Ed ecco il secondo capitolo di quello che sarà il tentativo mensile di proporre (o riscoprire) i migliori album degli ultimi cinquant'anni, tutti accomunati dall'essere stati pubblicati negli anni che finiscono con l'8.
► 1968
Tomorrow - Tomorrow (Parlophone)
Tra i protagonisti della stagione psichedelica londinese, i Tomorrow hanno avuto la sfortuna di far uscire il loro album troppo tardi: nel febbraio del 1968 molte cose erano già successe, molti suoni già digeriti. Certo, la band di Keith West, Steve Howe (futuro chitarrista degli Yes), John Alder "Twink" e John Wood non aveva passato il '67 con le mani in mano, rappresentando anzi una delle realtà chiave di quella stagione.
Ritardo o non ritardo, il disco omonimo del gruppo rimane una deliziosa e sgargiante raccolta di brani caleidoscopici, capaci di mescolare prorompenza garage, soluzioni sonore avanguardistiche e una squisita freschezza melodica di stampo baroque-pop.
La "White Bicycle" del pezzo introduttivo, innanzitutto: un manifesto d'intenti che si dispiega in un contesto sonico mutante e stordente, fatto di una meccanica ritmica incessante, di strati di chitarre in tape reverse, solo orientaleggianti, basso pulsante. Non da meno "Real Life Permanent Dream", che anzi rappresenta il capolavoro dell'album: viaggio intenso e coloratissimo, un infittirsi armonico a base di sitar e accelerazioni repentine, arrestate solo da un ritornello sospeso ed etereo. Un pezzo modernissimo, le cui pulsazioni e il cui senso del ritmo sono già in modalità rave.
Tra una bellissima e anarchica "Revolution" e una giocosa e plastica "Three Jolly Litle Dwarfs" (così piacevolmente barrettiana), il disco rappresenta un gustosissimo gioiellino di avventurismo e innovazione pop. Da conoscere a tutti i costi.
Tratto da Storiadellamusica.it
Tratto da Storiadellamusica.it
► 1978
The Adverts - Crossing the Red Sea With The Adverts (Bright)
Registrato da un veterano come John Leckie agli Abbey Road Studios, il primo lavoro degli Adverts rappresenta uno dei traguardi della stagione di fine anni Settanta, traghettando il punk (qui portato ai massimi livelli espressivi) verso le esigenze della nascente corrente post-punk.
Il suono - seppur tiratissimo - è affettato, intelligente e sottile, colmo di inusuali tinte dark e di un avanzato gusto noise, capace di spingersi oltre gli angusti confini del punk tout court (T.V. Smith, ad esempio, era un estimatore di Sparks e Cockney Rebel).
Basti la splendida “On the Roof” per rendersi conto della marcia in più: un incedere lento e spettrale che conduce al riff affilatissimo del chitarrista Howard Boak “Pickup”, per poi esplodere in un anthem al fulmicotone destinato a rannicchiarsi nuovamente nella strofa rallentata e dolente. La meraviglia si ripete con “Gary Gilmore's Eyes”, un brano goth-punk che potrebbe essere stato scritto dagli Stranglers, o ancora con “Bombsite Boy”, coacervo di sinistri rumori ambientali, chitarre scricchiolanti, lamenti deviati, senza contare hit del calibro di "No Time to Be 21" o "One Chord Wonders".
Un lavoro imperdibile, capace di prefigurare stili e tendenze da cui presto altri pescheranno a piene mani (un gioiellino come “Safety In Numbers” è stato sicuramente studiato a memoria dai tanti protagonisti del revival wave degli ultimi anni) e che riesce ancora a entusiasmare dopo quarant'anni.
Tratto da Storiadellamusica.it
Registrato da un veterano come John Leckie agli Abbey Road Studios, il primo lavoro degli Adverts rappresenta uno dei traguardi della stagione di fine anni Settanta, traghettando il punk (qui portato ai massimi livelli espressivi) verso le esigenze della nascente corrente post-punk.
