1967, l'anno in cui tutto esplode.
L'underground esce definitivamente alla luce del sole, anche
grazie al crescente interesse del mercato, la controcultura è più consapevole,
forte e fiorente che mai, la California è la terra promessa per artisti,
intellettuali e attivisti politici. La musica rock americana ha saputo
riportare tutto a casa (Bringing It All Back to Home...) alcuni anni
prima grazie all'impegno di Bob Dylan,
strappando alla Gran Bretagna il ruolo di centro culturale che ha mantenuto per
tutta la prima metà degli anni '60.
L'America degli hippie e dei freaks ha saputo imporre la
musica come esperienza totale, ha saputo nobilitare il rock facendolo diventare
fenomeno sociale e politico, oltre che culturale, trascendendo i connotati di
semplice passatempo che questo aveva sempre avuto, rivestendolo di spessore
cerebrale e letterario, rendendo l'ascolto qualcosa di estremamente
impegnativo, connotante e coinvolgente.
Gli eroi di questa rivoluzione sono molti: dalla satira
colta e poliedrica di Frank Zappa,
al decadentismo metropolitano dei Velvet
Underground, all'esistenzialismo mistico dei Doors fino agli
esperimenti acidi dei Grateful Dead.
Un vero pullulare di intuizioni e illuminazioni, una irrefrenabile foga
espressiva e creativa.
In questo contesto si inserisce un altro celebre gruppo,
vero e proprio testimone del comunitarismo hippie: i Jefferson Airplane. Già conosciuta dal 1965 e con all'attivo due
album, “Jefferson Airplane Takes Off” e “Surrealistic Pillow”,
la band di San Francisco decide di andare oltre alla psichedelia in forma
canzone dell'ultima splendida prova, contenente inni quali “White Rabbit” e “Somebody To Love”, per avventurarsi in un acid blues
ancora più sperimentale ed azzardato, dando spazio a possibilità che non erano
ancora state pienamente sfruttate.
Qui sta la grandezza della band, nel saper incarnare
l'ideale comunitario non avendo una sola figura di riferimento nella propria
line-up. Certo, il fascino di Grace Slick ne faceva un elemento
riconoscibile e caratterizzante, ma sul piano artistico la carriera degli Arplane si è sempre delineata in modo
tale che ogni album risentisse dei contributi dei diversi componenti, in una
sorta di rotazione del ruolo di mente creativa. Il gruppo per eccellenza, mi
verrebbe da dire, in cui ogni elemento pesava allo stesso modo di tutti gli
altri.
Così “After Bathing
at Baxter’s” è l'album dove viene fuori più che mai la matrice sperimentale
e psichedelica del chitarrista Paul Kantner, vero protagonista di questo
lavoro insieme alla Slick, entrambi interessati a fare qualcosa di “meno
commerciale” rispetto al precedente successo. Se infatti “Surrealistic Pillow”
era dominato dall'approccio folk e cantautorale di Balin, il nuovo
sforzo stava nel superare i limiti dei tre minuti di durata dei brani per
concentrarsi maggiormente sul contenuto e sulla sperimentazione.
Lo studio di registrazione, una villa di L.A. affittata per
5000$ al mese, diviene il laboratorio dove per sei mesi (invece dei 13 giorni
che richiese la creazione del precedente) i Jefferson Airplane mettono alla prova la loro perizia e la loro
fantasia, consolidando oltre all'impegno artistico anche la vita di gruppo.
In “After Bathing at
Baxter’s” la linearità dei brani si fa sempre più intricata e traballante,
per sviluppi imprevedibili, armonie complesse, dilatazioni surreali e massicci
utilizzi di feedback ed effetti sonori.Ed ecco che con la prima “The Ballad of You &
Me & Pooneil” appare
tutta in una volta la carica immaginifica di Kantner per un brano dagli
sviluppi mozzafiato e imprevedibili. Un baccanale dove le voci in coro sono
trascinate e sospinte da una ritmica incalzante e sregolata, da un costante
fiorire di assoli e da una lead guitar più acida che mai. Gli sviluppi, dicevo:
rallentamenti riflessivi e cavalcate elettriche, in un continuo sussulto
febbrile incapace di dare attimi di tregua. Il vagheggiamento tenebroso di metà
brano, a cui è affidato il compito di concedere qualche istante agli altri
strumenti, non fa però che darli la carica per un finale ancora più corrosivo e
coinvolgente di prima, per un tripudio estatico che segna uno dei migliori
esempi di acid blues anni '60.
Se il buon giorno si vede dal mattino...
Segue “A Small Package of Value Will Come to You, Shortly”, episodio tanto breve quanto
straniante rispetto all'hype del primo brano. Un collage schizofrenico di suoni
sparsi esplicitamente studiato per rendere omaggio al grande re del genere, il
mitico Frank Zappa.
