Si potrebbe parlare di “teoria della convergenza” per band come EZTV, Real Estate, The Drums, DIIV, Surfer Blood, Hoops, Wild Nothing: un’incredibile vicinanza stilistica che, sfruttando matrici jangle per creare una matassa di soffice e contemporaneo dream pop, ha favorito un avvicinamento, ha creato un dialogo -spesso e volentieri mediato unicamente dalla musica- tra queste diverse realtà. Un processo che, a mio modo di vedere, non può che vedere citati i Beach Fossils come apripista: dal loro esordio omonimo del 2010, consacrato ad un freschissimo beach pop, quelle coordinate hanno iniziato a contaminare una bella fetta di indie americano (con una buona componente legata a Brooklyn).
Certo, da allora le cose sono cambiate. Un po’ perché -semplicemente- il tempo è passato, un po’ perché Dustin Payseur e i suoi Beach Fossils hanno rivisitato nettamente il loro sound, lavorando su una resa più elegante e rifinita, dove per la prima volta ci si confronta con arrangiamenti più ricercati del solito (le parti per archi sono state scritte dai componenti della band in una sola, lunga sessione di 17 ore, senza alcuna competenza in materia).
Il tentativo, dunque, è quello di rinnovarsi, allargando non solo gli orizzonti musicali, ma andando oltre l’individualismo di Payseur, che per la prima volta ha dato il via a uno sforzo corale coinvolgendo non soltanto i soci Jack Smith e Tommy Davidson nel processo creativo (“Normally and on past records, it’s been me in a room writing everything by myself […]. This then evolved into us all writing the songs together and what came out of that was really positive – so we decided to make an album out of that body of work”), ma aprendo a collaborazioni esterne (Rachel Goswell degli Slowdive nella bella “Tangerine” e il rapper Cities Aviv nel downtempo urban di “Rise”)
“This Year” parte in pieno stile Beach Fossils, con le chitarrine che ricamano un brioso fraseggio jangly, ma ecco che lievi arrangiamenti ingentiliscono il tutto, infondendo una leggera patina baroque pop anni Sessanta al pezzo. Tra i brani che più risentono del mutato spirito, le barocche “Saint Ivy” e “Closer Everywhere”, la prima saltellante su bozzetti di piano, solo di flauto e gradevoli partiture d’archi, la seconda una sfumata delizia dreamy con tanto di arrangiamenti per clavicembalo e incursioni febbrili di chitarra, ma anche la malinconica -e solidissima- “Sugar”, che sembra sfruttare un mellotron per infondere fragranze dolciastre alla composizione, la sperimentale sintassi ritmica di “Social Jetlag” (dove fa capolino l’influsso chill out di Toro Y Moi) e l’energica “Be Nothing”, con quella sezione centrale di psichedelia alla Toy incastonata in una scrittura rifinita come non mai.
Insomma, l’evoluzione c’è e si sente, riportando in pista, nel migliore dei modi, la creatura di Payseur. “With a little help from his friends”, questa volta.
Recensione pubblicata su Storiadellamusica.it
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