Una riflessione scritta nel 2013, in occasione della presentazione del libro "Contro i beni comuni. Una critica Illuminista" di Ermanno Vitale.
La prospettiva dei beni comuni, in
particolare dopo il referendum del 2011 sull'acqua pubblica, è stata
salutata come il nuovo paradigma su cui incentrare i più luminosi
progetti di emancipazione umana. L'intuizione salvifica, il nuovo
paradigma per una “narrazione” radicalmente alternativa. Il
bene-comunismo, si è detto: Marx torna di moda! Ecco però che il
presunto concetto passe-partout che avrebbe dovuto fornire l'emblema
delle future lotte e le basi ideali per riunire le anime disperse
della sinistra, rischia oggi di afflosciarsi proprio per la mancanza
di argomenti convincenti. O, se non per la mancanza, per l'ambiguità
e la vaghezza di tali argomenti. La ricerca di una narrazione non è
cosa sufficiente, nonostante i proclami post-moderni di chi pensa che
l'unica via per modificare la realtà sia quella di raccontarne
un'altra. Senza solide basi, ogni narrazione rimane quello che è: un
racconto, non la realtà.
E allora: cosa sono i beni comuni?
Uno dei primi riferimenti teorici
risale all'ecologista (zoologo e micro-biologo) americano Garrett
Hardin. In un celebre articolo del 19681,
nel clima di rottura e di “immaginazione al potere” allora
dominante, il suo “The Tragedy of Commons” ha inaugurato
un filone destinato a durare nel tempo, marchiando a fuoco
l'approccio ambientalista contemporaneo. Il problema dell'esaurimento
delle risorse comuni come l'acqua, l'atmosfera, le foreste, i banchi
di pesci, (ecc.) è diventato l'ultima frontiera del catastrofismo,
capace di dominare gli incubi dell'immaginario collettivo, allora già
piuttosto sferzato dai venti infausti di una possibile catastrofe
nucleare.
Tutto parte, quindi, da una narrazione:
quella di un pascolo con un gregge. Il pascolo non è recintato,
tutti possono portarvi le proprie bestie a pascolare in piena
libertà. Il mondo in questione però, quello dei pastori della
favola, è fatto di individui egoisti e unicamente interessati al
proprio tornaconto personale (dei perfetti imprenditori capitalisti).
Questo porta ogni pastore ad aumentare il numero di bestie
all'interno del pascolo, dal momento che anche gli altri, in assenza
di vincoli, lo faranno. Il risultato è il sovra-pascolo e
l'esaurimento della terra, per un risultato complessivo devastante,
seppur basato sulla razionalità individuale. A causa del libero
accesso, secondo Hardin, l'esaurimento è il destino di tutte
le risorse comuni, considerate come risorse su cui non esistono
diritti di proprietà. Le conclusioni di Hardin sono sconcertanti: la
soluzione al problema è la proprietà privata accoppiata a regimi
ereditari (per quanto riguarda i beni immobili e altri beni
materiali). Una soluzione perfetta? No, dice Hardin, ma sempre meglio
dell'alternativa dei beni comuni, troppo orribile per essere presa in
considerazione. E
l'ingiustizia, aggiunge, è preferibile alla rovina totale.
Il problema dei
commons, per Hardin, ha però una componente di fondo ben più
insidiosa. Sarebbe infatti l'eccesso di popolazione a rappresentare
l'insormontabile problema. Qui conviene citare direttamente Hardin:
“se ogni famiglia umana fosse dipendente solamente dalle sue
proprie risorse; se i bambini dei genitori improvvidi morissero di
fame; se quindi l'eccesso della popolazione portasse con sé la sua
stessa punizione; allora non ci sarebbe interesse pubblico a
controllare la procreazione delle famiglie. Ma la nostra società è
profondamente compromessa con il welfare state, e quindi ha a che
fare con un altro aspetto della tragedia dei beni comuni (cioè
quello dell'insostenibilità del diritto a procreare e del parallelo
diritto ad avere uguale accesso ai beni comuni, ndr)”2.
Insomma, a questo tipo di problemi, come da tradizione malthusiana,
non esistono soluzioni tecniche, ma solo qualche forma coercitiva a
autoritaria di controllo. La libertà di procreare deve essere negata
(checché ne dica la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo),
e i commons, in quanto “orrori” di per sé, vanno sottoposti a
regimi di proprietà chiari e definiti. Non è troppo implicita la
preferenza dell'autore per regimi di proprietà privata. Se si pensa
che dopo pochi anni viene pubblicato il rapporto del Club di Roma sui
Limiti dello sviluppo, e dopo pochi anni ancora si instaura su larga
scala l'esperimento neoliberista privatizzatore, la “narrazione”
è bella che fatta.
Il fantasma di
Malthus infesta gran parte del pensiero ecologista.