Solo uno stacco freak però, perché “Young Girl Sunday
Blues” torna a catturarci
in maniera quasi commovente, grazie anche al vuoto creato dall'insolito
intermezzo, fornendoci un'irresistibile sintesi frutto della collaborazione di Marty
Balin, capace come al solito di nobilitare il brano col suo magico lirismo,
e di Paul Kantner e le sue visioni psichedeliche. Altro brano
dall'immediata potenza immaginifica, mollemente adagiato sul basso supremo di Jack
Casady, direttamente ispirato dalle soffici composizioni del precedente Lp.
“Martha”
segue cambiando nuovamente tono al tutto, dando vita ad un leggero arpeggio
folk, subito inacidito dalla chitarra elettrica e elevato dalla voce della Slick.
Un flauto ad aggiungere leggerezza al pezzo, per una composizione onirica ed
ipnotica, caratterizzata per il suo raccoglimento intimista ed ermetico,
giocata su un alternarsi cromatico raffinato e complesso.
La successiva “Wild Tyme (H)” si scrolla di dosso la quiete in cui ci eravamo appena
adagiati per dar sfoggio ad un tipico pezzo di battaglia alla “Somebody to Love”: calcato e
velleitario, slanciato e accelerato da un Kaukonen in grado di dare il
meglio di sé, imbevuto da un senso di immanenza e fatalità, profetico nel
dipingere con straordinaria passione lo spirito degli anni '60 più battaglieri
e combattivi. Kaukonen si cimenta subito dopo nell'infiammato blues di “The
Last Wall of the Castle”,
velocissimo e immediato, ultimo slancio di aggressività prima di quello che
sarà uno dei brani più raccolti della carriera dei Jefferson.
“Rejoyce”
vede Grace Slick alle prese con una ballad colta, ispirata allo stream
of consciousness dell'Ulysses di Joyce, dominata da un piano grave e lento,
precipitato in una vorticosa discesa dall'intervento di una ritmica jazzata e
marziale, volta allo sviluppo orientaleggiante e mistico che ci stordisce dopo
vari saliscendi melodici, per riportarci, sotto la guida del basso plastico di Casady,
verso un crescendo di somma perizia, esemplare nel far convergere ogni elemento
in un'armonia totale e perfetta, virtuosa e altamente poetica.
E ancora Kantner a rimembrare i toni di “Wild Tyme
(H)” nella cavalcata di “Watch Her Ride”, prima che l'atmosfera venga del tutto stravolta dalla
monolitica stazza della spaventosa suite di “Spare Chaynge”. L'efferatezza e la visionarietà di
questa nuova prova dei Jefferson
Airplane appare qui in tutta la sua grandezza. Un lento affiorare di
sonorità sfocate e vaghe, un lento prendere consistenza tutto teso ad una
combustione spontanea causata dall'inesorabile arroventarsi dei suoni. Un tira
e molla stordente, una serie di rallentamenti e riprese caustiche e dagli esiti
imprevedibili, un potenziale immaginifico mai sperimentato frutto della
esemplare sintonia di Casady, Dryden e Kaukonen. Chiedete
ai Quicksilver Messenger Service da chi hanno tratto ispirazione per le
scorribande desertiche di “Happy Trails”. Gli apici raggiunti in questo brano non torneranno più,
perlomeno non sotto queste spoglie, rappresentando un inimitabile esempio di
sregolatezza e genialità, uno dei vertici del rock psichedelico di sempre.
Le sorprese non sono finite ovviamente, gli ultimi due brani
hanno ancora molto da dire. A partire da “Two Heads”, altro capolavoro targato Grace
Slick, sorta di “White Rabbit”
rivisitata e stravolta, capace di unire ritornelli soffici, delicati e
vellutati a strofe gravi e ruvide, per un dualismo vertiginoso e traballante.
Ma è l'ultima “Won't You Try/Saturday Afternoon”, indelebilmente legata a quella
splendida esecuzione a Woodstock all'alba, a chiudere degnamente le danze. Un
morbido e sospeso incedere ci accompagna per mano nel suo invito ad espandere
la coscienza, all'esperienza lisergica, alla trascendenza totale. L'ennesimo
inno involontario, scaturito da una creatività strabordante e da una passione
senza freni, da un idealismo capace di imporsi con fermezza sfrontata sulla
realtà.
L'anima degli anni '60, questo è “After Bathing at
Baxter's”, dunque immenso ed
emozionante, enfatico, senza freni, immaginifico, radicale, sfrontato,
ambizioso e capriccioso, superbo.
La grandezza di quella generazione sta tutta qua,
intimamente legata con questi suoni che danno effettivo potere
all'immaginazione. Una testimonianza più preziosa di quanto si possa
immaginare.
Grazie Grace, grazie Jorma, Marty, Spencer, Paul e Jack. Di
cuore.
Peace.Recensione tratta da: http://www.storiadellamusica.it/classic_rock-psichedelia-wave/acid_blues/jefferson_airplane-after_bathing_at_baxter_s%28rca-1967%29.html
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