Tassonomia essenziale del disco giusto, di quello sbagliato, e cenni di critica improvvisata

lester bangs matteo castello
Più volte, in quanto improvvisato critico musicale (leggasi appassionato di musica al quale piace parlare dei dischi che ascolta, checché ne dica l'abusato aforisma di Frank Zappa), mi sono trovato a ragionare sul metodo utilizzato per estrapolare dall'ascolto una qualche forma di giudizio, oltre che alla liceità stessa dell'espressione di un parere.

Una prima precisazione (o un alibi?) riguarda quella che mi sembra una delle caratteristiche della pop music, la quale, per essere capita, non sembra necessitare per forza di una conoscenza tecnica da parte dell'ascoltatore: il suo linguaggio è prevalentemente "storico", la sua qualità è un'espressività tendenzialmente democratica, dove le componenti chiave sono standardizzate e a misura non solo dell'ascoltatore incompetente (quale il sottoscritto), ma in una certa misura anche del musicista incapace di suonare (sono molti gli esempi di band messe su da musicisti improvvisati). Espressione di idee sotto forma di suoni, quindi, prima che di "musica". 

Il linguaggio del pop, come dicevo, è storico perché si tratta di un gioco di imitazione (a partire dal modo in cui tenere le dita per formare un accordo) e di ripetizione che si trasforma in contaminazione e superamento di limiti volta per volta determinati. Il gioco dell'ascoltatore è dunque quello di rintracciare nei brani le scorie delle tradizioni prese in prestito, le citazioni infilate qua e là, le deviazioni rispetto agli standard di genere.

ted gioia mai una gioia matteo castello
Come scriveva qualche anno fa uno sdegnato Ted Gioa sul Daily Beast, il critico musicale moderno, invece che parlare di musica in senso stretto, è diventato un "reporter di lifestyle", definizione che coglie perfettamente -forse senza volerlo, e di certo dedicando un'eccessiva attenzione agli aspetti deteriori del mondo della critica "non laureata" contemporanea- la natura della musica pop, cioè un assemblaggio culturale e simbolico che mischia elementi musicali ad altri extra-musicali.

Ben dice Jody Rosen su Vulture: "In fact, today’s finest music criticism takes in all that and then some: how music is made, how it sounds, what it means to its audiences, the ways it ripples through the culture at large. The best critics combine the sort of musicological chops that Gioia values with the ability to make sense of the bigger picture — the sound and the spectacle, the interplay of art and commerce, the ways that new technologies affect one of the oldest and the most primal forms of human expression. [...] And guess what? “Lifestyle” comes into it, too. As distasteful as it is to Gioia, celebrity culture is huge force in pop. Showbiz isn’t just the pop star’s medium; often, it’s her message, her subject, her muse. Times change, music changes, and responsible critics have to keep up. For a critic to ignore what Gioia calls lifestyle is dereliction of duty".

Torniamo però al mio personale modo di superare il senso di inadeguatezza nel parlare pubblicamente di musica: ascoltare tanta musica (anche se mai abbastanza), averne una conoscenza almeno inizialmente quantitativa, mi ha permesso di affrontare il tema con meno soggezione, per quanto mi trovi sostanzialmente d'accordo con l'affermazione di Gioia secondo cui "musical knowledge empowers artistic expression. Critics who are unwilling, or perhaps incapable, of assessing such matters may still have some insights to offer, but they will struggle to fulfill the most basic responsibility of the music critic, which is to pay close attention to the sounds".

Affrontando la materia partendo dall'evoluzione del linguaggio e della fenomenologia pop riuscivo a creare svariati collegamenti tra disco e disco, potevo interpretare quello che ascoltavo, riuscivo a orientarmi, avevo l'impressione di cogliere l'intenzione, il messaggio tra le righe (anzi, tra i righi), dell'artista stesso, il quale più che cercare ammiratori della sua maestria tecnica pareva essere alla ricerca di un pubblico che capisse di cosa si stesse parlando, che condividesse un linguaggio e un mondo comuni. Che l'ascoltatore non acculturato possa parlare con cognizione di causa della musica che ascolta è forse una delle componenti decisive del successo della pop music.

Detto ciò, fin dal primo ascolto di un nuovo album entrano in gioco alcuni meccanismi "ordinatori" che ho imparato a utilizzare per interpretare ciò che esce dalle casse.

Facciamo qualche salto in avanti, iniziando a mettere in luce le macro-categorie che orientano il mio ascolto. Nel tempo mi sono arreso alla constatazione che esistano solo due tipi di musica: quella buona e quella cattiva.

dream syndicate medicine show 1984
Con "musica buona" intendo tutte le manifestazioni sonore capaci di suscitare un mio primo, per quanto non definitivo, interesse. Come suona un disco? Questo è forse il primo modo che ho di stabilire se qualcosa è almeno potenzialmente in grado di piacermi. Non si tratta solo di produzione, ma di complessiva consistenza e profondità del sound, di gestione dei vari momenti interni ai brani, di solidità della scrittura. A volte bastano piccoli indizi (un motivo melodioso, un passaggio che fa drizzare le orecchie, delle tessiture intricate, una voce particolare), altre volte invece si riesce a inquadrare subito il disco nella totalità (così è stato al primo ascolto di "Medicine Show" dei Dream Syndicate).

Un esempio in presa diretta. Ai primi ascolti della prima traccia di "L.Story" del polacco L.Stadt (in playlist mentre scrivo), prima che entrare nelle dinamiche vere e proprie dei brani o nei rimandi ad altra musica, rimango affascinato dal magnetico susseguirsi di pieni e sfumati, da quel basso persistente controbilanciato dall'onda svolazzante del synth, dai cori imponenti ed espansi che fanno capolino all'improvviso. La prima impressione è quasi unicamente fisico-percettiva, molto poco mediata intellettualmente. Non sono ancora in grado di dire quanto la cosa mi piaccia, quanto sia valida, però so di certo che è pane per i miei denti, che fa parte di un generico universo di riferimento all'interno del quale so di trovare ingredienti gustosi, o quantomeno riconoscibili e interpretabili. Archiviato come "da riascoltare meglio".

