I Real Estate, si sa, fanno sempre primavera: non solo perché, come lo scorso "Atlas", anche il nuovo "In Mind" è uscito a marzo, ma anche perché il sound della band è da sempre caratterizzato da un approccio solare e brioso, un jangle-pop profumato e dreamy, di originaria ispirazione surf-pop, ideale per le limpide giornate di sole. Un marchio di fabbrica, insomma, che dal 2009 non smette di deliziare. Due gli assi portanti della band: il songwriting di Martin Courtney e gli arrangiamenti ariosi di Matt Mondanile.
Ora, a dir la verità, non mi sarei mai aspettato che il successore dell'acerbo -seppur interessante- esordio (quel fumoso lavoro omonimo che seguiva la scia di band come Beach Fossils e Desolation Wilderness, impegnate, sul finire degli anni zero, a mescolare indie e surf-pop) potesse anche lontanamente assomigliare a "Days", morbido coacervo di melodie cristalline e finissimi intarsi chitarristici. Eppure, a partire da quel lavoro, i Real Estate si confermavano come una delle più brillanti manifestazioni del pop alternativo americano, degni eredi di Feelies e Felt.
Se, però, già con "Atlas" (capace comunque di sfoggiare brani fenomenali come "Talking Backwards"), si notava un apporto meno dinamico dell'estroso Mondanile, sempre più impegnato con i suoi Ducktails, la conferma di un cambio di passo arrivava nel 2015 con il primo lavoro solista di Martin Courtney, vero anello mancante tra il terzo album a firma Real Estate e questo quarto episodio, orfano della chitarra magica di Mondanile, sostituito dal collaboratore di lungo corso Julian Lynch.
L'impressione, dunque, è che nonostante la buona qualità media delle composizioni, "In Mind" confermi un declino, o meglio una stasi, della proposta dei Real Estate: nessuna innovazione significativa (se non fosse per gli interventi in sede di produzione leggermente più marcati e un drumming più muscolare), ma la solita (per quanto gradevole) maniera compositiva: jangle pop cristallino e corale ("Darling", "Stained Glass"), dream pop sfumato, lunare e ciondolante ("Serve the Song", "After the Moon"), e piccoli gioiellini di pop anni Sessanta (l'armoniosa e byrdsiana "White Light"), il tutto sigillato da una scrittura folk-rock sempre più marcata.
Piacevole come sempre, il sound dei Real Estate avrebbe però bisogno di evolvere, di sganciarsi da quelli che potrebbero presto risultare dei cliché, limitando la resa di una proposta che è riuscita, negli anni, a conservare una sua freschezza (e in effetti, leggendo qua e là, non si sta parlando affatto male di "In Mind"). Questione di esigenze personali, dunque. Doppiare la meraviglia di "Days" pare improbabile, o si va avanti o si muore: il rischio è dietro l'angolo.
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