Secondo la visione
malthusiana il mondo sarebbe dominato dalla lotta degli individui per
il controllo di risorse scarse. Tale lotta è destinata ad avere
esiti disastrosi a causa della crescita insostenibile della
popolazione, la quale eserciterebbe una pressione eccessiva sulle
risorse. Se ne deduce che la povertà rappresenta un fatto naturale,
biologico. Un problema di spazio, parafrasando Hardin. Un celebre
articolo di Hans Magnus Enzensberger3
mette in guardia contro gli elementi ideologici e irrazionali di tale
concezione. I neo-malthusiani, ci dice, hanno avuto grande diffusione
negli Stati Uniti tra gli anni '50 e i primi anni '60, periodo nel
quale le lotte di liberazione dei popoli del terzo mondo diventavano
un problema sempre più grande per l'America. In questo periodo,
durante il quale la campagna del Population Council per la diffusione
del verbo malthusiano riceveva finanziamenti dalla Ford e dalla
Rockfeller Foundation, il presidente Lyndon Johnson diceva che
“spendere cinque dollari in America latina per il controllo
delle nascite è più utile che centinaia di dollari per la crescita
economica”4.
Per Enzensberger, una così pressante attenzione sul tema della
crescita della popolazione, oltre ad essere il portato di elementi
razzisti e irrazionali, rifletteva anche il timore che gli Stati
Uniti potessero essere messi in difficoltà dalla spinta che il
crescere della popolazione avrebbe comportato sui sistemi industriali
dei paesi asiatici e latino americani. Una prospettiva corretta,
visto il ruolo odierno di paesi come India, Cina e Brasile (che però
hanno anche investito ampiamente, va da sé, nella crescita
economica).
Ciò che il
pensiero neo-malthusiano professa è dunque la naturalizzazione dei
fenomeni di scarsità e di povertà, astraendoli dalle determinanti
storiche e sociali, ignorando del tutto la questione redistributiva.
Quello
che ci dice Iain
Boal5
è che questi fenomeni sono invece sociali, e come tali vanno
analizzati. La visione di Malthus, ricorda Ted
Benton6,
era del tutto legata ad un'interpretazione “particolare” dei
fenomeni sociali di quell'epoca: un'epoca in cui il capitalismo
creava un immenso esercito di riserva di forza lavoro, cioè una
massa di disoccupati ridotti alla fame dall'impresa capitalista. In
questo contesto Malthus reificava il fenomeno e si poneva contro le
Poor Laws, le quali avrebbero permesso ai poveri di continuare a
procreare, innescando così la bomba della crescita della
popolazione. Su questo tema le parole di Marx sono più che
eloquenti: “Così
l'Inghilterra trova che la miseria ha il suo fondamento nella legge
di natura, secondo la quale la popolazione supera necessariamente i
mezzi di sussistenza. Da un'altra parte, il pauperismo viene spiegato
come derivante dalla cattiva volontà dei poveri...”7.
Non era però la natura a determinare la sofferenza di queste masse
diseredate, bensì l'appropriazione iniqua della ricchezza da parte
di una determinata classe sociale.
La
tragedia dei beni comuni incappa in un ulteriore vicolo cieco dal
momento che diversi studiosi, tra cui Susan
Jane Buck Cox8,
hanno dimostrato che gli esempi addotti da Hardin -negli anni
successivi al famoso articolo del 1968- riguardanti i commons
dell'Inghilterra post-medievale, sono del tutto inaccurati. Il
declino delle terre comuni (soggette a regole precise riguardo al
come e al chi avesse diritto ad usarle) non sarebbe stato infatti il
risultato dell'accesso libero alle stesse, ma delle “forze
storiche della rivoluzione industriale, della riforma agraria e delle
innovazioni nelle pratiche agricole”9.
Le enclosures del '700 e '800 sarebbero state non la soluzione al
problema, ma parte del problema stesso. I commons, spiega la Buck Cox
“erano
attentamente e coscienziosamente regolati, e quei casi in cui i
commons si deteriorarono furono perlopiù dovuti alla violazione
della legge e all'oppressione dei possidenti più poveri piuttosto
che a un abuso egoistico della risorsa comune”10.
Gli abusi e le violazioni di tali regole da parte dei ricchi
proprietari -come puntualizza anche Angus (2008)- sfociarono negli
Enclosure Acts, veri e propri furti di terra a vantaggio dei ricchi
proprietari terrieri.
Questo
ci deve far riflettere su un elemento complessivo legato alla
questione ecologica generale: il fatto che i problemi ambientali non
possano essere analizzati in maniera isolata, ma debbano essere
compresi nella loro dimensione sociale. Ci dice Enzensberger11
che, nel caso dell'uomo, la mediazione tra il tutto e le parti, tra
il sistema globale e i vari sottosistemi non può essere spiegato
dagli strumenti della biologia, ma da una teoria sociale.
