Non molti anni fa, a Londra e dintorni, si faceva largo una scena tanto entusiasmante quanto effimera, tanto effimera da non meritare neanche - nonostante tratti stilistici piuttosto omogenei - un nome (e un nome se lo meritano tutti, basti pensare che per l'ondata precedente, quella che riprendeva e attualizzava il post-punk e il garage rock, si era scelta la pessima etichetta di nu-new wave).
Il primo interrogativo, quindi, è proprio relativo alle supposte similitudini in grado di giustificare un accomunamento: il Guardian si poneva la stessa domanda recensendo uno degli album cardine di questo "rinascimento", parlando di un pop "un po' più strano, un po' più espanso", concludendo che "for the purposes of music journalism, though, three bands is a scene". Bene così, quindi.
Il primo interrogativo, quindi, è proprio relativo alle supposte similitudini in grado di giustificare un accomunamento: il Guardian si poneva la stessa domanda recensendo uno degli album cardine di questo "rinascimento", parlando di un pop "un po' più strano, un po' più espanso", concludendo che "for the purposes of music journalism, though, three bands is a scene". Bene così, quindi.
Che qualcosa stesse cambiando lo si capiva già nel 2008: i Bloc Party pubblicavano "Intimacy", un album duro e intenso, contaminatissimo di elettronica, post-punk, urticanti stratificazioni sonore, volumi impattati, strutture contorte e frenetiche (nonostante alcune splendide ballate). Qualcuno liquidò la cosa come "l'ennesima virata elettronica dell'ennesima band indie", ma c'era qualcosa di più. Si tendeva a lavorare non solo sulla resa sonora e sul songwriting, ma anche sulla profondità delle texture, sulla ricerca di soluzioni compositive nuove, stranianti, dagli strati in reverse alle accumulazioni di synth, fino all'uso al contempo rumoristico e ambientale delle chitarre.
Altro lavoro spartiacque, il meraviglioso "Fantasy Black Channel" dei Late of The Pier, contorto e caleidoscopico gioiellino synthpop capace di spazzare via la concorrenza con un mix torrenziale di psichedelia graffiante, cenni glam mutanti, pose futuristiche, ambizioni progressive, blocchi di ritmiche squadrate e granitiche, il tutto veicolato da una scrittura completamente eccentrica e imprevedibile.
In realtà, ascoltando i lavori appena passati in rassegna, ci si potrebbe limitare a parlare di mutazioni in casa nu-rave (da qui si passerà, sulla strada preparata dai Klaxons, per i radicali lavori dei The New Puritans), ma sarebbe disonesto non notare anche uno spirito nuovo, un diverso approccio alla materia, un qualcosa in più che presto avrebbe dato i suoi frutti grazie ad una manciata di giovani band.
A sparigliare completamente le carte, quindi, ci pensa il secondo lavoro di un gruppo che due anni prima era stato relegato entro i confini del revival goth, e che aveva fatto clamore soprattutto per un'estetica appariscente e strampalata. Il progetto The Horrors sforna però un sophomore catartico, capace di mettere insieme una serie di ingredienti finora solamente accennati da altre realtà, per un'alchimia vincente. "Primary Colours" unisce le passioni di un quintetto di entusiasti musicofili: garage, rock gotico, shoegaze , neo-psichedelia e post-punk (quello di Chameleons, Julian Cope, Birthday Party e Psychedelic Furs). Queste le principali coordinate. Il suono risultante, però, è inevitabilmente maggiore della somma delle parti. Suoni trattatissimi, synth traslucidi, tremolanti e atmosferici, sferraglianti chitarre shoegaze, strati sonori su strati sonori, canzoni impeccabili: eccolo qui uno dei capolavori del recente rock britannico.
Un lavoro dello stesso anno può aiutare a capire il grande salto compiuto dagli Horrors. Ascoltando il bel "Exploding Head" degli statunitensi A Place to Bury Strangers si ritrovano la furia dei distorsori e le estreme manipolazioni sonore, ma non quel sovrappiù estetico e stilistico, quella trasognatezza intellettuale al contempo feroce e viscerale dei colleghi inglesi.