Il suono - seppur tiratissimo - è affettato, intelligente e sottile, colmo di inusuali tinte dark e di un avanzato gusto noise, capace di spingersi oltre gli angusti confini del punk tout court (T.V. Smith, ad esempio, era un estimatore di Sparks e Cockney Rebel).
Basti la splendida “On the Roof” per rendersi conto della marcia in più: un incedere lento e spettrale che conduce al riff affilatissimo del chitarrista Howard Boak “Pickup”, per poi esplodere in un anthem al fulmicotone destinato a rannicchiarsi nuovamente nella strofa rallentata e dolente. La meraviglia si ripete con “Gary Gilmore's Eyes”, un brano goth-punk che potrebbe essere stato scritto dagli Stranglers, o ancora con “Bombsite Boy”, coacervo di sinistri rumori ambientali, chitarre scricchiolanti, lamenti deviati, senza contare hit del calibro di "No Time to Be 21" o "One Chord Wonders".
Un lavoro imperdibile, capace di prefigurare stili e tendenze da cui presto altri pescheranno a piene mani (un gioiellino come “Safety In Numbers” è stato sicuramente studiato a memoria dai tanti protagonisti del revival wave degli ultimi anni) e che riesce ancora a entusiasmare dopo quarant'anni.
Tratto da Storiadellamusica.it
► 1988
The Church - Starfish (Arista)
L'album americano degli australiani The Church è senza dubbi il migliore della loro gustosa discografia ottantiana. Registrato a Los Angeles da Waddy Wachtel dopo l'ingaggio da parte della label Arista di Clive Davis, il quinto disco della band è quello del botto commerciale (e della rivincita sulla Capitol, che sei anni prima, non convinta del sophomore "A Blurred Crusade", aveva scaricato il gruppo), inaugurando un percorso che avrebbe portato Kilbey e soci a vendere oltre un milione di album soltanto negli States.
La jangle wave del quartetto di Sidney ha sempre avuto un retrogusto dolciastro e raffinato, psichedelico e pop, raffinato lavoro dopo lavoro. Il livello di "Starfish", però, è decisamente superiore, sistemando alla perfezione i tratti che avevano reso tanto fascinose le composizioni degli album precedenti, per arrivare a una compostezza e autorevolezza propria dei grandi musicisti. C'è tutto, in "Starfish": la scrittura compatta del post-punk, le raffinatezze jangle (che ancora oggi continuano a fare la fortuna di diverse indie band), la psichedelia anni Sessanta, la magniloquenza new pop (Simple Minds), il soft rock di fine anni Settanta (Fleetwood Mac), il power pop più contaminato (The Only Ones), ma anche la canzone americana (da Dylan ai Dream Syndicate).
E allora "Destination" apre la tracklist nel migliore dei modi, con quella chitarra languida che accompagna la suadente litania melodica, inaugurando un approccio produttivo all'insegna della spazialità e della pulizia, diminuendo sensibilmente la densità sonora del predecessore "Heyday". Oltre alla celeberrima "Under The Milky Way" (magistrale nelle sue progressioni armoniche), i brani meravigliosi sono tanti: la ballatona "Lost", l'intensa schitarrata su ritmica in 3/4 della melodia in crescendo di "Antenna", l'espansa e rutilante evoluzione sonica di "Hotel Womb".
Si sarà capito: un disco da esplorare a fondo e amare senza ritegno.
L'album americano degli australiani The Church è senza dubbi il migliore della loro gustosa discografia ottantiana. Registrato a Los Angeles da Waddy Wachtel dopo l'ingaggio da parte della label Arista di Clive Davis, il quinto disco della band è quello del botto commerciale (e della rivincita sulla Capitol, che sei anni prima, non convinta del sophomore "A Blurred Crusade", aveva scaricato il gruppo), inaugurando un percorso che avrebbe portato Kilbey e soci a vendere oltre un milione di album soltanto negli States.
