"Marco Polo" è un disco teorico: l'esploratore del "Milione" diventa, più che un uomo da raccontare con occhi da biografo, uno spunto di (auto)analisi, un'ipotesi da validare. Marco Polo è un problema. "Marco Polo" è un disco esoterico, anche: i significati sono celati da una sintassi frammentata ed ermetica, istintiva ed essenziale, condotta a colpi secchi di sensazioni/annotazioni giustapposte, senza particolari nessi logici. Allo stesso tempo, però, tutto sembra frutto di una profonda meditazione, di una prassi rigorosa.
Fa specie, allora, pensare che un disco così ineffabile e astratto (sperimentale, quindi), sia stato "un disco fatto con l'industria, costato tantissimo con delle partecipazioni internazionali", come racconta Flavio Giurato intervistato da Fabio De Min. Un'industria che raramente ha accettato di avventurarsi in lidi tanto poco sicuri, di farsi carico di estremizzazioni sonore del calibro di quelle messe in atto qui da Giurato.
Registrato tra Roma, Milano e Londra, e qui prodotto da Sabina Grinling e Ray Cooper, pubblicato dalla CGD (la stessa di Giuni Russo, Patty Pravo, Umberto Tozzi, Pooh...), il terzo disco di Giurato è un disco difficile, studiato e pensatissimo, capace però di sciogliersi in un flusso totale, in un completo abbandono della ragione.
"La teoria dell'orientamento".
Questo il titolo della prima sezione, che già porta alle estreme conseguenze quanto fatto nel bellissimo episodio precedente ("Il tuffatore"): forzature vocali nette, frammenti armonici sparsi -le chitarre elettriche fugaci e taglienti, il rimbrottare del basso- ficcati sull'andamento di quel piano grave e insistente.
C'è già un perdersi, nei cenni bibliografici che sono immediatamente altro, diventando spunti trasfigurativi, metaforici ("Marco Polo è il vento / Che spinge il suo cammino"), oppure richiami ad archetipi di quotidianità universale ("E Marco Polo compra il pesce e poi / lo regala / Alla sua fidanzata"). Che si voglia dire qualcosa di più, che ci si voglia abbandonare a un flusso espressivo libero, lo si capisce nella successiva "Le Funi", eterno sciabordio di schiuma sugli scafi, incessante ripetersi di un verso che diventa musica, ritmo, mantra ("Di nuovo i marinai già tirano le funi"). Uno sguardo che si fissa su un dettaglio e sfuma, dilatando i contorni fino ad una trance radicale, vero sforzo di sopportazione tanto per l'ascoltatore quanto per il musicista, che rimane invischiato in una situazione apparentemente senza sbocchi, nonostante le lievi variazioni impresse allo scorrimento del brano.
Sennonché parte il viaggio, un viaggio ridotto ai minimi termini, al meccanismo dell'andare ("Vela e mare e vela e mare e vela e mare e vela e mare / E barca da guidare"). Stesso ripetersi, solo più energico: tutta qui la variazione, quella degli elementi, della forza, del ritmo, dell'intensità del rincorrersi di basso e batteria, delle scale delle chitarre, dei saliscendi sulle onde, dello "scat" furioso e astratto di Giurato. Una liberazione, però, un groviglio sciolto, la decisione di andare in un esotico che è "Terra / Santa / Mercato / Cammello".
La solenne "La Provvidenza" e la strumentale "L'Oriente" chiudono la prima sezione celebrando un nuovo orizzonte e al contempo volgendo lo sguardo all'indietro, con il richiamo al tema -sviluppato, rigenerato- di "Notte di concerto", dal lavoro precedente.
"La crescita".
La seconda sezione del disco segna anche un cambio di passo: la musica si fa più incisiva, le parole diventano più pregnanti, la riflessione -nonostante la voce fuori campo che declina scolasticamente cenni di vita di Polo- sempre più intima e pregnante. "Dal deserto armeno e dalle sue paure / Marco trae la forza / E nel deserto armeno e nelle sue paure / Marco cresce più in fretta". Difficile non pensare al deserto che seguirà alla pubblicazione dell'album, quei diciotto anni di silenzio prima del nuovo capitolo, "Il manuale del cantautore", come se tutto fosse stato già previsto, come se "Marco Polo" fosse concepito per essere insieme punto d'arrivo e fine. "Basta" ripete Giurato nel frenetico reiterarsi funkeggiante di "Nel deserto armeno", uscendo dal racconto storico per ricollocare la narrazione in una contemporaneità evidente.
Episodi coinvolgenti come "Il Grande Khan" e la bellissima ballata d'amore "Marco e Monica" ripropongono il savoir faire di Giurato, vero maestro eretico nell'arte della canzone, tra echi new wave e delicatissime rifiniture pop.
Si raccolgono momenti di quiete e piccole certezze ("E le stelle oltre il muro / Sono un fatto sicuro / Per chi non ha gli occhi stanchi") prima dell'ultimo episodio, summa di insegnamenti e commiato definitivo.
"Marco Polo lasciava a Venezia una società la cui musica
era fondata sulla fede.
La fede che uno più uno sia uguale a due.
In Oriente il Gran Khan gli dirà che la freccia è diversa dall’arco,
E che il bersaglio si muove continuamente.
Signori e Signore
Marco Polo".
La fede che uno più uno sia uguale a due.
In Oriente il Gran Khan gli dirà che la freccia è diversa dall’arco,
E che il bersaglio si muove continuamente.
Signori e Signore
Marco Polo".
Non c'è bisono di molto altro: rintocchi di piano in sequenza, echeggianti, perché tanto "Marco guarda il mare / Resta ad aspettare" (versi declamati in un pianto rotto). La freccia è diversa dall'arco: questa è soggetta a forze che eccedono l'azione dell'arciere, che vanno oltre la qualità dell'arco. Sono le forze del mondo, l'attrazione della gravità, a spingere in giù la freccia, loro che contribuiscono al raggiungimento del bersaglio. La volontà, allora, deve piegarsi a un mondo che non solo la condiziona, ma anche a un bersaglio che non è mai lo stesso. E allora, perché viaggiare? Il risultato del viaggio non è una meta, ma un ritorno: Marco si è perso e si è ritrovato nell'attesa, nel silenzio.
Ha imparato a aspettare e osservare.
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