Santigold - 99¢ (Atlantic, 2016)

La sensazione di “pasticcio” la si ha fin dalla caotica copertina. Tuttavia, pur confermando l’iniziale sensazione, non c’è traccia di chincaglierie da quattro soldi (i 99 cents del titolo) nel terzo lavoro a firma Santigold, bensì una continua, vitale, frastornante, carica di mescolanze pop. Santi White gioca con tutta una serie di stilemi contemporanei, accostando senza soluzione di continuità elementi mainstream ad altri tipicamente indie, per forgiare un personale carioca che, nonostante una superficie scintillante e solare, serba sottopelle un’anima scura e ambigua, ben più approfondita e sfaccettata rispetto al precedente “Master of My Make-Believe”.


La varietà di accostamenti e di stili è tanta: basti una prima metà dell’album che sfoggia brani ciondolanti e spensierati come la prima “Can’t Get Enough of Myself” (arrangiamenti sunshine pop anni Sessanta, piglio brioso e uptempo, reminiscenze ska alla No Doubt), o la mirabolante “Banshee”, vero e proprio baraccone sonoro, vortice di torpori dancehall frutto dell’ipotetico incontro tra Rihanna e la psichedelia pasticciata degli Animal Collective , o ancora “Cashing Shadows”, che sembra spartire la stessa naïveté indie dei Vampire Weekend di “Modern Vampires of the City” (esempio non a caso: tra i vari produttori coinvolti nella realizzazione dell’album fa capolino anche Rostam Batmanglij). L’intento di Santigold, però, non è quello della semplice citazione, quanto di una fertile appropriazione, di un tuffo di testa in una contemporaneità centrifugata, riletta in senso modernista e sottilmente provocatorio (ancora la copertina come dichiarazione d’intenti, o se non altro come segno di alleggerimento, di distensione): bastino da esempio “Rendezvous Girl”, raffinatissimo incalzare di scintillante synthpop alla Chairlift, o la flemmatica e reggae “All I Got”, entrambe colme di gustose intuizioni melodiche e ammiccanti giochi di “già sentito”.




Altrettanto interessante il lato in ombra dell’album: “Big Boss Time Business”, che cova quel wobble sedizioso per tutto il brano (un brano ripetitivo, ossessivo, dalle linee di synth agli accordi di chitarra), “Walking in A Circle”, sibilante meccanismo di trap music compressa, di minaccioso synth-r’n’b industriale (alla maniera di FKA Twigs, sì), “Who Be Lovin’ Me”, molle e decadente caramellina masticata assieme al rapper iLoveMakonnen, o ancora l’elegante ballatona electro “Run the Race”.



Genre-less without losing cohesion”, Consequence of Sound l’ha detto meglio di me. “99¢” è una scorribanda confusionaria ma non confusa, anzi, frutto di un’unica visione (seppur frammentaria, condivisa assieme a diversi produttori), di un preciso metodo e di una sgargiante Santi White in fase di riscoperta pop. “I had decided going into the record that I wanted to have a fun experience making it, because I’ve seen it not be fun for myself and I didn’t want to do it like that anymore…There’s so many different kinds of songs that could be pop songs, I don’t think pop songs should sound the same… I like when pop is still good music, that’s what I like”.
Ecco, appunto: Santigold l’ha detto meglio di me.

Tratto da: http://www.storiadellamusica.it/indie_pop/art_pop/santigold-99(atlantic_records-2016).html
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