Non una grande scelta quella di far uscire un disco a gennaio: sottoesposto rispetto alle uscite di fine anno e con la probabilità di venire dimenticato nei dodici mesi successivi, l'album di gennaio è una prova di coraggio. Ecco, quindi, una lista di alcuni dei grandi dischi usciti nel primo mese di cinquanta/quaranta/trenta/venti e dieci anni fa. Lavori che tutti dovrebbero conoscere per vivere meglio nel presente e che andrebbero omaggiati per la loro audacia: nonostante il periodo scelto per venire alla luce sono riusciti, con più o meno difficoltà, a resistere alla prova del tempo.
► 1968
The Velvet Underground - White Light/White Heat (Verve)
Registrato in soli due giorni, il secondo album della band è un'efficace fotografia di quanto potessero essere senza speranze i quattro (ex) beniamini di Andy Warhol. Dopo il flop commerciale del primo album, Lou Reed, John Cale, Sterling Morrison e Maureen Tucker danno alle stampe un lavoro ancora più radicale e caotico. Marasma di feedback, cacofonie e rumori lancinanti (l'ultima "Sister Ray" potrebbe da sola valere tutto l'album), talking sconclusionati, grottesche storie suburbane e drogate, rock'n'roll deviati: "White Light/White Heat" non potrà mai risultare stantio, vista la sua capacità di stare sempre un passo troppo avanti, tanto nel 1968 quanto nel 2018.
► 1978
Il fatto che la guerra fredda, in fondo, non sia mai finita (salvo un generale cambio di protagonisti e retorica), ha un che di rassicurante: ci si sente immersi in un clima familiare, in una storia condivisa, e soprattutto si capisce pienamente l'esordio dei Pere Ubu. Proveniente da Cleveland, cittadona vittima della deindustrializzazione negli anni Settanta e di quella dei mutui subprime nel 2007-08 (una delle tante incarnazioni della "provincia terziarizzata, provincia di gente squartata"), la band di David Thomas connota il suo esordio di qualità senza tempo, tra citazioni colte, inserti rumoristi, schiettezza garage-punk, intellettualismo new wave, una satira caustica e macchiettistica. Il paesaggio dipinto è quello di un mondo schizofrenico percorso da venti post-nucleari, abitato da gente che rimastica nervosamente la propria storia (tutta una tradizione pop, qui, fagocitata e risputata) tra paranoie e ansie interiorizzate. Eppure quella stessa gente, pur tra le rovine, balla e strepita. Ecco: buon 2018!
► 1988
A Guy Called Gerald - Voodoo Ray EP (Rham!)
Se vi ho fatto perdere la Summer of Love del '68 mettendo i Velvet Underground al posto di qualche gruppo fricchettone non preoccupatevi: la Second Summer of Love è stata forse uno dei grandi eventi del pop inglese di fine anni Ottanta. A Guy Called Gerald, infatti, infiamma la stagione acid house di Manchester (presto rinominata "Madchester") e alimenta la più generale sbornia rave del biennio '88-'89 facendo propri - vera e propria costante pop - i suoni provenienti dagli Stati Uniti. Per dire: Gerald Simpson, ai tempi dell'uscita di "Voodoo Ray" (risultante del troncamento di "Voodoo Rage" di Derek and Clive a causa della scarsa memoria del campionatore) lavorava da McDonald's e non aveva un soldo. Aria di 2018, insomma. Eppure un piccolo lavoratore sfruttato di origine giamaicana riusciva a dar vita a un inno generazionale, alla proverbiale scintilla che fa divampare l'incendio. Ipnotico, sensuale, psichedelico, morboso: nel brano che intitola l'EP ci sono tutti gli elementi che renderanno celebre quella stagione, dai sintetizzatori Roland TB303 e SH101 alla drum machine Roland TR808. In mezzo, la cultura dei sound system, dell'underground mancusiano, del cut&paste pionieristico da sperimentatore elettronico home made, in un'unione perfetta tra le atmosfere industriali dei Cabaret Voltaire e quelle della musica house dei Fingers Inc. Roba che ci portiamo dietro ancora oggi.