C'è
però un altro modo di affrontare i problemi ambientali, cioè quello
di considerarli come puri problemi “tecnici”, socialmente
neutrali: il tecnocrate sarebbe quindi il depositario di soluzioni
adeguate. Se si pensa alla composizione del Club di Roma (burocrati e
top managers) si ha chiara la ragione sociale di questa
narrazione dei problemi ambientali. Lo stesso vale per i gruppi di
pressione composti da cittadini “comuni”, formati perlopiù,
secondo l'analisi di Enzensberger12,
da quella media borghesia per la quale sarebbe diventato
esageratamente costoso fuggire dalle brutture dell'inquinamento (alti
costi delle abitazioni fuori città, svalorizzazione dei viaggi
esotici a causa del turismo di massa, ecc.). I confini di quelle
condizioni ambientali che un tempo toccavano solo le fasce più
povere della popolazione diventano più vasti e intaccano la qualità
della vita dei più agiati: dietro ad un presunto interesse “comune”
per l'ambiente si può quindi celare una visione molto particolare.
Una soluzione sarebbe quindi quella di ri-escludere i più dalle
conquiste di benessere (o presunto tale) acquisite nel tempo: una
nuova fase di enclosures (e quindi una nuova creazione di scarsità
-costosi cibi biologici, località incontaminate per le élites,
ecc...) potrebbe essere, e sembra di fatto essere, un'alternativa
percorribile. La neutralità sociale dei problemi ambientali è una
pura finzione: questi dipendono sempre da dinamiche di classe. Di
chi, infatti, si vuole migliorare la condizione di vita? Su questo
bisogna essere chiari, e per esserlo occorre capire i rapporti di
forza, i diversi interessi, e la distribuzione di potere nella
società.
Detto
questo, però, e tornando al punto, occorre riconoscere che i beni
comuni esistono, ed esiste il problema di un loro utilizzo
sostenibile. Cosa sono dunque i beni comuni? Occorre ridurre il tasso
di evocatività della favola di Hardin. Per la scienza economica i
beni comuni sono quei beni “caratterizzati
da non escludibilità e rivalità nel consumo”13.
Un bene non escludibile è un bene a cui difficilmente si può negare
l'accesso agli utenti. La rivalità invece è quella caratteristica
per cui l'utilizzo del bene da parte di qualcuno pregiudica
l'utilizzo di qualcun altro. Tuttavia la soluzione non è né di
natura malthusiana, né di natura tecnica. Bisogna quindi fare
chiarezza, depurando l'analisi dei beni comuni da questi elementi. In
questo senso il libro di Ermanno
Vitale14
è particolarmente importante, perché rappresenta un serio sforzo
verso la critica di questi elementi controproducenti e mistificatori:
occorre preservare (e definire) tali beni rifuggendo, da una parte,
la mistica comunitaria di chi celebra la presunta armonia di comunità
passate (fondate spesso sull'esclusione e sull'ineguaglianza e non
immuni da un cattivo utilizzo delle loro risorse), dall'altra evitare
che la soluzione al problema dei beni comuni diventi un'esclusiva
della religione neo-liberista. Occorre definire lo status pubblico di
tali beni: esistono metodi alternativi al mercato per convivere su
questo pianeta senza distruggerne le risorse.
Come
ricorda David Harvey15,
la vera tragedia odierna non è quella dei commons, quanto quella
della privatizzazione di tutta una serie di risorse comuni
(patrimonio genetico, sapere, vaste quantità di terra -il fenomeno
del land grabbing) che vengono sottoposte al regime del profitto e
della speculazione finanziaria. Mettere in discussione l'attuale
assetto di proprietà e utilizzo di tali risorse è una delle
priorità che la sinistra dovrebbe seriamente prendere in
considerazione. Interpretare i beni comuni come beni fondamentali o
beni pubblici globali, come suggerito da Vitale, come quei beni
indispensabili a soddisfare i diritti fondamentali dell'uomo, e
quindi iniziare a pensare ai “compiti e alle responsabilità”
legati a tale soddisfacimento, potrebbe essere un primo modo concreto
per strutturare i confini di un dibattito finalmente costruttivo.
Matteo Castello
Matteo Castello
2
Ivi, pag. 1245
3Enzensberger,
H.M. A Critique of Political Ecology, in New Left Review,
1974, I-84, pp. 3-31
4Ivi,
pag. 13
5Dall'intervista
di David Martinez a Iain Boal, Specters of Malthus: Scarcity,
Poverty, Apocalypse, Counterpunch.org, 11 settembre 2007
6Benton,
T. Marxism and Natural Limits, in New Left Review, 1989, I-178, pp.
51-86
7Marx,
K. Glosse marginali di critica all'articolo “Il re di Prussia e
la riforma sociale, firmato: un Prussiano”, 1844
8Buck
Cox, S.J. No Tragedy of the Commons, in Environmental Ethics, 1985,
Vol7, Issue 1, pp.49-61
9Ivi,
pg. 50
10Ivi,
pg. 56
11Enzensberger,
H.M. op. cit., pg. 17
12Ivi,
pg. 8
13Tietenberg,
T. Economia dell'ambiente, The McGraw-Hill Companies, collana
Istruzione Scientifica, 2006
14Vitale,
E. Contro i Beni Comuni. Una Critica Illuminista, Editori
Laterza, 2013
15Harvey,
D. The Future of the Commons, in Radical History Review, 2011, 109,
pp. 101-107
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