La jangle wave del quartetto di Sidney ha sempre avuto un retrogusto dolciastro e raffinato, psichedelico e pop, raffinato lavoro dopo lavoro. Il livello di "Starfish", però, è decisamente superiore, sistemando alla perfezione i tratti che avevano reso tanto fascinose le composizioni degli album precedenti, per arrivare a una compostezza e autorevolezza propria dei grandi musicisti. C'è tutto, in "Starfish": la scrittura compatta del post-punk, le raffinatezze jangle (che ancora oggi continuano a fare la fortuna di diverse indie band), la psichedelia anni Sessanta, la magniloquenza new pop (Simple Minds), il soft rock di fine anni Settanta (Fleetwood Mac), il power pop più contaminato (The Only Ones), ma anche la canzone americana (da Dylan ai Dream Syndicate).
E allora "Destination" apre la tracklist nel migliore dei modi, con quella chitarra languida che accompagna la suadente litania melodica, inaugurando un approccio produttivo all'insegna della spazialità e della pulizia, diminuendo sensibilmente la densità sonora del predecessore "Heyday". Oltre alla celeberrima "Under The Milky Way" (magistrale nelle sue progressioni armoniche), i brani meravigliosi sono tanti: la ballatona "Lost", l'intensa schitarrata su ritmica in 3/4 della melodia in crescendo di "Antenna", l'espansa e rutilante evoluzione sonica di "Hotel Womb".
Si sarà capito: un disco da esplorare a fondo e amare senza ritegno.
► 1998
Neutral Milk Hotel - In the Aeroplane Over the Sea (Merge)
Il terzo lavoro di Jeff Mangum è tante cose assieme. Innanzitutto è punto di non ritorno dell'indie americano di quel decennio, qui lacerato e sfigurato, quasi primitivizzato rispetto alle evoluzioni di un genere che stava trovando diversi modi per diventare grande (si pensi alla grandeur di un disco come "Perfect From Now On" o alle contaminazioni prog di un "Emergency and I"). È poi una liberatoria bomba di espressività sganciata, libera, lontana da formule precostituite, centrata esclusivamente sulla potenza delle canzoni.
Neutral Milk Hotel è inoltre una delle varie incarnazioni del collettivo Elephant 6 formato, oltre che da Mangum, da Robert Schneider, Bill Doss, Will Cullen Hart. Nato dall'incontro dei quattro a Ruston, il gruppo è un esperimento di "comune musicale" spezzettata tra Athens e Denver, orientato verso la creazione di una musica capace di osare e ispirarsi ai grandi classici utilizzando però mezzi tanto frugali quanto inventivi (da cui la prassi lo-fi e DIY ereditata dalla stagione punk), e di dar vita a canzoni passionali e intense, capaci di stimolare tanto l'esecutore quanto l'ascoltatore.
Vagamente ispirato al Diario di Anna Frank, "In The Aeroplane Over the Sea" non può che essere l'apogeo del credo Elephant 6: un disco che suona grandioso pur se grezzo, che infila pezzi da maestro dando prova di una grande maturità autoriale e compositiva, senza smetterla mai di dare l'idea di un gioco, di un azzardo, di una sperimentazione. Il folk corposo (che molta ispirazione fornirà a realtà come The Decemberists e più in generale alla stagione indie-folk prossima a venire) di brani come "The King of Carrot Flowers Pt.1", "Two Headed Boy", "Oh Comely", mescola nell'impasto parti strumentali (creando le condizioni per l'emergere di band come Arcade Fire) e armonie insolite (grazie all'impiego di zanzitofono, accordion, sega musicale, varie forme di ottoni), completando il tutto con rumorose scorie in salsa punk ("The King of Carrot Flowers Pt.2 & 3", "Holland, 1945"), brani da marching band stralunata ("The Fool") e strumentali sarabande psichedeliche ("Untitled").
L'enfasi, il dramma e la magniloquenza che si respirano in ogni brano, assieme alla ricchezza che si cela dietro ai pezzi apparentemente semplici del disco rappresentano, infine, l'ultimo atto - potremmo dire il testamento - di Jeff Mangum, che appena annusata aria di notorietà e sovraesposizione lascia quasi del tutto la scena musicale, mettendo la parola fine ai Neutral Milk Hotel e concedendosi solo a sparute apparizioni.