Se vi ho fatto perdere la Summer of Love del '68 mettendo i Velvet Underground al posto di qualche gruppo fricchettone non preoccupatevi: la Second Summer of Love è stata forse uno dei grandi eventi del pop inglese di fine anni Ottanta. A Guy Called Gerald, infatti, infiamma la stagione acid house di Manchester (presto rinominata "Madchester") e alimenta la più generale sbornia rave del biennio '88-'89 facendo propri - vera e propria costante pop - i suoni provenienti dagli Stati Uniti. Per dire: Gerald Simpson, ai tempi dell'uscita di "Voodoo Ray" (risultante del troncamento di "Voodoo Rage" di Derek and Clive a causa della scarsa memoria del campionatore) lavorava da McDonald's e non aveva un soldo. Aria di 2018, insomma. Eppure un piccolo lavoratore sfruttato di origine giamaicana riusciva a dar vita a un inno generazionale, alla proverbiale scintilla che fa divampare l'incendio. Ipnotico, sensuale, psichedelico, morboso: nel brano che intitola l'EP ci sono tutti gli elementi che renderanno celebre quella stagione, dai sintetizzatori Roland TB303 e SH101 alla drum machine Roland TR808. In mezzo, la cultura dei sound system, dell'underground mancusiano, del cut&paste pionieristico da sperimentatore elettronico home made, in un'unione perfetta tra le atmosfere industriali dei Cabaret Voltaire e quelle della musica house dei Fingers Inc. Roba che ci portiamo dietro ancora oggi.
► 1998
Il terzo lavoro dei June of 44 potrebbe essere letto come l'epitaffio della scena di Louisville, di cui va ricordato il grande ruolo nel definire il suono del nuovo rock americano di inizio anni Novanta (si pensi agli Slint). Epitaffio perché, alle porte del nuovo millennio, il post-rock era già roba vecchia, destinata a ripetersi in un standard chitarristico emozionale di scarsa rilevanza, rilevanza che invece "Four Great Points" conserva in pieno. Un lavoro intricato (i brani si srotolano in una complessità armonica e compositiva di stampo quasi prog), macchinoso (le parti ritmiche che vedono batteria e basso impegnati in dialoghi contorti e geniali), elegante (gli arrangiamenti chamber, le venature di chitarra che ammorbidiscono i momenti più duri), energico (la rabbia compressa del post-hardcore e il songwriting spigliato indie rock). Uno dei picchi di quella stagione, da ricordare e conservare nei secoli dei secoli.
► 2008
Have a Nice Life - Deathconsciousness (Enemies List)
Per questo lavoro ci vuole molta pazienza. La stessa pazienza che Dan Barrett e Tim Macuga investono nella costruzione della lunga e contemplativa intro ambientale a base di sintetizzatori di uno degli esordi più magniloquenti ed estremi degli ultimi anni, costato ben cinque anni di fatica per venire alla luce. Tra cupe litanie dark del calibro di "Bloodhail", "Telephony", "Deep, Deep", e brani a flusso saturi di riverberi e scorie soniche, Barrett mette assieme tradizione gotica, espansioni shoegaze, echi doom e black metal e cerebralismo new wave (in "The Big Gloom", per fare un esempio, sembra di sentire i New Order come li avrebbe voluti, forse, Ian Curtis in combutta con Kevin Shields), per un affresco monolitico, fatto di canzoni lunghe, lente, in sviluppo costante e progressivo ma mai capaci di scrollarsi di dosso un mood denso come la pece, lavorando tanto sulla resa sonora (ogni elemento, dalla voce ai rullanti, è passato attraverso svariati filtri, rintoccando e riverberando in spazi aperti, siderali), quanto sul risultato d'insieme. Un'ora e mezza di piacere che sembra fatta apposta per essere la colonna sonora per l'inizio di ogni futuro anno nuovo.
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