Il fortunato “Total
Strife Forever” (2014, Stolen) aveva subito
imposto William Doyle, in arte East India Youth, come
grande promessa del synth-pop
britannico. Una promessa che oggi, con il secondo “Culture of
Volume”, conferma pienamente le attese più esigenti, portando
su un livello di assoluta eccellenza le ottime intuizioni che
facevano capolino nel primo album. Già, perché in fondo, nonostante
la risonanza, quel primo episodio appariva sì ricolmo di idee ma non
ottimamente congegnato, anzi disordinato e irrisolto, tra suite di
spessa elettronica e prove di electro-cantautorato che
sembravano non trovare una vera e propria sistemazione organica nel
flusso sonoro.
“Culture of
Volume” si fa invece portatore maturo di una visione a tutto
tondo, erigendo un monolite di big music per sintetizzatori
dove l'approccio all'arrangiamento è imponente, sinfonico: gli
strati di synth si sovrappongono e si intrecciano per creare solenni
mura di suono, gli elementi si affastellano come in un mosaico,
creando gonfie e ricche matasse in sviluppo ascensionale, in continua
dilatazione. Ogni cosa, però, è al servizio di un songwriting
altrettanto creativo e frastagliato, capace di unire eleganza formale
ad inediti sviluppi futuristici. Come non pensare ad uno Scott
Walker digerito prima da Gary Numan e poi da Owen
Pallett?
Fatta eccezione per
l'intro (“The Juddering”, rotore di synth a grana spessa
sommerso da rumore bianco lentamente nebulizzato in coltri spaziali),
l'intermezzo (“Entirety”, propulsione martellante di
aggressiva dance music) e l'outro (“Montage Resolution”,
mesmerizzante sampledelia di accordi minimalisti), l'album assegna un
ruolo meno pregnante al formato strumentale, qui relegato perlopiù
agli estremi come ideale cornice di un pulsante cuore left-field
pop.
“End Result”
è il primo grande manifesto della maturità. Una successione di
movimenti che procede per accumulo, dal loop iniziale ai rintocchi di
vibrafono, fino all'intervento di un synth che -entro un intricato
reticolo ritmico e le sontuose parti per archi- modulerà con la sua
grana variabile il mood di un brano impegnato ad affrontare plurimi
passaggi di stato, dalla sublimazione iniziale alla conquista di
sempre maggiore densità, fino all'epica impennata della coda (uno
straordinario exploit di synth baluginanti). Nemmeno il tempo di
prendere fiato che il tappeto percussivo di “Beaming White”
ci avviluppa nelle sue spire, tra movenze di plastico art pop
alle Mew e cadenze electro in stile Pet Shop Boys.
“Turn Away” procede solenne tra un fiorire di tastiere
elettroniche che si ammassano per condurre le liriche di Doyle ad
un'intensa cavalcata motorik dove sono metabolizzati a
perfezione gli insegnamenti di Horrors e Toy (bello
trovarli qui, segno di quanto pervasiva e versatile sia stata la loro
proposta).
Il fatto che un
brano techno-dance come “Hearts That Never”
(pulsare ultrabasso della cassa misto ad un'effettistica vorticosa e
scintillante, in un florilegio di effetti chiptune e di
patterns breakbeat) si integri tanto bene nella scaletta è
solo una delle tante occasioni per ragionare sulla compattezza di cui
è dotato questo “Culture of Volume”: William Doyle
ha connotato la sua proposta di una tale identità che ogni brano,
pur nella sua piena autonomia, è saldamente integrato in una visione
complessiva, ben maggiore della somma delle parti. Lo stesso discorso
vale per i brani restanti: “Don't Look Backwards” è una
sgargiante progressione melodica immersa nei riverberi di piano che
ricorda il modo compositivo dei Junior Boys di “Last
Exit” (ogni micro-elemento in perfetto incastro funzionale),
mentre “Manner of Words” è il brano del perfetto
equilibrio tra tensione drammatica/epica e gestione dei tempi, per un
lento flusso dove scrittura e arrangiamento si completano e
rinforzano reciprocamente (le liriche in sviluppo corale, i synth
sempre più saturi che si sposano alla linea melodica punteggiata
dalla tastiera), forgiando uno dei pezzi più coinvolgenti della
scaletta.
“Carousel”
è però la vera mosca bianca di “Culture of Volume”: un
diafano crescendo di volute sintetiche che creano una spianata
algida, adatta perché la voce limpida di Doyle
possa disegnare senza
alcuna fretta una melodia dilatata, di intensità quasi devozionale,
condotta verso un'inesorabile climax che si spegne in uno dei momenti
più intensi che la musica pop sia stata capace di regalare negli
ultimi anni (quel motivo dolente che lascerebbe presagire una stasi e
invece è trasformato in estatica cascata d'organo).
L'irradiante
caleidoscopio marchiato East India Youth ha una stazza davvero
imponente, forgiando un linguaggio unico ed imprevedibile, che sembra
avere tutte le qualità per imporsi e superare la prova del tempo. I
frequenti paragoni con i maestri Brian Eno e David Bowie,
per quanto lusinghevoli, rischiano però di non centrare il punto:
Doyle non bazzica i territori art-schizoidi del primo né le
rigide ed alienate meccaniche berlinesi del secondo. “Culture
of Volume”, per quanto debitrice dei grandi del passato,
è una gemma figlia del nostro tempo (da Tim Hecker ai Cut
Copy, più tutto quello che c'è in mezzo e attorno), capace di
innovare immaginandosi il futuro e al contempo di parlare una lingua
rassicurante, ancorata al presente. È il gioco del pop, bellezza. Ed
era da un po' che non ci si divertiva tanto.
0 commenti:
Posta un commento
Commenta e dimmi la tua. Grazie!