Appigli, sensazioni positive, simulacri di cose note, familiarità, cura nella produzione: questi i primi elementi per far partire il processo di valutazione.

La "musica buona", a questo punto, può diventare "musica che mi piace". Questa è la fase in cui guardo all'oggetto album più da vicino, con più attenzione, facendo conoscenza con i singoli brani e con le loro caratteristiche e, contemporaneamente, valutando la relazione tra questi all'interno della cornice generale: diventa pian piano rilevante il modo in cui i pezzi si susseguono e si sistemano lungo la tracklist, e quanto lo scorrimento dell'album risulti o meno piacevole, fluido, coerente, oppure al contrario ripetitivo, macchinoso, inconcludente. In questa fase la ripetizione degli ascolti è al contempo necessaria e dirimente: se presto i brani risultano stucchevoli, banali, incapaci di regalare qualcosa che vada oltre alla melodia dei ritornelli, allora è facile che il disco finisca nel purgatorio della "musica cattiva", o che semplicemente stazioni per qualche tempo al pit-stop, in attesa di trovare l'umore o la disposizione giusta (altro elemento importante: a volte certe sonorità non si accordano al mood del momento) per ritentare l'ascolto.

spacemen 3 a perfect prescription 1987
Un caso particolare è quello degli ascolti "epifanici", cioè di quei lavori che non sono mai riusciti a regalare grandi emozioni e poi, d'un tratto, si rivelano in tutta la loro potenza, magari semplicemente grazie ad una fortunata predisposizione che prima non aveva lasciato "passare" gli elementi giusti. Ho un ricordo preciso della volta che "Perfect Prescription" degli Spacemen 3 mi si è rivelato in tutta la sua carica morbosa e seducente, dopo diversi ascolti incapaci di emozionarmi.

L'ascolto ripetuto, si diceva, è fondamentale. La fretta è una cattivissima consigliera quando si vuole dare un parere su un disco. Alcuni elementi si notano solo dopo molto tempo, alcuni significati si manifestano dopo una lunga decantazione, mentre elementi che inizialmente avevano attecchito possono risultare alla lunga banali, perdendo il loro fascino iniziale.
Il disco è premiato quando, per dirla tutta, viene voglia di riascoltarlo ancora e ancora. Lavori complessi e ricchi, visionari e stratificati, o anche semplici ma impeccabili e cristallini (penso a un capolavoro come "Days" dei Real Estate), possono manifestare nuove proprietà dopo anni di ascolti, maturando come buoni vini.

Passiamo alla "musica cattiva". Musica che, come dicevo, posso rivalutare una volta trovato il giusto mood, oppure dopo aver trovato chiavi di lettura differenti (quindi dopo essermi confrontato con altri pareri).
Esistono però immancabilmente casi in cui il recupero è pressoché impossibile. Anche qui non posso che servirmi di macro-categorie iper-soggettive per parlare dei gironi infernali dei cattivi ascolti: si tratta di album che paiono prefabbricati e funzionali, studiati a tavolino (non per forza dal famigerato music business) per far presa su un target specifico, o per necessità determinate. Penso a quella che malignamente chiamo "musica da manifestazione" (da Caparezza ai Modena City Ramblers), apparentemente orientata ai precari sound system montati sulle camionette durante cortei di liceali o universitari (o per far la propria parte al concertone del 1° Maggio), oppure a generi eccessivamente stilizzati e fossilizzati (non amo, ad esempio, certo reggae-fotocopia, che pare sfruttare dinamiche da neuroni specchio), per non parlare della musica etnico-identitaria che ciclicamente viene riproposta da musici tradizionalisti (i mix di patchanka, combat folk e cenni di culture musicali tradizionali proposti in tutte le salse regionali, ottimi per i festival folkloristici estivi finanziati dalle amministrazioni di turno), ma anche certo jazz spento da turnista, tutto sbrodolamenti e cenni di intesa tra compagni di istituto musicale. Insomma, musica squisitamente di genere, che imita e scimmiotta, invece di reinventare e plasmare nuovi linguaggi.

Rimane un'ultima doverosa annotazione. Tutto questo discorso è profondamente connotato da interpretazioni e gusti personali. E attenzione, non si tratta di un paravento per fuggire dalla critica: il gusto personale è criticabile proprio perché precario e parziale, spesso frutto di semplificazioni e pregiudizi.
Lo sforzo di un commentatore serio di musica, nei limiti del possibile, è quindi quello di mantenere un'adeguata freddezza di analisi, un atteggiamento critico che eviti da un lato la cristallizzazione dogmatica del giudizio, dall'altro l'approssimazione del racconto musicale. Esistono criteri oggettivi per la valutazione di un'opera musicale pop? Io credo di sì, anche se mi risulta difficile specificare quali essi siano. Il punto è che una buona argomentazione è "buona" perché poggia su buone ragioni, e nel caso del pop lo sforzo del critico dovrebbe essere quello di considerare più aspetti possibile inerenti all'oggetto musicale in questione: dal sound alla scrittura, dalle liriche al contesto di riferimento, dalla collocazione storica alle presunte intenzioni dell'artista. Tutto questo mantenendosi il più possibile laici e aperti al dibattito, sapendo che si tratta di un discorso fluido, in itinere, capace di strutturarsi solo nel corso del tempo e di acquisire rilevanza solo se discusso.
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