Profughi

racconto Matteo Castello Profughi
La luce che taglia l’oscurità, un fascio che penetra dalla finestra, dalle tendine appena scostate, il bagliore di un guizzo riflesso dal vetro incorniciato, il microscopico pulviscolo della stanza illuminato nel suo volteggiare. Un gesto cristallizzato. Sorrisi. Una mano e l’altra, intrecciate. Un ricordo serbato in un flash. L’abitudine quieta conservata a mo’ di reliquia, una certezza inossidabile di come la vita può essere stabile, consueta, serena. Poi le scosse, la fretta, giù per le scale, prendi quello che riesci, ma sbrigati, forza! Quella foto rimasta lì, sul comodino, a raccontare qualcosa di noi ai poveri cristi che si sarebbero avventurati in quelle stanze. Forse sarà gettata via come uno scarto di vite inutili, residue. Residui, questo siamo. Le facce nella fotografia non sono che pallide illusioni di eternità, l’abracadabra di un presente catturato nell’attimo migliore. Ora c’è solo un lieve dondolio, la brezza fredda, lo sciacquio delle onde sullo scafo precario, l’oscurità più assoluta. Mille voci in una, un gemito unanime. È notte.


Lasciate passare! Lasciate passare la donna! Ai lati della barca si propagano, dal centro, una serie di spinte lievi, stanche, di una folla che si flette e ruota, cercando di aprire spazi al passaggio di una signora di mezza età, finalmente sputata fuori dal groviglio di gente, un centinaio di persone che ora, come un unico corpo, cercano di allontanarsi da quel margine vergognoso per lasciare alla donna un’impossibile privacy. Rimasugli di civiltà su quel mezzo traballante e colmo. Girare la testa, far finta di non vedere, di non sentire. Basta poco a ricreare un simulacro di discrezione. Una discrezione che rasenta, dopo due giorni di lento fluire, un fastidio crescente, neanche più tanto taciuto. Per fortuna è notte, la dinamica dei bisogni corporali coperta da un’oscurità piena, senza luna. L’imbarazzo negli occhi, però, quello si vede anche al buio. La signora ha finito e ora cerca di riconquistare la sua posizione. Probabilmente si sente più protetta al centro, non si sente soffocare, come il sottoscritto, dalla calca. Magari teme l’acqua. La gente protesta. Adesso basta, se ne stia lì, non possiamo ogni volta farci in quattro per far passare tutti! Elsje! Un grido, un uomo. Fatela passare! Elsje, vieni! Dev’essere il compagno. La donna arranca e spinge, infastidita di infastidire ma ostinata a rivendicare la sua esistenza su quella zattera. Solca la folla con irruenza, l’avrà già fatto altre volte, abituandosi agli spintoni, a non chiedere scusa per ogni piede pestato, per ogni equilibrio compromesso. Il vociare è sempre più forte, il nervosismo è un ronzio crescente, poi si placa. La donna ha ritrovato il marito. Per un po' nessuno oserà chiedere di andare a pisciare: chissà fino a quando durerà questo sforzo collettivo di resistenza. Trovare il coraggio per chiedere permesso. Un bimbo piange, non riesce a dormire. Nessuno riesce a dormire.

L’arrivo del sole lo si percepisce, prima ancora che spunti all’orizzonte, dalle modulazioni frizzanti che coinvolgono l’atmosfera. Si generano correnti e vibrazioni, l’aria si mette a vorticare, l’oscurità si dipana impercettibilmente, per poi, tutto d’un tratto, lasciarsi vincere dalle tinte ocra dei primi raggi. Ci siamo inventati un sistema improvvisato di tendaggi per ripararci dalla calura più insistente. Le magliette intrecciate, tese da elastici, fermagli, cime. Un angolo d’ombra per pochi, appena sufficiente a far riposare le tempie cotte dal sole. Prima le donne e i bambini, come sempre, ma già ieri si percepiva una tensione palpabile tra gli occupanti dell’imbarcazione. Quell’ombra era come l’acqua per gli assetati, la brama diventa presto foga, poi furore. Oggi sarà un disastro se non arriviamo a destinazione. Questo Mediterraneo sa essere sconfinato, quando ti ci trovi in mezzo. Sa essere crudele, quando il tuo principale obiettivo è abbandonarlo, lasciartelo alle spalle.

