Recensione ► Shabazz Palaces: "Quazarz: Born on a Gangster Star" + "Quazarz vs. the Jealous Machines" (Sub Pop, 2017)

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È sempre difficile entrare nel mondo sonoro degli Shabazz Palaces: il loro sci-fi hip-hop è un incompromissorio impasto di elettronica “cloudy”, di blocchi timbrici scomposti, di flussi apparentemente non irrelati, di flow astratti. Il rischio è quello di fermarsi alla facciata nerd, freddamente calcolata, della proposta. Eppure ogni volta tocca ricredersi, almeno parzialmente: nel sound di Ishmael Butler e Tendai Maraire c’è qualcosa di più, una tensione estatica che unisce le parti, una sensibilità estetica -ecco- che aggiunge fascino e solidità alla materia a prima vista disaggregata.

Questa volta, però, Butler e Maraire, mettono ulteriormente alla prova i loro ascoltatori. Doppio album, concept spazial-fantascientifico in due episodi: la storia dell’emissario Quazarz -non così diversa da quella di Navita, per quanto il tema portante, qui, siano le nuove tecnologie- si dipana lungo il primo “Quazarz: Born on a Gangster Star” (dato alla vita in due settimane con l’aiuto del produttore Erik Blood) e il gemello “Quazarz vs. the Jealous Machines” (dalla gestazione più lunga, prodotto da Sunny Levine), due album separati e allo stesso tempo inscindibili, quindi da analizzare come parti di una stessa operazione concettuale (e commerciale). Per questo è preferibile riunire le riflessioni sui due capitoli in un unico scritto.
 
1- Quazarz: Born on a Gangster Star

Tribalismo oscuro e basso roboante, lame di synth, gorgoglii elettronici: “Since C.A.Y.A.” si apre così, con le rutilanti scale discendenti del basso di Thundercat e quel rapping annoiato, fumoso, come uno Snoop Dog vaporizzato, mentre la ritmica frammentata procede quasi a casaccio, in una generale impro che porta con sé una tradizione che va da Sun Ra a Flying Lotus. Più decisa e scattante la successiva, immersa negli eco, “When Cats Claw”, minimalista e secca, mentre con “Shine a Light” si torna su una dimensione stranamente terrena, con Butler che scandisce i versi su un groove gonfio, magnetico, e la voce in autotune di Thadillac che ripete un melodioso ritornello tra i profumati archi di un sample soul anni Sessanta (si tratta di “I Really Love You” di Dee Dee Sharp).

Si ripetono, nel corso dell’ascolto, episodi di elettronica sperimentale di marca wonky (le spianate ambient di “Dèesse du Sang” e “The Neurochem Mixalogue”), che avvicinano i nostri alla musica di Flying Lotus, seppur calcando su una maggiore fluidità “misterica”, come non mancano composizioni del tutto astratte e radicali (è il caso dell’ipnotica “That’s How City Life Goes”). Episodi, questi, integrati discretamente in una scaletta capace di regalare momenti più compatti, come il jazz-rap cosmico di “Parallax”, fluida estasi stereofonica condotta su un frusciante pattern di hi-hat, e la spumeggiante “Moon Whip Quäz”, insolitamente easy listening, dotata di una sensibilità pop finora mai così esplicita.

Questo primo episodio è quello dove, forse, è maggiore la carne messa al fuoco, lasciando le maggiori dosi di astrattezza e sperimentazione al capitolo successivo. Il velo di ambiguità che separa/unisce Butler e il suo alter ego Quazarz è sempre presente, rendendo di difficile intelligibilità una narrazione aleatoria, per nulla lineare, che sfrutta una poetica di liberi accostamenti, immagini giustapposte, astrattismi che alternano giochi metrici a più concrete esigenze espressive.

2- Quazarz vs. the Jealous Machines

È la seconda parte della saga, si diceva, quella più eterea e complessa: le atmosfere si rarefanno, per una resa ancora più abstract e impalpabile, dove si perde tanto l’urgenza espressiva del primo episodio, quanto gli appigli ad una materia sonora un minimo orientata al gancio melodico, o più semplicemente all’orientamento. Spianate di algidi synth, ritmica fantasmatica, espansioni siderali, minimalismi tribal-futuristi, rapping squagliato, gassoso.

Se una delle caratteristiche base del progetto Shabazz Palaces è sempre stata quella della non immediata decifrabilità (ogni lavoro si svela poco a poco, richiede un certo impegno nel sondare le textures: solo così si notano nuovi anfratti, nuovi dettagli, particolari nascosti nel caos apparente, improbabili ganci melodici), questa volta i punti di riferimento sono davvero pochi, dispersi in un etere fumoso, estremamente rarefatto.

A partire dalla prima “Welcome to Quazars” siamo immersi in una nebulosa di digitalismi elementari, di synth globulari che si espandono e contraggono, di flow rallentati e impantanati in tessiture collose, riportando alla mente sia i primi tentativi ambient/IDM che certi passaggi glitch contemporanei. Si passa dalle torbide atmosfere primi anni Novanta di “Gorgeous Sleeper Cell” al glitch etereo della fascinosa “Atlaantis” (ricordate cLOUDDEAD?), dalle reminiscenze soul di “Effeminence” alle sequenze di accordi trasognati di “Love in the Time of Kanye”, fino alle effervescenze pulsanti e ludiche di “Julian’s Dream (Ode to a Bad)” e agli esperimenti al sapor di Throbbing Gristle/This Heat di “Sabonim in the Saab on ‘em”.

Quindi?

Ambizione o abuso? Il confine è davvero labile, e questa volta il rischio è che si sia davvero andati fuori dal seminato: difficile dire quanto, qui, si possa parlare di sperimentazione piuttosto che di sterile esercizio stilistico. Certo, un ascolto non basta, così come non ne bastano dieci, vista la mole di materiale. Per ora, però, la verità sembra stare nel mezzo: tanta carne sul fuoco eppure scarsa visione d’insieme. Le idee -che ci sono- sono diluite in eccessiva soluzione, minacciando la fruibilità di un lavoro che piacerà, forse, ai fan del duo, ma respingerà gli altri, peccando di troppo cerebralismo e limitata concretezza. Di certo un abbondante taccuino degli appunti: a buon rendere.

Recensione pubblicata su Storiadellamusica.it

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