Una canzone - "Albero" (UYUNI, da "Australe", 2014)

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Come scrivevo nel 2014, l'uscita di "Australe" dei riminesi UYUNI ha rappresentato per me una grande sorpresa: la padronanza di linguaggi insoliti per la tradizione pop italiana (l'american primitivism), unita a intelligenti dosaggi post-rock (genere ad alto rischio di sbrodolamento), faceva del secondo disco del trio un gioiello di forza espressiva ed estro poetico.

C'è però una canzone in particolare, in quel lavoro, che continua a stupirmi per il perfetto equilibrio tra le sue molteplici componenti.
"Albero", terza traccia in scaletta, figura come il primo dei due brani cantati del disco, e cattura immediatamente l'ascolto grazie al suo fragrante attacco folk, con la chitarra acustica a tratteggiare un delicato arpeggio bucolico, il banjo a ricamare in contrappunto e la slide elettrica dedita alla creazione di una densa e malinconica atmosfera: un'intro capace, in poco meno di un minuto, di creare grandi aspettative, mettendo insieme echi di Sufjan Stevens e Jim O'Rourke, mostrando una personale e convincente rilettura della tradizione folk americana.


Poi, però, partono le liriche. Si parla, ovviamente, di un albero. Ma non solo.

"Sono rami le mie dita e la mia schiena è un tronco
Ben piantato sulla terra che si stende attorno
E non importa se si gela se mi morde il freddo
Ho una pelle che è più dura anche dell'inverno."

L'albero resiste al freddo, e la sua caratterizzazione sembra immediatamente  suggerire uno spiccato antropomorfismo, per una personificazione dal grande potere evocativo. Le qualità dell'albero sono più che umane: non importa se tutto gela, perché con una spessa corteccia si può resistere. Se si è più duri dell'ambiente intorno niente può minacciare il proprio stare ben piantati sulla terra. Il "personaggio" del brano non si fa vincere, e le stagioni passano senza erodere la sua forza, la sua risolutezza, il suo coraggio.

"Quando finirà l'estate tornerà l'autunno
E avrà il vento tra le dita e foglie secche attorno
Quando scenderà la nebbia sai che non mi perdo
Mentre attorno tutto sfuma io so stare fermo."

Eccolo il ciclo delle stagioni, che altro non è che uno scorcio dello spazio di una vita, dei mutamenti che non sarebbero altro che confusione ciclica se non fosse per la capacità di star fermi, di opporre una qualche solidità allo "sfumare" delle cose circostanti. 

Un brano che, usando una serie di stilemi ben noti (l'uso della natura per parlare dell'uomo, il rincorrersi delle stagioni), riesce a parlare sottilmente e proprio per questo con grande efficacia non solo del nostro tempo, ma di ogni tempo in generale (senza spazio per la retorica sbrodolante o il cinismo imperante del mondo "indie"). Il tutto con una gestione della materia sonora che non è semplice accompagnamento, ma vero elemento strutturante, alveo di scorrimento che detta un ritmo, una curvatura, e impone un preciso respiro (morbido, ampio, quieto, disteso, tra momenti di placido scorrere e altri di intenso erompere) alle liriche. 

Insomma, un gran pezzo dove musica e testo sono strettamente interrelati, unendo songwriting nostrano (quanti i cantautori contemporanei che pensano che basti un buon testo per fare musica) e ibridazione sonora creativa, coraggiosa, totale. Una canzone che rimarrà, come l'albero in questione, ben piantata a terra, nonostante tutto.

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