In "L'amore e la violenza" Bianconi sembra abbandonare gli eccessi dei capitoli precedenti (anche "I mistici dell'Occidente" non scherzava), facendo a meno dei continui rimandi biblici/mitologici da crisi di mezza età, dell'ipertrofia testuale delle liriche, recuperando invece una sorta di estetica della banalità (si prenda un verso come "che sciocchezza la guerra", o il testo di "La vita") che ritrova l'espressività allusiva e velenosa degli esordi, tornando finalmente a bilanciare i due elementi costitutivi della canzone: più rilievo alla musica e ruolo maggiormente funzionale e accessorio del testo (ché nella musica pop le liriche servono a poco, giusto a dare argomenti ai giornalisti delle pagine culturali dei quotidiani, anche se a volte con i testi ci si vincono i Nobel).
Esistenzialisti tristi e citazionisti incalliti da sempre, con il loro nuovo episodio i Baustelle riscoprono quindi leggerezza (addio orchestra, benvenuto mellotron) e slancio melodico, senza per questo abbandonare il gusto per l'arrangiamento ricco, per quanto riletto secondo canoni synthpop di stampo battiatiano, tra episodi tipicamente europei (la kosmische musik di "Lepidoptera", i riferimenti agli OMD di "Amanda Lear") e momenti chamber-chanson di ottima fattura ("La vita", "Ragazzina").
Tutto, in poche parole, viene ricondotto a un linguaggio squisitamente pop. Quando, nel 2013, un giornalista si lamentava con Bianconi riguardo alla difficoltà d'ascolto de "I mistici", lui rispondeva così: "perché siete giovani, siete abituati ad un certo tipo di fruizione della musica". L'impressione, oggi, è che Bianconi voglia fare il giovane, o meglio, farsi ascoltare dai giovani, o meglio ancora, farsi ascoltare dai propri coetanei con lo sguardo rivolto sardonicamente alla sensibilità giovanile: la formula, come già accennato, è quella di un turbinio mutevole di pop elettronico, ritornelli grassi e grossi, minutaggio rispettoso dell'ascoltatore. C'è però sempre una nota inattuale, un riferimento démodé, uno sguardo disincantato e eccessivamente cinico a rovinare la festa.
"Il vangelo di Giovanni", allora, colpisce per quel suo orecchiabilissimo refrain che dà il via a un beat squadrato e pressante, il tutto immerso in un'atmosfera che pesca direttamente dai Settanta-Ottanta italiani (quelli del Battiato elettronico e dei Matia Bazar), ma anche la bellissima "Betty" e la gradevole "Eurofestival" (la prima una densa ballata electro, la seconda un bel boogie sospinto da una batteria squadrata) hanno un vigore inedito, una prestanza energica e votata all'easy listening, per quanto gli arrangiamenti continuino a essere curatissimi e i temi trattati tutt'altro che faciloni.
E che dire della coda vocoderizzata e spaziale di "Basso e batteria", o del groove di "La musica sinfonica", o ancora del french touch di "L'era dell'acquario"? L'impressione è che il trio Bianconi-Bastrenghi-Brasini abbia riscoperto la voglia di giocare con il suono, di sperimentare mantenendosi però fedeli a una sorta di antico formato radiofonico ai tempi dell'internet. Il tutto in nome di una leggerezza che continua, pur scorrendo liscia a livello musicale, a essere pesante non appena si provi ad andare un pò più a fondo (e allora ecco che la contemporaneità diventa presenza ingombrante -quasi tutte le prime strofe indicano un fatto di attualità, dalle migrazioni alla jihad-, ogni volta elusa forzatamente dal procedere dei versi).
Perché, in fondo: "La vita è tragica / la vita è stupida / però è bellissima / essendo inutile / Pensa a un' immagine /a un soprammobile / pensare che la vita è una sciocchezza aiuta a vivere". Una bella sintesi, dopo vent'anni di attività. Una "scoperta" che ha portato bene a questo settimo album, infondendo una gradita sensazione di freschezza al settimo lavoro del trio di Montepulciano. Lunga vita, a questo punto.
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