Tiro giù le ultime gocce di acqua rimaste nella borraccia. A bordo non è rimasto che qualche tozzo di pane e un paio di bottiglie di plastica. Non basteranno per tutti e il cielo è senza nuvole: sarà una giornata calda. Dobbiamo assolutamente avvistare terra. Quanto può essere vasto questo mare? Mi spingo verso poppa trascinandomi lungo il bordo dello scafo. Al motore c’è un tedesco secco secco che fin dal primo giorno ci ha spiegato che la benzina è quella che è, basta giusto per arrivare a destinazione ma non bisogna esagerare con l’accelerazione. “Long voyage, hard trip”. Long e hard, a quale dei due termini aggrapparsi, quale variante linguistica preferire? L’Europa è tutta qui. Siamo francesi, tedeschi, italiani, spagnoli, polacchi. La nostra terra ci ha respinto, le nostre città sono cadute una dopo l’altra in preda alla polvere, alla rovina, alle bande armate. Siamo confluiti a frotte in uno dei tanti porticcioli sulla costa diventati luoghi di imbarco per disperati, per fuggiaschi. Non c’è più nessun motivo per restare. Mi ricordo la piazza del mio paese anni fa, con i suoi caffè, la fontana ai cui bordi sedevano le coppiette, la vita dolce, la brezza che scendeva dalle colline a stemperare l’afa estiva, i fiori che parevano colare dai balconi della via centrale. Non pensavamo che tutto potesse cambiare così, all’improvviso. Ora i negozi sono vuoti e per strada ci sono tende e baracche, l’elettricità va e viene e i viveri sono razionati. I quartieri sono spopolati e le campagne sono terra di razzia. Valérie ed io siamo partiti per ultimi, abbiamo resistito finché era possibile, poi partire è stata l’unica soluzione: eravamo troppo compromessi per restare. Il consiglio comunale è stato sciolto, il Borgomastro catturato, tutti i membri resistenti del collegio e dell’arrondissement braccati e dispersi. Ci siamo separati a metà strada, lei è andata verso il Portogallo da alcuni amici, dove sembra che la vita in campagna possa essere ancora dignitosa. Io oltre il Mediterraneo, sperando in un Governo amico, in una protezione diplomatica, in un lavoro qualsiasi, in un briciolo di carità. Meglio smezzare la fortuna che rischiare di cadere in due, in una volta sola.

Starten den motor! Provo ad accennare un tedesco improvvisato. Nein, no, non si può, aspettiamo ancora un peu, terra ancora very distant. Lo dice con impazienza, come a voler essere spronato a fare esattamente il contrario, a dare su di giri e tentare di agguantare la costa il prima possibile. Il giorno sarà lungo e caldo, dico, dobbiamo avvicinarci ancora, non possiamo rischiare di passare un altro giorno in mare. La gente è allo stremo, non c’è più acqua. Parlo piano, per farmi capire. Mi guarda fisso per un po', poi mi fa segno di avvicinarmi e mi sussurra all’orecchio: don’t know where is the land. Non so quanto lontana. Entiende? Io al timone perché unico modo per salire sulla barca. Resto stordito. Tu n’as jamais conduit un bateau? Mai guidata una barca? Sssshht! Scheisse, zitto! Sì che l’ho già portata la barca, ma non qui, non sul Mediterraneo: touristen in Bodensee… Da tre mesi aspettavo di partire, solo così potevo. Senti, tu adesso accendi il motore e ci porti avanti, non importa quanto, ma dobbiamo gagner du terrain. Se finisce la benzina possiamo sempre continuare a vela, ok? Proprio in quel momento si leva un forte vociare, la gente si ammassa contro di noi. Un litigio furibondo al centro dell’imbarcazione: due uomini stanno contendendosi un pezzo di focaccia, uno sanguina, l’altro è riuscito a bloccargli il braccio che stringe quel pezzetto di cibo. Comincia a morsicare frammenti del rimasuglio rinsecchito direttamente dalla mano dell’avversario, fino a che quello non molla la presa e i due non si separano. Ok, we go, nous allons, vite!, dice finalmente persuaso il tedesco. Lo scossone dell’accelerazione improvvisa fa traballare tutti gli occupanti, costringendoli a rimettersi ai loro posti, seduti.

