Sea Pinks - Soft Days (CF Records, 2015)



Dalle pelli dei Girls Names alla chitarra&voce dei Sea Pinks: è dal 2010 che Neil Brogan coltiva la sua creatura parallela, partita da strade lo-fi/shambling pop e arrivata, con questo “Soft Days”, ad un raffinato indie pop rafforzato da impalcature wave ed impreziosito da venature jangle. Le fascinazioni ottantiane sono sempre presenti, ma questa volta presentate in una veste maggiormente levigata, sia dal punto di vista della pulizia sonora che della cura in sede di arrangiamento: tutto è più nitido e definito, il fuzz in bassa fedeltà degli esordi sostituito da riverberi e armonie cristalline. 

Come un ibrido tra Real Estate e Girls Names a sua volta intento a fare il verso ai Close Lobsters, il gruppo di Belfast sembra aver trovato una formula vincente, infilando uno dopo l'altro i pezzi di una scaletta godibile, con pochissimi cedimenti. L'estro post-punk e garage di “(I Don't Feel Like) Giving In”, l'uptempo di “Ordinary Daze”, con quella chitarra twang a colorare un incedere jangly sospinto da un basso brioso, o la vagamente dreamy e in salsa EZTVCold Reading”, col suo gioco di accenti impresso da Davey Agnew sui piatti: dovunque i segni di come, questa volta, l'attenzione per i dettagli -per quanto ludici- sia stato elemento preponderante in sede di composizione. E quindi i ricami fraseggianti delle chitarre tremule in “Trend When You're Dead”, o gli incastri perfetti tra parti ritmiche e riff graffianti della bella “Green With Envy”, o le espansioni shoegaze in “Down Dog”, o ancora il grave saliscendi di accordi dell'ultima “Soft Days”, con tanto di raffinata coda psichedelica.

Tra un veloce power pop alla Vaccines (“Yr Oroscope”) e una ballata di surf pop da chiaro di luna (“I Won't Let Go”), “Soft Days” non smette mai di proporre variazioni sul tema, mischiando peraltro una sensibilità tipicamente british (vagheggiante, cerebrale) ad una fisicità e schiettezza più proprie ad approcci d'oltreoceano (penso ai DIIV, o a tutta la schiera di indie poppers da spiaggia sparsi lungo gli States). 


Certo, il genere in questione è ormai una sorta di “standard” dell'indie contemporaneo: occorre trovare espedienti per distinguersi, per dar slancio alla proposta. I segni, qui, sono rassicuranti: un'ottima sensibilità melodica che assume, qui e là, direzioni tutte personali (ci sento qualcosa di adulto, di autoriale), e il promettente fantasismo della chitarra (che cambia continuamente stato: dalle rarefazioni psych, alle solidità ruvide e garage, passando per le consistenze metalliche in twang). Insomma, il salto di qualità rispetto alle prove passate c'è stato. Ora non rimane che perseverare.

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