Proudhon revisited

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Da un po' di tempo a questa parte un nuovo soggetto politico-culturale sta tentando di prendere piede nel desolato, frantumato, polverizzato e disarmato contesto italiano. I "Circoli Proudhon", disseminati lungo tutto il territorio, organizzano incontri letterari, cineforum, momenti di riflessione su storia, politica, economia, cultura. Il tutto nel nome della "dissidenza" e della "controcultura", contro un esteso e minaccioso "pensiero dominante". 
Tra i riferimenti più in vista, Gramsci.

Cosa sono a questo punto i Circoli Proudhon, e a quale pensiero sono legati? Il Circolo Proudhon nasce come casa editrice nel 2014, e rappresenta il "progetto parallelo" dell'Intellettuale dissidente, quotidiano online nato nel 2011. Il Circolo si organizza infine sul territorio grazie alle sue diramazioni territoriali, le quali sono concepite come veri e propri organi operativi dotati di precisi obiettivi, tra cui quelli di "fare egemonia" e "favorire la rapida circolazione del pensiero in rivolta”.

Ora, una delle prime cose che salta all'occhio a proposito dell'Intellettuale Dissidente e delle sue ramificazioni, è il suo "surfare" tra riferimenti culturali plurimi, quando non opposti: si parla spesso di Antonio Gramsci, passando per entusiaste disamine delle bonifiche fasciste, le solite critiche all'economicismo di Marx, e le non troppo timide aperture alla "sovranista" Le Pen, finendo con l'attaccare il 25 Aprile mettendo sullo stesso piano nazisti e partigiani ("quel Settentrione martoriato dall’occupazione nazista e dalla guerriglia delle bande"). Un approccio di ibridazione culturale sfacciato, che ampollosamente diventa un piccolo e confuso manifesto ideologico:

"Non abbiamo la pretesa di fissare in categorie e forme chiuse la realtà, né di richiamarci ad un pensiero sistematico e astratto, ma crediamo che nella contraddizione e nel concetto di differenza risiedano le leggi per scoprire il funzionamento della società, nella speranze di restituire a questa la sua autonomia".

Il progetto, però, non si limita a una filosofia del potpourri ideologico, ma abbraccia una strategia egemonica più vasta, come si legge sul sito dell'Intellettuale:

"La politica deve trovare una nuova forma di espressione che non abbia più connotazioni ideologiche e settarie per vivificare il reale conflitto vigente all’interno di una società frammentata. Per questo stesso motivo l’azione politica deve essere “spoliticizzata”, e deve trasferirsi interamente nella cultura, nella garanzia di accessibilità che questa offre, al di là delle fazioni e degli schieramenti, come rete unitaria, come apparato organico, attraverso l’adesione ad un progetto unico, non delineato, non scritto, non manifestato, che non sia programmatico né schematico, ma che sia in medias res, nel mezzo delle cose, che non frammenti secondo la contrattualistica di un accetto o non accetto i termini, perché non vi sono condizioni, né obblighi di identificazione formale o oggettuale, ma la sola criticità nei confronti dell’ordine costituito attraverso cui ripensare nuovi modi di organizzazione dell’esistente".

In nome della "sola criticità nei confronti dell'ordine costituito" ci si propone dunque di costruire un progetto non formalizzato, "non scritto", che aleggi "in medias res" come un messaggio occulto, subliminale, lasciato libero di operare in un complessivo reticolo di stimoli culturali: l'ambito culturale, quindi, come unico terreno dove poter "vivificare il reale conflitto vigente". 

Il sospetto che, dietro questo insieme di propositi astratti, si celi in realtà una chiara posizione ideologica, e che questa sia, non a caso, proprio una di quelle ideologie che si vogliono tacere perché "disfunzionali" al recepimento del messaggio (il quale, appunto, va depoliticizzato, o meglio "mimetizzato"), è forte. La strategia è quella di far indossare abiti nuovi a un'idea vecchia per mezzo di un mimetismo che la renda irriconoscibile, digeribile, permettendo il recupero di un'attrattiva persa. 

Signore e signori, su il sipario: siamo di fronte al solito tentativo di propaganda che qualcuno chiamerebbe "rossobruna" che, partendo dalle presunte "radici sociali" del fascismo originario, cerca di riassumere ogni esperienza e ogni pensiero "critico" sotto un ombrello di riferimenti culturali tutt'altro che ibridi e neutrali. Tra gli eroi del Circolo, dunque, il Bombacci (il "comunista in camicia nera" fedelissimo a Mussolini), l'immancabile Ezra Pound, il mistico fascista Julius Evola, fino ad arrivare al fondatore della Nouvelle Droite De Benoist e al neo-hegeliano Fusaro. In mezzo, però, per confondere le acque e mostrarsi aperti e non ideologici, De André, Bob Dylan, Patti Smith (è interessante però la lettura poco elastica del rock) e ovviamente Gramsci (ricodificato come pensatore "nazionale e non unicamente comunista", e -ovviamente- "ucciso post-mortem" dai compagni, non dal regime fascista).

Un progetto, quindi, che cerca di far passare contenuti ben precisi non chiamandoli con il loro nome, promuovendo un discorso eccessivamente culturalista e svincolato da ogni riferimento sociale, diffondendo un anti-marxismo strisciante e, contemporaneamente, facendo passare contenuti di sinistra ma stretti in angusti spazi nazionalisti e rivendicazioni sovraniste (quindi, per usare un termine retrivo ma comprensibile: di destra), con una concezione estera che, tra un occhiolino a Assad e una spallata euroscettica, non ha nulla di innovativo e progressista, ripetendo un canovaccio di reazione e populismo anti-parlamentarista.

D'altronde, le idee chiare non servono: l'importante è abbindolare il pubblico convincendolo di un'innocenza che, in realtà, non c'è. Il gruppo de L'Intellettuale dissidente e del Circolo Proudhon è una realtà di destra (basti dare un'occhiata ai suoi esponenti) che, attraverso una rivisitazione del vocabolario, fa passare contenuti di destra. Legittimo? Certo. Ma intellettualmente disonesto.
Niente di nuovo sotto il sole.

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