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Loop:
qualcosa che si ripete incessante, ipnotico, in assenza di variazioni
sostanziali. Così tutto sembrava scorrere da mesi, un lento
susseguirsi di gesti e persone che assecondavano le loro abitudini
(chissà da quanto) con rassegnata noncuranza. Si potrebbe dire con
un buon grado di comfort. Tutte le mattine, fatta eccezione per il
week end, lo stesso padrone con lo stesso cane (un golden retriever
giallo [o meglio marrone chiaro, che forse una volta assomigliava ad
un beige pallido]) attraversava la strada dopo aver concesso alla
bestia la consueta sgranchitina alle zampe (il cane camminava piano
[chissà come era da cucciolo, chissà se era abituato a fare lunghe
corse e a ruzzolare per i prati]). Un impiegato appena sceso dalla
sua utilitaria si incamminava verso gli uffici della banca che lo
aveva assunto (quanto tempo fa? Cosa voleva fare quest'uomo a
vent'anni?). Una vecchia tornava a casa dopo le compere mattutine,
segno di una precoce preoccupazione riguardo a cosa preparare per
pranzo (perché rincasava così presto? Non dormiva? Si svegliava
alle cinque quando fuori era ancora buio e lei invece già accesa? [e
la sua vita era stata una lampadina fioca o una torcia ardente?]).
Ogni
giorno la sequenza era pressapoco la stessa, e mentre la macchina
filava sull'asfalto infilandosi in code più o meno lunghe e frecce e
stop, io cambiavo giusto il cd nel lettore, apparentemente l'unica
fonte di discrepanza nella totale reiterazione (in fondo, pensavo
quel giorno, anche il pop si basa sulla ripetizione: la canzone deve
entrare in testa, la melodia deve farsi riconoscibile, evitando però
la monotonia, alternando quindi alla solita struttura
strofa-ritornello molteplici stacchi e variazioni [ascoltavo Neil
Young che ad un certo punto si lanciava in una lunga coda strumentale
e sfrigolante che squarciava tutto]).
Il
bar dell'autogrill dove lavoravo iniziava a riempirsi proprio mentre
varcavo le porte scorrevoli, come al solito, costringendomi ad un
rapido cambio di tenuta per dar man forte al collega già alle prese
con caffè e cappuccini e mandare a casa il tizio del turno di notte
(un tipo strano, sembrava assente, dava un volto al concetto di
“lavoro logorante”). Non esistevano veri e propri momenti di
quiete in quell'oasi preconfezionata sull'autostrada, a pochi
chilometri dalla città. La gente trova un motivo per viaggiare e,
quindi, per sostare, ad ogni ora, generando così un flusso a
corrente alternata di clientela pagante. Chi più, chi meno gentile,
ma tutti con lo stesso set di esigenze, di voglie. “Un caffè e un
pacchetto di Lucky”. “Un caffè e un cornetto, grazie”. “Mi
da un grattaevinci e un caffè?”. Il caffè c'era sempre, come in
rappresentanza del pegno da pagare per aver interrotto la corsa.
C'era a colazione, c'era a metà mattina, e poi a pranzo e nel
pomeriggio, fino alle ore più improbabili della notte. Un'abitudine
continuamente rigenerata.
[Non
è vero che l'universo è in eterna espansione. L'universo è
impegnato in un continuo, incessante, movimento oscillatorio: si
gonfia e poi collassa, si gonfia e di nuovo collassa e così via,
all'infinito].
Io
passavo dalle tazzine alle spremute, dalle piastre per scaldare i
panini al frigo delle bevande, passando in cassa quando gli altri
colleghi erano impegnati al banco e viceversa. Poi, ad un certo
punto, il turno era finito e potevo riprendere la strada verso casa:
l'autogrill avrebbe continuato a vivere anche senza di me, grazie
all'intrecciarsi dei turni lavorativi, grazie al ricambio umano
perfettamente congegnato (pareva che una minima incrinatura in quel
ritmo avrebbe potuto mandare tutto a monte, e quel rischio lo si
percepiva nell'aria, sembrava così a portata di mano, così
allettante, eppure così temuto [ne andava della tenuta dell'intera
umana società, non si trattava solo di un panino mancato o di una
birra non spillata].
Il
traffico era di nuovo lì ad aspettarmi: lunghe file di luci rosse e
segnali lampeggianti, scorrimenti lenti, a scatti nervosi, improvvise
accelerate, insulti imprigionati dentro gli abitacoli, sguardi
annoiati, volti logori. Le lamiere delle auto riflettevano i lampioni
che saettavano in file ondulate, navigando liquidi sulle cromature
variopinte (ogni colore di carrozzeria era il risultato di una
scelta, era la manifestazione di una preferenza). Ci sarebbe voluta
almeno un'ora per arrivare a casa. Il semaforo diventava rosso in un
attimo, poi nuovamente verde, ma prima di essere coinvolti nel flusso
in avanti generato dallo sgombero delle prime file occorreva
aspettare, come incastrati in un fastidioso time lag. Tutto pareva
scorrere al rallentatore, in un apparente caos che, con un po' di
attenzione, si rivelava per quello che era: un ordine ripetitivo,
infallibile.