Un ascolto è d'obbligo. I restanti mille seguiranno naturalmente.
Il terzo lavoro di Jeff Mangum è tante cose assieme. Innanzitutto è punto di non ritorno dell'indie americano di quel decennio, qui lacerato e sfigurato, quasi primitivizzato rispetto alle evoluzioni di un genere che stava trovando diversi modi per diventare grande (si pensi alla grandeur di un disco come "Perfect From Now On" o alle contaminazioni prog di un "Emergency and I"). È poi una liberatoria bomba di espressività sganciata, libera, lontana da formule precostituite, centrata esclusivamente sulla potenza delle canzoni.
Neutral Milk Hotel è inoltre una delle varie incarnazioni del collettivo Elephant 6 formato, oltre che da Mangum, da Robert Schneider, Bill Doss, Will Cullen Hart. Nato dall'incontro dei quattro a Ruston, il gruppo è un esperimento di "comune musicale" spezzettata tra Athens e Denver, orientato verso la creazione di una musica capace di osare e ispirarsi ai grandi classici utilizzando però mezzi tanto frugali quanto inventivi (da cui la prassi lo-fi e DIY ereditata dalla stagione punk), e di dar vita a canzoni passionali e intense, capaci di stimolare tanto l'esecutore quanto l'ascoltatore.
Vagamente ispirato al Diario di Anna Frank, "In The Aeroplane Over the Sea" non può che essere l'apogeo del credo Elephant 6: un disco che suona grandioso pur se grezzo, che infila pezzi da maestro dando prova di una grande maturità autoriale e compositiva, senza smetterla mai di dare l'idea di un gioco, di un azzardo, di una sperimentazione. Il folk corposo (che molta ispirazione fornirà a realtà come The Decemberists e più in generale alla stagione indie-folk prossima a venire) di brani come "The King of Carrot Flowers Pt.1", "Two Headed Boy", "Oh Comely", mescola nell'impasto parti strumentali (creando le condizioni per l'emergere di band come Arcade Fire) e armonie insolite (grazie all'impiego di zanzitofono, accordion, sega musicale, varie forme di ottoni), completando il tutto con rumorose scorie in salsa punk ("The King of Carrot Flowers Pt.2 & 3", "Holland, 1945"), brani da marching band stralunata ("The Fool") e strumentali sarabande psichedeliche ("Untitled").
L'enfasi, il dramma e la magniloquenza che si respirano in ogni brano, assieme alla ricchezza che si cela dietro ai pezzi apparentemente semplici del disco rappresentano, infine, l'ultimo atto - potremmo dire il testamento - di Jeff Mangum, che appena annusata aria di notorietà e sovraesposizione lascia quasi del tutto la scena musicale, mettendo la parola fine ai Neutral Milk Hotel e concedendosi solo a sparute apparizioni.
Un ascolto è d'obbligo. I restanti mille seguiranno naturalmente.
► 2008
Valet - Naked Acid (Kranky)
La musica sperimentale della Portland di fine anni zero è uno dei tanti esempi di come le scene locali siano continuate a fiorire anche in piena era di smaterializzazione della musica. Il pop ha pur sempre bisogno di mettere radici su solide fondamenta, di appoggiarsi a locali e etichette, a un pubblico di riferimento. Le piccole comunità musicali contano ancora molto, al di là della volatilità del web. I Valet, piccola perla nel roster della Kranky, fanno parte di questa storia.
Destinato, con molta probabilità, a rimanere tra le "oscurità" del decennio, il duo di Honey Owens (Jackie-O Motherfucker) e Mark Evan Burden rappresenta il lato oscuro della scena indie cittadina ("Our drizzly city is home to so many of these celebrated rockers that it's sometimes difficult to breathe, what with all of the indie cred saturating the air. Somehow, Portland has become America's indie rock theme park").
