Se la coerenza paga chiedetelo ai True Widow. La band texana formata dal chitarrista Dan Phillips, dalla bassista Nicole Estill e dal batterista Timothy Starks rappresenta uno degli esempi più interessanti (per quanto saldamente ancorato a contesti underground) di evoluzione lineare a partire da una precisa formula stilistica. Il risultato? Un suono monolitico e massiccio, psichedelico e conturbante, capace di unire la tradizione heavy con correnti più morbide e vagheggianti prese in prestito dagli anni Novanta.
Proprio l’aver riportato in auge le sonorità di quel decennio, surclassato da anni di incontrastato primato degli eighties, rappresenta uno dei meriti del power trio di Dallas: tra i primi a imbarcarsi in oscure rivisitazioni shoegaze (assieme a Have a Nice Life, Alcest, A Place to Bury Strangers e Horrors), Phillips, Estill e Starks si distinguono da subito per un’impostazione che privilegia toni blandi, cantilenanti, in linea con i migliori Low, cui fanno da contraltare riff di basso e chitarra saturi di distorsioni le quali, più che dallo shoegaze in senso stretto, sembrano trarre ispirazione dalle ruvidezze stoner e dalle gorgoglianti spire sludge.
A dieci anni dal primo album della band voglio ripercorrere la loro breve ma intensa discografia.
Il primo episodio dell’esperimento “stonegaze” è un lavoro solido, capace di passare in rassegna tutti gli ingredienti che definiranno l’esperienza True Widow negli anni a venire. Per quanto le componenti doom siano meno marcate, si tratta comunque di un album oscuro, minaccioso, dominato dal cantato velato di Phillips, spesso armonizzato dalla Estill, e dai saliscendi affidati tanto alle chitarre in accumulo progressivo quanto alle interazioni ritmiche di basso e batteria, in grado di strutturare e direzionare le correnti sulle quali scorrono i brani.
La prima “Aka” si erige sugli arpeggi dialoganti di basso e chitarra che presto si placano in scie ambientali per lasciar spazio alla nenia di Phillips, come in un ideale featuring tra Codeine e Low. Eppure sono le dinamiche delle chitarre, che subito tornano ad addensare il suono a fine strofa, a fare la differenza (quell’alternanza timbrica tra ruvido sferragliare e dettagli melodici in rumor bianco, per non parlare della grande capacità di definire le atmosfere dei brani in poche battute introduttive, come nella cupa “Sunday Driver”), assieme a un songwriting che in più di un’occasione nobilita la proposta, come in “Corpse Master”, lenta liturgia pagana assediata dai rintocchi e dagli strascichi della sei corde elettrica irregimentata in un austero incedere che ricorda i Cure più gotici o i ritualismi dei Red Temple Spirits, e impreziosita da una coda strumentale vorticosa e solenne.
Brani come “All You Need”, “Bleeder” e l’ultima “KR”, non fanno che ribadire il concetto, rafforzando una proposta già capace di stare solidamente sulle proprie gambe, già risoluta riguardo al percorso da seguire.
II. “As High As the Highest Heavens and from the Center to the Circumference of the Earth” (Kernado, 2011)
È con il secondo lavoro in studio che il trio di Dallas si impone finalmente in tutta la sua stazza, facendo un salto di qualità decisivo che rappresenterà il vero punto di partenza per sviluppare e definire il suo sound.
Già a partire dal primo manifestarsi del gorgoglio sludge della chitarra di “Jackyl” si intuisce la differenza qualitativa: un saturo e granuloso magma dall'avanzamento ipnotico, con la funzione di dare un sostegno portante alla delicata litania della ieratica Estill, per un complessivo aumento sia della stazza delle parti strumentali (qui sfigurate da overdrive iper saturi) che del tasso di evocatività del songwriting (le voci sono sfumate e riverberate, come avvolte in dense nebbie). Il lavoro radicale sul sound, dunque, come principale intuizione per dare nuovo lustro ad un’operazione ormai intensiva di aggiustamento della formula sonora.
E allora “Blooden Horse” fa da perfetto contraltare al pezzo precedente, mostrando un maggiore apporto melodico senza però sacrificare il sound granitico e robusto. Il tono soffice di Phillips tinteggia una psichedelia lenta e densa, che sbuffa vapori vorticanti stimolata dal calcare incessante della sezione ritmica.
I restanti brani in scaletta fanno leva sulla medesima, fortunata, formula che i True Widow modellano con grande rigore e intenzionalità. Nonostante il rigore faccia presto, in qualche occasione, a trasformarsi in rigidità (penso alle lungaggini di “NH”), i pezzi del trio riescono ad attecchire grazie a un'alchimia capace di far leva su gustosi innesti melodici (“Boaz”), su improvvise scariche di adrenalina (“Night Witches”) e su quell'attraente equilibrio armonico di cui si parlava per la prima traccia (“Skull Eyes”).
Siamo ancora in fase di assestamento, ma -e qui sta l'inevitabile punto di forza- nonostante la ripetitività il tutto risulta assai fascinoso. La strada è quella giusta, non serve altro che seguirla fino in fondo.
È con il terzo episodio, a cinque anni dal primo lavoro, che la formula dei True Widow risulta finalmente sgravata da ogni peso superfluo, portando la creatura “stonegaze” del power trio texano a una cupissima maturazione.