Ero
al terzo stop, questa volta erano due le autovetture che mi
separavano dal verde. Ero stanco, e vivevo nelle mie parentesi (che
mi rivelavano uno ad uno i meccanismi in cui tutti, compreso me,
stavano incastonati in quel momento [e più che un momento si
trattava di un atto, di una rappresentazione sociale]). Le
parentesi sono importanti, me ne accorgevo man mano che l'attesa
tendeva al suo limite estremo: lo sblocco, la ripartenza. Verde. La
prima macchina si defila, la seconda invece si blocca a causa forse
di un errore umano (un pedale schiacciato male, il conducente stanco
che si è dimenticato di passare dalla seconda alla prima). Clacson,
come previsto, un concerto dissonante capace di formare un bordone
composto da tanti picchi sovrapposti.
(E
se succedesse qualcosa? E se bastasse un intervento non programmato
per fermare tutto questo?). Le parentesi sono importanti, lo
ripensavo mentre rilasciavo piano la frizione e iniziavo a portarmi
in avanti, sempre più avanti, fino a toccare il paraurti del mezzo
davanti. Il tonfo sembrò fermare tutto per un istante. L'incredulità
del tipo che aveva subito la mia presunta sbadataggine si tradusse
prima in immota incredulità, poi in un rapido uscire dalla macchina
per verificare l'entità del danno (niente di realmente grave, se si
considera la serietà del termine “grave”). Il conducente
guardava il paraurti ammaccato e poi cercava nel mio sguardo una
reazione, un “mi spiace, mi scusi, ora esco e risolviamo la
faccenda come da copione”. Io invece stavo fermo, raggiante:
ammiravo le lamiere contorte, in evidente disequilibrio. Avevo
sbloccato il loop.
La
decisione era presa. Misi in retromarcia e poi accelerai. Questa
volta l'urto fu più forte, e fece sobbalzare l'auto colpita di un
buon metro in avanti. L'autista aveva scartato di lato ed era
spaventato e furente. I clacson avevano ricominciato a suonare
furiosamente, mentre qualche conducente era sceso dalla sua vettura
per rendersi conto di cosa stesse succedendo. Retrocedetti ancora e
accelerai, questa volta prendendo di sbieco l'auto e sfruttando il
verde che stava già per spegnersi. Seconda, terza, quarta, in un
attimo avevo raggiunto la fila successiva, ma questa volta scartai su
un lato per superarla, incurante delle auto che arrivavano in senso
opposto (che d'altronde avevano tutto lo spazio per evitarmi). Il mio
violare il codice della strada e le più basilari norme di convivenza
tra automobilisti non era però sufficiente a sconquassare i gangli
di una matassa resa dura e ottusa dallo scorrere passivo del tempo e
dall'obbediente osservanza altrui. Decisi di speronare le auto che
avevo intorno, badando a non provocare danni irreparabili alla mia
vettura, che doveva continuare la sua corsa anarchica. Saltavano
specchietti retrovisori e vetri, si aprivano squarci sulle portiere,
airbag esplodevano negli abitacoli. Le luci dei lampioni non stavano
più in fila, sinuose, sui tetti, ma rimbalzavano di qua e di là
come saette impazzite, e così facevano gli abbaglianti delle auto,
impegnati in una comunicazione disperata e frenetica. Tutto stava
letteralmente saltando per aria (chissà a cosa pensava la gente,
ormai la notizia di uno squilibrato sull'autostrada che svoltava in
contromano e poi riprendeva la giusta corsia tamponando all'impazzata
doveva essere in diffusione su tutte le radio [c'era chi aveva paura,
chi era curioso, chi voleva imitarmi, chi voleva linciarmi?]). Sarei
dovuto uscire dalla macchina e chiedere ai diretti interessati, ma
continuai a correre, ora sprigionando fasci di scintille lungo il
guard rail, ora facendo saltare cerchioni e infrangendo fari
luminosi.
Presto
un nuovo stimolo visivo mi colpì la retina: un paio di luci
intermittenti, di colore blu, che si ingrandivano nel mio specchietto
retrovisore, e man mano che si ingrandivano aumentava anche il suono
di una sirena. Una volante della polizia mi fu subito dietro.
Accelerai nel tentativo di seminarla, ma mi scoprii un pilota poco
abile, perché dopo qualche centinaio di metri di inseguimento le
volanti (che nel frattempo si erano come moltiplicate), mi
speronarono facendomi finire fuoristrada. Non so quante volte il mio
mezzo si ribaltò su se stesso, so solo che si fermò nuovamente in
posizione corretta. Sentivo del sangue scorrermi sul viso, avevo male
al braccio destro e un po' di nausea iniziava a pervadermi. Aprì la
portiera e uscì. Mi abbagliarono i fari della polizia. Sentì un
ordine: “mettiti in ginocchio, le mani in alto, ben in vista!”.
Mi
misi invece su una gamba sola, nel tentativo di mantenere un
difficile equilibrio, vista la mia nausea e i miei dolori (chi erano
costoro per darmi ordini? Perché dovevo rimettere tutto in loop
proprio sul più bello?). “Le mani in vista!”, urlò
feroce un agente. Io feci una piroetta e iniziai a portare una mano
giù, verso la tasca della giacca. “Ha una pistola, è armato!”,
strillò un agente ai colleghi, e subito si rivolse nuovamente a me:
“tieni le mani in alto, subito! Tieni quelle fottute mani
alzate!”.
Misi
la mano in tasca e feci uno scatto per ritirarla fuori, tutto questo
mentre improvvisavo un tuffo con avvitamento in direzione dei fari
che mi accecavano (dentro all'abitacolo Neil Young -strano ma vero-
suonava ancora, la sua chitarra gemeva contorta negli ultimi minuti
di una jam infuocata). Scompiglio, urla, uno sparo.
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