Il motore urla e non ci permette, a noi che stiamo al timone, di percepire nessun altro suono. Guardo la calca e mi sembra un quadro animato, vedo le bocche che si muovono ma non sento le parole, tutto è sordo, ovattato. Probabilmente con l’audio il risultato sarebbe lo stesso: una babele di parole incomprensibili. La tensione, quella si sente eccome. Gli uomini hanno i volti tirati, gli occhi torvi. Quello che poco prima era un vicino è diventato un fardello, uno scomodo ospite che toglie spazio e aria. Nessuno può più tollerare la promiscuità, le scomode posture di chi cerca di mettersi comodo, di fendere la folla per passare (e per andare dove?), i lamenti di chi ha fame, di chi ha sete, di chi è dolorante o ammalato. Anche i bambini sembrano feroci in quella turba. Tutto intorno una distesa liscia d’acqua, uno spazio immenso che sembra del tutto indifferente alla nostra presenza. Un paio di persone hanno improvvisato una rete con cui sperano di prendere qualche pesce. Una volta preso che ne faranno? Macché, non lo prenderanno mai. Mi immagino i pesci che, volontariamente, cominciano a saltare a bordo. Magari già cotti e fumanti. E poi l’acqua, una pioggia di acqua fresca. Il motore sbotta, borbotta, riparte col suo rumore assordante. Poi, d’un tratto, sputa un fumo nero e, senza un gemito, si spegne. Saranno le quattro del pomeriggio, il sole è alto e adesso, senza il vento della spinta, lo si sente tutto. Galleggiamo. Il tedesco mi guarda e dice tutto con gli occhi, però un tentativo di rimettere in moto l’elica bisogna farlo. Il tedesco, intanto, urla di tirare su la vela. Non soffia un filo di vento. Passano due, tre ore, e l’idea di un’altra notte e un altro giorno in queste condizioni risulta insopportabile, inconcepibile. Terra! Terra! Terra! Tutti si accalcano dalla parte del ragazzo che sta gridando sbilanciando l’imbarcazione. Quello, la bava alla bocca, si butta in mare e comincia a dar bracciate. Un altro lo segue, poi uno ancora. Di un lembo di costa nemmeno il profilo sfumato. Cerchiamo di recuperare quei pazzi, ne prendiamo due, del terzo nessuna traccia. Nessuno lo rivendica: ce ne sarà mai stato un terzo? Ci dimentichiamo ben presto dell’accaduto e ci raggomitoliamo su noi stessi, ciondolando su quella barca che sentiamo stretta, stretta come una bara del cazzo. Scende la sera e si leva il vento, si torna a scorrere. Dietro di noi, a tante miglia di distanza, si vedono i bagliori dei lampi che tempestano il nostro vecchio continente, come a volerci lanciare un ennesimo, non richiesto monito: non tornate mai più!

È notte fonda quando sento la barca sussultare, sballottata dal crescere delle onde. Porto la testa oltre la paratia ma non si vede niente, guardo in alto ed è pieno di stelle. La solita brezza ci spinge e non capisco cosa agiti il mare. Poi un abbaglio che mi lascia accecato. Sento il mormorio dei miei compagni di viaggio che si leva e infine una voce imponente arrivare dritta dal mare. “Mi sentite? Siete vivi? Stiamo arrivando, state fermi!”. Neanche a dirlo, tutti i passeggeri cercano di conquistare le estremità del mezzo facendolo piegare pericolosamente su un lato. Cerco di tenerli lontano sbracciando e spingendo, ma è tutto inutile: quelli davanti spingono, e se non spingono loro lo fanno quelli immediatamente dietro. È il caos, non c’è modo di fermare quella folle corsa verso il vuoto. Finché non si sente un forte botto e in alto esplode una saetta di scintille rosso fuoco che cominciano a precipitare a pioggia sulla cresta dell’acqua. Ognuno adesso è fermo, come incantato da quel segnale luminoso che permette all’imbarcazione dei soccorsi di capire quanti siamo. Il capitano continua a gridare di stare fermi, lo grida in tutte le lingue che conosce e questa volta la gente sembra dargli retta, anzi, regna l’immobilità, come se l’idea di abbandonare la barca inizi a spaventare i passeggeri. Dove finiremo? Cosa ci faranno? Dove ci porteranno? Viene lanciata una corda: il tedesco la afferra e in un attimo siamo assicurati al mezzo. Riesco a vedere che batte bandiera tunisina. I fari continuano a passare sopra le teste mentre tutti si scoprono inermi come non mai: gli stessi che fino a poco tempo prima riuscivano a lottare per il cibo ora sono alla stregua di una covata di pulcini impauriti. Per la prima volta non rimane che mettersi nelle mani di qualcun altro dopo aver contato per troppo tempo sulle proprie forze per scappare, trovare un rifugio, imbarcarsi, resistere alla fame, alla sete, alla disperazione. Il senso di impotenza supera il sollievo della salvezza: ora tutti sanno di essere profughi, di dipendere in tutto e per tutto dal paese che li prenderà in carico. Di dipendere dagli uomini con i visi scuri e le mascherine che ci chiedono di salire a bordo, prima le donne e i bambini, poi gli altri. Due membri dell’equipaggio si fanno largo sulla nostra scialuppa per sostenere i più deboli, pian piano la gente comincia a migrare sulla più imponente e sicura motovedetta dei soccorsi. Lì ci saranno coperte, acqua, un po' di cibo. Rimango stupito quando, per salire sul ponte, un ragazzo mi afferra il braccio per aiutarmi e mi dice “bienvenu”. Immediatamente penso ad una canzone che diceva “la vita è un carcere con le porte aperte”. Ecco: ora ho lasciato la mia cella galleggiante dopo aver lasciato una prigione ben più grande, una prigione che chiamavo casa. Da domani percorrerò altri corridoi, vedrò altre celle, le porte saranno aperte. O forse no? Forse sono fuori e non me ne sto rendendo conto. A bordo distribuiscono coperte e tè caldo.

Bienvenu. Benvenuto? Mi rendo conto che era più di ciò che mi aspettassi. Si piegano le gambe, mi sento svanire. Mi mettono addosso una coperta e chiamano un medico. Io mi sento solo stanco, stanco, stanco. Non penso a niente. Sento solo che adesso, qui, finalmente, posso dormire.
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