Leggermente più breve del predecessore, “Circumambulation” ha certamente il pregio di andare al punto con maggiore efficacia, di trarre il massimo di espressività dalla sua sostanza fangosa e nerissima. I punti di riferimento, i soliti, portati però ad apici inediti: si va dallo slowcore ai Jesu, saggiando territori sludge senza però dimenticare il solito fine apporto melodico che molto deve, e in misura sempre più consistente, ai contributi vocali della bassista Nicole Ellist. Basti una “Fourth Teet” per rendersi conto dell'ottimo equilibrio raggiunto.
Composizione e scrittura sono quindi raffinate e dosate, per un perfetto connubio tra le melodie che alleggeriscono il mood e le armonie gorgoglianti e noise che dominano e saturano lo spettro sonoro. “Creeper” apre le danze con il suo riff lento, su cui si innesta la voce di Dan Phillips, che assieme ad una sessione ritmica morbosamente abbrancata al motivo portante crea spire fangose che conferiscono al pezzo una gravità solenne. Si procede con lo splendido interplay tra chitarra e basso, uno grave e cadenzato, l'altra effettata e tagliente, di “S:H:S”, marziale discesa in territori che appartengono sia ai Belong che ai Codeine durante un incubo. Lo stile asciutto ma capace di grande varietà timbrica (seppure in scala di grigi) della chitarra di Phillips è uno dei punti di forza dell'album: nella già citata “Fourth Teet”, nei bridge che sbloccano l'ipnotico riff di “Numb Hand”, nella splendida “HW:R”, con i suoi arpeggi jangle capaci di imporre il passo -culminando nel solo del finale- alla pur imponente sezione ritmica, nella conclusiva -pienamente in stile Low- “Lungr”, col suo mestissimo motivo sporco e granuloso.
Un netto passo avanti per un risultato davvero convincente. Il trio di Dallas raggiunge un equilibrio che funziona e che fa girare la macchina True Widow nel migliore dei modi. Un disco opprimente, cupo, rituale, che regala pezzi di grande stazza, capaci, pur seguendo un copione senza sorprese e senza sbalzi, di evitare ogni immobilismo.
Nel 2016 chiunque conosca i True Widow sa cosa aspettarsi: che bello, infatti, ritrovare intatto il suono sporco e sfrigolante, granuloso, del trio. Una formula, come abbiamo visto, costantemente affinata nel tempo ma da sempre incentrata sull'accostamento tra densità granitiche di marca sludge, espansioni shoegaze e mesti pantani slowcore. Una ricetta semplice, tutta giocata sui riff distorti dell'accoppiata basso-chitarra, con il primo a gorgogliare e dettare la linea in primo piano e la seconda a lavorare sia sul rafforzamento della grana che sulle screziature armoniche (senza dimenticare, certo, l'incrollabile, roccioso sostegno della batteria). Minimalismo, sì, ma all'insegna di sommovimenti, di gorghi e spire, di addensamenti e lenti impaludamenti sonori. Ecco: c'è sempre stato movimento, per quanto lento e viscerale, nelle composizioni della band texana.
E se una cosa cambia, in questo “Avvolgere” (sì, come la stretta di un pitone), è la maggiore concretezza di una proposta che, se con “Circumambulation” covava una sua torbida metafisica (la fascinazione per i motivi ossessivi, per i chiaroscuri netti, per i vocalizzi atmosferici), ora sembra più ancorata alla sporca e nuda terra -e quindi alle matrici stoner- e ai suoi movimenti tellurici. Un suono più muscolare, dunque, con il basso della Estill sempre più protagonista: sulle sue pulsazioni strutturanti si erigono pezzi solidi, massicci, heavy, ben piantati in una crosta dura, battuta e compattata dalle scosse soniche del trio.
La prima “Black Shredder” mette subito le cose in chiaro con quel riffone massiccio che scuote il brano per tutta la sua durata, imperversando su una base ritmica solenne e minimale, lasciando che la successiva “Theurgist” ribadisca l'antifona, seppure tra giochi cromatici più screziati e sediziosi (se l'apertura risultava quasi soffocante, qui il main riff viene ripetutamente lasciato in secondo piano per poi tornare a invadere prepotentemente lo spettro sonoro).
A fianco di brani ottundenti e feroci come la bellissima “Sante” e la gorgogliante “The Trapper and the Trapped”, si innestano i momenti più scenici, dove prevalgono le tinte fosche (e dove meglio si esprime la vena melodica) della band: la densissima “O. O. T. P. V.”, la ieratica e sciamanica (visto anche il titolo) “Entheogen”, con la chitarra che si concede straordinariamente ad un melodioso, per quanto distorto dal fuzz, arpeggio, o l'inesorabile saliscendi scalare di “Grey Erasure”.
Il livello rimane alto, non si registra alcun cedimento rispetto allo scorso “Circumambulation”. Magari la visione, questa volta, è un po' più a fuoco, più concentrata e schietta, con i conseguenti pro (in termine di definizione e impatto del sound) e contro (quanto era affascinante il registro cupo e opprimente del 2013?).
I True Widow, al quarto album, rimangono una conferma. La speranza è che si abbia presto un nuovo episodio, e che il trio di Dallas continui la sua personale esplorazione, senza cedere di un passo.
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