Un'altra band legata a doppio filo a Badwan e soci (è stato proprio Rhys Webb a garantire un forte supporto) è quella dei londinesi TOY. Il loro esordio datato 2012 è qualcosa di fulminante: la carica urbana ed elettrica dei Sonic Youth, la vibrante psichedelia chitarristica e un tocco di krautrock che permea le ritmiche con un ipnotico passo motorik. Meno intellettuali degli Horrors e, in qualche modo, più legati ad una tradizione più esplicita (sono evidenti, qui, i riferimenti stilistici che vanno dal garage anni Sessanta al glam, dalla musica cosmica tedesca al noise ottantiano), i TOY sono una inaspettata ventata di freschezza, confermandosi da subito come una delle realtà rock più importanti della contemporaneità.
Ed eccoci al terzo esemplare direttamente legato ai due gruppi appena citati: la meteora S.C.U.M, da Londra, è l'esempio di quanto un certo suono (qui, in particolare, quello degli Horrors del terzo disco, "Skying", pietra miliare del pop contemporaneo) avesse attecchito, e di quante potenzialità si celassero nella nuova formula: un rock psichedelico altamente estetizzato, vaporizzato, espanso, capace di riportare alla mente tanto i riti pagani dei Red Temple Spirits quanto un glam rock fortemente stilizzato (i vocalizzi del cantante Thomas Cohen sono un marchio di fabbrica che, pur funzionando su disco, non reggono la prova live). Il sound degli S.C.U.M accentua il lato etereo della proposta, mettendo in risalto i synth traslucidi e sfilacciando le chitarre in matasse setose e impalpabili, di volta in volta addensate in gangli noise, per una sorta di teatrino dell'orrore "meta-shoegaze" capace però di mostrare un complessivo, godibilissimo, lato pop. Emergono anche qui pezzi altisonanti, carichi fino all'estremo, teatrali, densi di romanticismo lugubre, curatissimi in sede di produzione.
Completata la triade sarebbe però sbagliato non allargare il campo. A partire dalla fine degli anni zero, infatti, l'indie-rock inglese non è accomunato soltanto da riferimenti stilistici piuttosto (anche se mai troppo) omogenei, quanto dal recupero di un'attitudine alla grandeur enfatica, al romanticismo esasperato, al tentativo di uscire dalla rilassatezza alternativa per mirare in alto, giocando le proprie carte con enfasi e magniloquenza ostentata.
I Chapel Club e i White Lies sono forse gli esempi più appropriati. I primi, dopo un Ep fenomenale (e per molti versi rivelatore, vista l'intensità della proposta), pubblicano "Palace", un lancio stupefacente, di stazza superiore: basi shoegaze potenziate da una self-confidence inedita, inusuale per l'indie del periodo. Il modo in cui le chitarre fluttuano, si stratificano, si piegano melliflue, rappresenta il legame più forte per poter parlare di scena, rendendo più che verosimile l'appartenenza allo stesso ramo di Horrors e soci, per quanto i Chapel Club siano stati capaci di generare una propria discendenza (penso agli Airship e ai Lowline).
I secondi, invece, legati al revival gotico dei Duemila, con il loro "Big TV" traslano tutte le caratteristiche proprie della presunta scena in un indie-rock enfatico e anthemico, degno della migliore tradizione british anni Ottanta.
Nel mezzo ci sono tante cose: sul lato gotico gli Ulterior e i grandissimi O Children (ma anche gli Editors in versione electro-kraut), sul lato dream pop gli Zulu Winters e gli Egyptian Hip Hop, fino ad arrivare al tentativo di revival baggy, con i Peace a suggerire fertili connessioni con la scena e i Sulk a consolidare il tutto. Poi, a partire dal 2013, ogni fermento si esaurisce, riassorbito da uno scorrere indistinto, dove sembrano spiccare (anche in UK, si pensi a FKA Twigs) le correnti black, rinvigorite dal movimento Black Lives Matter.
Si registra qualche sparuto tentativo di richiamare gli antichi fasti (gli Eagulls e i Sulk nel 2016, ad esempio), senza contare gli Horrors che continuano a camminare a testa altissima, ma per il resto l'onda di fine anni zero e inizio anni dieci è già un ricordo. Un ricordo effimero, che sembra aver lasciato un'impronta troppo flebile nelle nuovissime generazioni. Chissà se si ritornerà a percorrere quella fortunata scia. Chissà se allora, qualcuno oserà addirittura affibbiarle un nome, a quella scena.