"Naked Acid" è un denso accumulo di drone music e neo-psichedelia, tra chitarre liquide, nebbie ambient, ritmiche tribali, sonagli e cenni di world music alla Jon Hassell. Così in "We Went There" si mette in scena un ipnotico affastellarsi di manipolazioni sonore che coinvolgono sia i vocalizzi eterei del duo Owens/Adrian Orange che un parterre di chitarre lamentose e vortici di elettronica vaporosa. Il senso di mistero aumenta nelle spire oniriche di "Drum Movie", con il suo incedere fluttuante, privo di peso, le sue variazioni armoniche appena percepibili e le percussioni, che diremmo protagoniste del pezzo visto il titolo, e invece lasciate cautamente dietro il fluttuare dei sintetizzatori e dei feedback aleggianti in progressivo crescendo.
Il ripetersi ostinato dei due o tre accordi di chitarra in delay di "Kehaar", splendido infittirsi di trame elettriche, ricordano la musica cosmica degli Ash Ra Tempel, il martellare ossessivo di "Fuck It" dipinge una jam astratta e acida, "Fire" è una suadente e storta ballata al cloroformio (ammaliante lo strampalato gioco di rifrazione tra le corde della chitarra), mentre "Streets" chiude le danze con incastri di loop stordenti, tra ritmica da dancefloor scassato, motivi a spirale di elettronica lisergica e riverberi da pedaliera, richiamando l'approccio alla materia tipico dei post-rockers anni Novanta.
Un lavoro che, se affrontato con il dovuto abbandono, è capace di imbambolare l'ascoltatore in un intricato flusso di (in)coscienza. Da concedere una chance, ai Valet, magari partendo dal successivo e più concreto "Nature" (di cui magari si parlerà nel 2025).
La musica sperimentale della Portland di fine anni zero è uno dei tanti esempi di come le scene locali siano continuate a fiorire anche in piena era di smaterializzazione della musica. Il pop ha pur sempre bisogno di mettere radici su solide fondamenta, di appoggiarsi a locali e etichette, a un pubblico di riferimento. Le piccole comunità musicali contano ancora molto, al di là della volatilità del web. I Valet, piccola perla nel roster della Kranky, fanno parte di questa storia.
Destinato, con molta probabilità, a rimanere tra le "oscurità" del decennio, il duo di Honey Owens (Jackie-O Motherfucker) e Mark Evan Burden rappresenta il lato oscuro della scena indie cittadina ("Our drizzly city is home to so many of these celebrated rockers that it's sometimes difficult to breathe, what with all of the indie cred saturating the air. Somehow, Portland has become America's indie rock theme park").
"Naked Acid" è un denso accumulo di drone music e neo-psichedelia, tra chitarre liquide, nebbie ambient, ritmiche tribali, sonagli e cenni di world music alla Jon Hassell. Così in "We Went There" si mette in scena un ipnotico affastellarsi di manipolazioni sonore che coinvolgono sia i vocalizzi eterei del duo Owens/Adrian Orange che un parterre di chitarre lamentose e vortici di elettronica vaporosa. Il senso di mistero aumenta nelle spire oniriche di "Drum Movie", con il suo incedere fluttuante, privo di peso, le sue variazioni armoniche appena percepibili e le percussioni, che diremmo protagoniste del pezzo visto il titolo, e invece lasciate cautamente dietro il fluttuare dei sintetizzatori e dei feedback aleggianti in progressivo crescendo.
Il ripetersi ostinato dei due o tre accordi di chitarra in delay di "Kehaar", splendido infittirsi di trame elettriche, ricordano la musica cosmica degli Ash Ra Tempel, il martellare ossessivo di "Fuck It" dipinge una jam astratta e acida, "Fire" è una suadente e storta ballata al cloroformio (ammaliante lo strampalato gioco di rifrazione tra le corde della chitarra), mentre "Streets" chiude le danze con incastri di loop stordenti, tra ritmica da dancefloor scassato, motivi a spirale di elettronica lisergica e riverberi da pedaliera, richiamando l'approccio alla materia tipico dei post-rockers anni Novanta.
Un lavoro che, se affrontato con il dovuto abbandono, è capace di imbambolare l'ascoltatore in un intricato flusso di (in)coscienza. Da concedere una chance, ai Valet, magari partendo dal successivo e più concreto "Nature" (di cui magari si parlerà nel 2025).
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