Rispetto all’esordio, il sound della band si ibrida ancora di più, divertendosi a giocare con componenti plurime, tutte unite da uno sfrigolante abbraccio power pop, per una sorta di versione meno manifestamente istrionica degli Orwells.
Celebrativi ed energici, i White Reaper partono alla grande, tra le ovazioni del pubblico in apertura della title-track, che sfoggia tenaci schitarrate alla Who incastonate lungo un guizzante andazzo garage. Come non pensare direttamente ai Cheap Trick ascoltando brani come “Judy French” o “Little Silver Cross”, o ai Ramones nella filastrocca di “Party Next Door”, o ancora ai Supergrass in “The Stack”? Eppure non è tutto, perché le chitarre si lanciano spesso e volentieri in energiche e godibilissime incursioni Aor, mentre la spigliatezza delle composizioni ricorda tanto l’estro pop-wave dei The Cars, quanto la spigliatezza di certo skate punk anni Novanta. Il tutto -e questo è il bello- perfettamente equilibrato tra ammiccamenti mainstream e sottocorrenti alternative, mantenendosi sempre all’interno della famiglia allargata rock’n’roll a stelle e strisce.
Insomma: che li si prenda sul serio o meno è cosa di poca importanza, perché i White Reaper vanno a segno senza troppi sbrodolamenti o sofismi, dimostrando il loro valore in poco più di mezzora di durata, con pezzi veloci e precisi, ognuno un sapiente mix di ingredienti, oltre che manifestazione di istrionismo e buona scrittura. La strada sembra essere tutta in discesa, viste le premesse.
Recensione pubblicata su Storiadellamusica.it
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