorità prese in prestito da oltre confine, ma l'appropriazione è totale: i suoni vivono di un'energia unica, di un'irresistibile frenesia, come se non si stesse aspettando altro che lo spunto iniziale per far partire una libera e fantasiosa interpretazione.
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