Per completisti:
Girls Names - The New Life (2013)
Completata la triade sarebbe però sbagliato non allargare il campo. A partire dalla fine degli anni zero, infatti, l'indie-rock inglese non è accomunato soltanto da riferimenti stilistici piuttosto (anche se mai troppo) omogenei, quanto dal recupero di un'attitudine alla grandeur enfatica, al romanticismo esasperato, al tentativo di uscire dalla rilassatezza alternativa per mirare in alto, giocando le proprie carte con enfasi e magniloquenza ostentata.
I Chapel Club e i White Lies sono forse gli esempi più appropriati. I primi, dopo un Ep fenomenale (e per molti versi rivelatore, vista l'intensità della proposta), pubblicano "Palace", un lancio stupefacente, di stazza superiore: basi shoegaze potenziate da una self-confidence inedita, inusuale per l'indie del periodo. Il modo in cui le chitarre fluttuano, si stratificano, si piegano melliflue, rappresenta il legame più forte per poter parlare di scena, rendendo più che verosimile l'appartenenza allo stesso ramo di Horrors e soci, per quanto i Chapel Club siano stati capaci di generare una propria discendenza (penso agli Airship e ai Lowline).
I secondi, invece, legati al revival gotico dei Duemila, con il loro "Big TV" traslano tutte le caratteristiche proprie della presunta scena in un indie-rock enfatico e anthemico, degno della migliore tradizione british anni Ottanta.
Nel mezzo ci sono tante cose: sul lato gotico gli Ulterior e i grandissimi O Children (ma anche gli Editors in versione electro-kraut), sul lato dream pop gli Zulu Winters e gli Egyptian Hip Hop, fino ad arrivare al tentativo di revival baggy, con i Peace a suggerire fertili connessioni con la scena e i Sulk a consolidare il tutto. Poi, a partire dal 2013, ogni fermento si esaurisce, riassorbito da uno scorrere indistinto, dove sembrano spiccare (anche in UK, si pensi a FKA Twigs) le correnti black, rinvigorite dal movimento Black Lives Matter.
Si registra qualche sparuto tentativo di richiamare gli antichi fasti (gli Eagulls e i Sulk nel 2016, ad esempio), senza contare gli Horrors che continuano a camminare a testa altissima, ma per il resto l'onda di fine anni zero e inizio anni dieci è già un ricordo. Un ricordo effimero, che sembra aver lasciato un'impronta troppo flebile nelle nuovissime generazioni. Chissà se si ritornerà a percorrere quella fortunata scia. Chissà se allora, qualcuno oserà addirittura affibbiarle un nome, a quella scena.
Discografia consigliata
Immancabili:
The Horrors - Primary Colours (2009)
Klaxons - Surfing the Void (2010)
Airship - Stuck in This Ocean (2011)
Chapel Club - Palace (2011)
The Horrors - Skying (2011)
The Vaccines - What Did You Expect From the Vaccines? (2011)
Egyptian Hip Hop - Good Don't Sleep (2012)
TOY - TOY (2012)
O Children - Apnea (2012)
Peace - In Love (2013)
The Horrors - Skying (2011)
The Vaccines - What Did You Expect From the Vaccines? (2011)
Egyptian Hip Hop - Good Don't Sleep (2012)
TOY - TOY (2012)
O Children - Apnea (2012)
Peace - In Love (2013)
White Lies - Big TV (2013)
Da ascoltare:
Da ascoltare:
Glasvegas - Glasvegas (2008)
The Big Pink - A Brief History of Love (2009)
Editors - In This Light and on This Evening (2009)
White Lies - To Lose My Life (2009)
The Big Pink - A Brief History of Love (2009)
Editors - In This Light and on This Evening (2009)
White Lies - To Lose My Life (2009)
Chapel Club - Wintering EP (2010)
O Children - O.Children (2010)
O Children - O.Children (2010)
Lowline - Lowline (2011)
S.C.U.M - Again Into Eyes (2011)
Zulu Winter - Language (2012)
Sulk - Graceless (2013)
Per completisti:
Girls Names - The New Life (2013)
Splashh - Comfort (2013)
TOY - Join the Dots (2013)
Tripwires - Shimmer (2013)
Ulterior- The Bleach Room (2013)
Younghusband - Dromes (2013)
Childhood - Lacuna (2014)
TOY - Join the Dots (2013)
Tripwires - Shimmer (2013)
Ulterior- The Bleach Room (2013)
Younghusband - Dromes (2013)
Childhood - Lacuna (2014)
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